4 bassotti per un danese, quella Hollywood pastello che fa bene al cuore
lunedì, settembre 15, 2025C’è un film che ha il potere di alleggerire qualunque giornata storta. Non è tra i grandi capolavori citati nei saggi di cinema, né ha la complessità narrativa di altre pellicole di quell’epoca, ma ha qualcosa di rarissimo: ti fa stare bene.
Parlo di 4 bassotti per un danese, commedia Disney del 1966 che unisce leggerezza, romanticismo e un umorismo garbato, capace di far sorridere anche dopo una giornata no.
È entrato nella mia vita da bambina, quando ancora non avevo idea di cosa fosse la “vecchia Hollywood”. Ma qualcosa, già allora, mi faceva sentire a casa: la musica spensierata, gli abiti curati, la casa ordinata con i suoi letti gemelli e quel mix di tenerezza e caos portato in scena da un gruppo di cani indimenticabili. Solo più avanti ho iniziato a riconoscere gli attori in altri film: Dean Jones, Suzanne Pleshette, Charles Ruggles, Charles Lane. Ma per me resteranno sempre il veterinario dei bassotti, il giudice dell’alano, i coniugi che cercano invano di salvare la casa dall’invasione pelosa.
È un film spesso sottovalutato, dimenticato dai più. E non è stato facile trovare materiale: poche interviste, fonti sparse, citazioni brevi. Ma come sempre, mi sono messa a scavare. E scavando ho trovato storie, retroscena, frammenti di vita vissuta che non conoscevo… e che mi hanno fatto amare ancora di più quegli attori e quel mondo.
Con questo articolo provo a raccontare un po’ di tutto questo: chi erano davvero gli attori che mi sembravano amici di famiglia, quanto lavoro ci fu dietro all’addestramento dei cani (non solo uno, ma molti “Brutus” e una piccola squadra di bassottine), le scenografie di quella casa da sogno e anche qualche retroscena curioso – come la gelosia della Yorkshire di Suzanne Pleshette, o l’incidente che segnò la svolta spirituale di Dean Jones.
Ma più di tutto, questo vuole essere un piccolo omaggio a un film che non pretende nulla… se non farci stare bene per un’ora e mezza. E in certi momenti, basta questo per ritrovare un po’ di serenità.
In fondo all'articolo troverete anche il link per vedere subito il film.
Il titolo originale è The Ugly Dachshund, ed è un film del 1966 diretto da Norman Tokar con Dean Jones e Suzanne Pleshette.
Trailer:
La trama in breve: Fran e Mark Garrison sono una giovane coppia che vive in una bella casa suburbana, insieme alla loro amata bassotta Danke. Quando Danke dà alla luce tre cucciole, il veterinario — il premuroso dottor Pruitt — propone a Mark una soluzione insolita: una mamma alano ha avuto troppi cuccioli e non riesce ad allattarli tutti. Uno rischia di non sopravvivere. Forse Danke, che è molto materna, potrebbe fargli da balia? Mark accetta, un po’ per compassione… e un po’ perché in realtà sogna da sempre un cane di grossa taglia. Così il cucciolo di alano, Brutus, entra in casa Garrison e cresce convinto di essere un bassotto come gli altri.
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Alcune scene dal film |
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Foto promozionali |
Siamo a metà degli anni Sessanta. La New Hollywood deve ancora esplodere, ma qualcosa inizia a scricchiolare nel mondo patinato della commedia borghese americana. Sullo schermo dominano ancora le storie con Doris Day e Rock Hudson, Shirley MacLaine e Jack Lemmon: coppie eleganti che vivono in appartamenti perfetti, si rincorrono tra equivoci sentimentali e si danno la buonanotte nei loro letti gemelli. È un cinema di rassicurazione, di ordine domestico, dove tutto può andare storto solo per ritornare rapidamente al proprio posto.
La Disney, in questo contesto, trova il suo spazio naturale. Dopo il successo dell’animazione degli anni ’50, negli anni ’60 lo studio si concentra sempre più sul live action: film per famiglie, spesso con protagonisti animali, capaci di far ridere senza graffiare. Geremia cane e spia, FBI operazione gatto, Un professore fra le nuvole sono solo alcuni dei titoli che, pur con toni diversi, condividono questa impronta di leggerezza. È proprio in questo filone che nasce 4 bassotti per un danese, uscito nel 1966.
In un’America che fuori dagli schermi si confronta con il Vietnam, le lotte per i diritti civili e una gioventù sempre più inquieta, questi film rappresentano una sorta di rifugio. Lo spettatore sa cosa aspettarsi: un’estetica familiare, una trama senza scosse e un lieto fine garantito. E se a sconvolgere l’ordine della casa non sono rivoluzioni o tensioni sociali, ma un gruppo di cani irresistibili, tanto meglio.
Alla base di 4 bassotti per un danese c’è una storia tenera e surreale nata dalla penna di Gladys Bronwyn Stern, scrittrice britannica nota per i suoi romanzi domestici dal tono affettuoso e ironico. Il libro da cui il film prende spunto, The Ugly Dachshund, ruota intorno a un’idea semplice ma ricca di potenziale comico: un enorme alano cresce insieme a un gruppo di bassotti e finisce per credere di essere uno di loro.
Il titolo stesso gioca su un’assonanza voluta e affettuosa: “Ugly Dachshund” richiama The Ugly Duckling — la favola di Hans Christian Andersen il brutto anatroccolo — e rievoca quel meccanismo narrativo dove un “diverso” viene scambiato per ciò che non è, generando tenerezza, caos e alla fine accettazione. Solo che qui, al posto delle piume c’è un mare di peli, e invece della trasformazione in cigno troviamo la consapevolezza (buffa ma autentica) di essere un cane fuori misura nel corpo sbagliato.
Walt Disney acquista i diritti del romanzo per inserirlo nel filone delle sue commedie live-action: ambientazione borghese, dinamiche familiari, animali irresistibili e situazioni sempre sul filo dell’equivoco.
Lo studio affida l’adattamento allo sceneggiatore Albert Aley, che ha semplificato la struttura, inserendo una giovane coppia come protagonisti e arricchendo il racconto con gag fisiche, malintesi quotidiani e un grande amore per il mondo animale.
Come avveniva spesso in quegli anni, il film viene concepito all’interno del “programma perfetto Disney”: il lungometraggio principale sarebbe stato abbinato a un corto animato. In questo caso, 4 bassotti per un danese verrà affiancato alla prima apparizione sul grande schermo di Winnie the Pooh and the Honey Tree. Una scelta felice… forse fin troppo: l’orsetto goloso conquisterà così tanto il pubblico da mettere in ombra il film che doveva accompagnare. Ma su questo tornerò più avanti.
A dare il via libera al film è stato Walt Disney in persona. In quegli anni, nonostante fosse impegnato su molti fronti (dalla televisione a Disneyland), Walt continuava a mantenere il controllo creativo sulle produzioni live-action. Aveva un debole per le commedie con animali e vedeva in questa storia il potenziale perfetto per una pellicola spensierata, dal ritmo comico, adatta a tutta la famiglia.
Affida la produzione a Winston Hibler, uno dei suoi collaboratori più fidati. Hibler conosce bene la formula Disney: è stato narratore, sceneggiatore, produttore, e soprattutto è uno di quelli che sanno esattamente come bilanciare tenerezza e gag visive. È lui a gestire la lavorazione in modo ordinato, sempre allineato alla visione di Walt.
La regia viene invece affidata a Norman Tokar, uno dei nomi meno noti al grande pubblico, ma tra i più importanti registi “di casa” per la Disney. Tokar ha iniziato la sua carriera dirigendo episodi di serie TV come Leave It to Beaver, ma è nel cinema per famiglie che si è affermato come una certezza: ritmi serrati ma rassicuranti, tono garbato, grande attenzione agli attori — siano essi umani o a quattro zampe.
Tokar è già una colonna del reparto live-action dello Studio: ha diretto Sam il selvaggio, I ragazzi di Camp Siddons, Il cowboy col velo da sposa (come aiuto regista) e più avanti firmerà anche La banda delle frittelle di mele e Una ragazza, un maggiordomo e una lady. Walt lo considera una garanzia. Il suo stile è pulito, diretto, senza virtuosismi ma con grande capacità di raccontare attraverso l’azione. Sa come gestire gli animali sul set, come costruire sequenze comiche a base di disastri domestici, e soprattutto — come ottenere performance credibili da attori circondati dal caos.
Nelle riprese di 4 bassotti per un danese, questa sua abilità si nota subito. Tokar dosa bene slapstick e momenti più affettuosi, lavora molto sull’equilibrio tra dinamica di coppia e comicità “canina”, e riesce a trasformare anche una scena semplice come una colazione rovesciata o un picnic devastato in una coreografia buffa ma ordinata. È un artigiano della regia familiare, e la sua mano si sente in ogni dettaglio: dagli inseguimenti in giardino alle reazioni degli attori che devono far finta di avere dietro quattro bassotti scatenati e un alano gigantesco.
Per il personaggio di Mark Garrison, Walt Disney ha un solo nome in mente: Dean Jones, lo stesso che in quegli anni sta diventando il volto ideale per le commedie familiari dello Studio. Dopo il successo di That Darn Cat!, è chiaro che il pubblico lo ama. Rappresenta l’americano medio con un sorriso pronto, una vena di ironia e un modo di reagire alle disgrazie domestiche che fa subito simpatia. Ed è proprio questo che serve per interpretare un marito artista travolto da un cucciolo di alano e tre bassottine scatenate.
La carriera di Dean però non è iniziata a Hollywood. Nato in Alabama nel 1931, comincia giovanissimo in radio, con un programma locale dove canta e si fa notare per la sua voce calda e la presenza scenica. Dopo il diploma si iscrive all’università, ma la abbandona per arruolarsi nella Marina durante la Guerra di Corea. Al rientro, tenta di sfondare nel mondo della musica, ma è la recitazione a imporsi: nel 1956 firma il primo contratto con la MGM.
Partecipa a film e show televisivi (compreso Jailhouse Rock con Elvis), ma è a Broadway che il suo talento esplode: nel 1960 debutta in There Was a Little Girl, seguito da Under the Yum Yum Tree, di cui interpreterà anche la versione cinematografica nel ’63.
È proprio grazie a questa commedia che la Disney si accorge di lui. Lo studio sta cercando un nuovo volto per le sue produzioni live-action, e Walt — colpito dalla sua performance in TV nella serie Ensign O’Toole — si fa mandare una copia del film. Dopo averlo visionato, lo convoca e lo inserisce in quella che diventerà una collaborazione duratura: FBI Operazione gatto, Il fantasma del pirata Barbanera, Quello strano cane di papà, Un maggiolino tutto matto.
Proprio quest’ultimo film, The Love Bug, nasce da un curioso aneddoto: Dean porta a Walt un copione su una storia automobilistica, ma lui lo interrompe e dice: “Ne ho una migliore io.” Quella “storia migliore” è Herbie, che diventerà uno dei più grandi successi del cinema Disney anni ’60 e legherà per sempre il volto di Dean al Maggiolino vivente.
Ma dietro il sorriso smagliante e il successo professionale, si nasconde un dolore profondo. Negli stessi anni in cui il pubblico lo vede come modello di marito ideale e padre affettuoso, Dean affronta depressione, divorzi, crisi d’identità. Dopo il 1970, lascia persino un musical a Broadway per lo stress del divorzio. In un’intervista del 1997 racconta:
“Avevo tutto. I soldi, le Ferrari, le donne. Eppure era tutto vuoto. Davvero vuoto.”
Nel 1973, dopo un incidente causato dall’alcol in cui rischia la vita, ha quella che definisce una “rinascita spirituale”. In ginocchio, da solo in una stanza, prega per la prima volta con convinzione. Diventa cristiano evangelico, si risposa e cambia radicalmente vita e carriera. Sceglie solo ruoli che rispecchiano i suoi valori: tra questi Born Again, dove interpreta l’ex consigliere di Nixon convertito dopo lo scandalo Watergate. E porta sul palco St. John in Exile, un monologo teatrale intenso che diventa anche film.
Ma Jones non abbandona del tutto il cinema. Negli anni ’90 appare in alcuni titoli inaspettati. Tra questi, uno shock personale: scoprire che è proprio lui il “cattivo” di Beethoven (1992). Da bambina non ci potevo credere: il veterinario crudele che vuole fare esperimenti sul San Bernardo? Era proprio Dean Jones! Quello dei film Disney con i cagnolini… Un cortocircuito emotivo, che però dice molto sulla sua versatilità.
Tra le sue ultime apparizioni ricordiamo anche il remake di F.B.I. Operazione gatto (1997), e due incursioni nel cinema italiano: A spasso nel tempo e A spasso nel tempo – L’avventura continua, diretti da Carlo Vanzina, dove interpreta un eccentrico professore ispirato al Doc di Ritorno al futuro.
Per il personaggio di Fran Garrison, la giovane moglie elegante ma ironica, la Disney sceglie un volto inaspettato: Suzanne Pleshette, attrice raffinata, con uno stile adulto e una voce profonda che la rende immediatamente riconoscibile.
Una voce talmente marcata che alcuni, nello Studio, dubitano che sia adatta a un film leggero con cagnolini protagonisti.
Ma è Walt Disney in persona a spegnere le obiezioni, dicendo: “Solo perché ha la voce profonda non significa che non possa fare un film per famiglie.”
Con questa frase, Walt le apre la porta di un nuovo tipo di ruolo.
Pleshette coglie al volo l’occasione, consapevole che 4 bassotti per un danese le offre qualcosa che a Hollywood non si dà facilmente a una donna della sua età e presenza: una parte comica, affettuosa, normalizzante.
Nata a New York City il 31 gennaio 1937, Suzanne cresce in una famiglia che respira spettacolo da ogni lato. Suo padre Gene Pleshette è direttore generale del prestigioso Paramount Theatre di Brooklyn, una delle sale cinematografiche più importanti dell’epoca, capace di ospitare proiezioni-evento e spettacoli dal vivo.
In seguito diventa vicepresidente della American Broadcasting–Paramount Theatres, una compagnia che univa cinema e televisione in un’epoca in cui la frattura tra i due mondi stava cambiando l’industria. Sua madre Geraldine è una ballerina professionista. In casa, tra musica, prove e palchi, l’arte è una presenza quotidiana.
Suzanne studia alla High School of Performing Arts, poi si perfeziona al Finch College e infine si diploma in recitazione all’Actors Studio. È lì che affina la sua tecnica: voce, corpo, presenza.
A teatro esordisce accanto a Dean Stockwell (Compulsion) e Roddy McDowall, distinguendosi subito per l’equilibrio tra eleganza e autenticità.
Negli anni ’50 inizia a farsi notare anche al cinema. Recita accanto a Jerry Lewis in Il ponticello sul fiume dei guai (The Geisha Boy, 1958), dove interpreta un’ufficiale dell’esercito.
Poi è protagonista in 20 chili di guai!… e una tonnellata di gioia! (primo remake del classico Little Miss Marker, il secondo sarà E io mi gioco la bambina), dov’è insieme a Tony Curtis a occuparsi di una bambina rimasta sola. Curiosamente, una parte di queste pellicole è ambientata proprio a Disneyland: un dettaglio che oggi suona quasi profetico. Come se, tra una gag e l’altra, si affacciasse l’ombra del suo futuro professionale… tra le braccia di Walt Disney.
Il grande salto avviene nel 1963, quando Alfred Hitchcock la sceglie per Gli uccelli.
Interpreta Annie Hayworth, la maestra dalla vita irrisolta, segnata da un amore perduto. Il ruolo è drammatico ma composto, e permette a Suzanne di mostrare una gamma emotiva che la consacra al pubblico internazionale.
Sul set nasce una profonda amicizia con Tippi Hedren, destinata a durare tutta la vita: un raro esempio di solidarietà femminile in un’industria spesso competitiva.
Proprio mentre il pubblico la scopre come attrice “drammatica”, lei desidera invece esplorare la leggerezza. Quando Walt le offre il ruolo in 4 bassotti per un danese, accetta con entusiasmo.
Anche se la parentesi Disney non la definirà per sempre, rappresenta una svolta nel suo percorso. Pleshette dimostra di saper reggere anche il tono brillante, senza perdere profondità.
Negli anni successivi, Suzanne spazia tra teatro, TV e cinema. È la protagonista di una delle sitcom più amate d’America, The Bob Newhart Show (1972–1978), dove interpreta una psicologa sveglia, indipendente e teneramente ironica: un ruolo cucito su misura per la sua sensibilità moderna.
Compare anche in un episodio memorabile di Colombo (La pistola di madreperla), dove gioca con i toni ambigui, in perfetto equilibrio tra eleganza e tensione.
Nel 1998 presta la voce alla temibile Zira, la leonessa antagonista in Il Re Leone II: il suo tono profondo e autoritario la rende perfetta per il doppiaggio animato.
Nella vita privata, ha avuto due matrimoni: il primo con l’attore Troy Donahue, durato pochi mesi, il secondo con il collega Tom Poston, suo compagno fino alla morte.
Tra moglie e marito… non mettere il veterinario. In una commedia dove cani e caos regnano sovrani, serviva una figura capace di portare equilibrio, bonaria autorevolezza e un pizzico di tenera saggezza. E chi meglio di Charles Ruggles, volto amatissimo del cinema comico americano, poteva incarnare il ruolo del veterinario Dottor Pruitt?
Reduce dal successo Disney de Il cowboy con il velo da sposa, dove aveva conquistato il pubblico nei panni del nonno delle gemelle interpretate da Hayley Mills, Ruggles torna a lavorare per lo Studio in uno dei suoi ruoli più riusciti e affettuosi. Dietro il camice del veterinario si nasconde un attore con alle spalle sessant’anni di carriera, capace di passare con disinvoltura dal muto alla televisione, sempre con la stessa eleganza pacata.
Nato nel 1886 a Los Angeles, ha cominciato la sua carriera teatrale nel 1905, abbandonando gli studi di medicina per seguire il richiamo delle tavole di legno. Dopo l’esordio a Broadway, si fa notare al cinema per il suo talento nei ruoli comici e brillanti, spesso nei panni di ufficiali, dottori, uomini rispettabili… sempre leggermente sbilenchi, sempre irresistibili. A consacrarlo definitivamente è Ernst Lubitsch, che lo dirige in commedie raffinate come Mancia competente, dove Ruggles interpreta un maggiore con il perfetto equilibrio tra rigore e surreale candore.
Negli anni ’60, la Disney lo accoglie nella sua “famiglia allargata”, valorizzando il suo stile unico e delicato. Oltre a Quattro bassotti per un danese, lo ritroviamo in titoli come Un professore a tutto gas, Il cowboy con il velo da sposa e altri piccoli gioielli in cui la sua presenza illumina la scena senza mai volerla dominare.
È stato anche una figura familiare sul piccolo schermo, con sitcom come The Ruggles e The World of Mr. Sweeney, e ha lasciato un segno in ogni mezzo a cui si è dedicato: tre stelle sulla Hollywood Walk of Fame testimoniano il suo contributo al cinema, alla radio e alla televisione.
Nato a Deadwood, South Dakota, Thordsen ha servito con onore nella Marina degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea, prima di rientrare in patria e lavorare per ben dodici anni come agente del LAPD, la polizia di Los Angeles. Questa esperienza ha lasciato il segno nella sua carriera d’attore: una volta passato al cinema, infatti, è diventato il volto ideale per poliziotti, secondini, sceriffi, buttafuori, tutte figure di legge o forza… ma sempre con un retrogusto comico o surreale.
In Quattro bassotti per un danese, il suo agente è comicamente travolto dalle marachelle di Brutus e dei bassotti, contribuendo con la sua faccia granitica e il suo tono secco a rendere credibili anche le gag più assurde. Eppure, anche se qui lo vediamo affannato tra cucciolate in fuga, Thordsen vanta una filmografia notevole, fatta di ruoli piccoli ma incisivi.
Lo si ricorda, ad esempio, come lo sceriffo nel film drammatico La dolce ala della giovinezza (1962), accanto a Paul Newman. È un poliziotto anche in Quel certo non so che, la sofisticata commedia con Doris Day e James Garner. Ha una parte non accreditata in Il buio oltre la siepe, seppur non accreditato, e ha recitato anche in numerosi western e show televisivi dell’epoca.
Ma forse il ruolo più curioso e “fuori copione” per lui resta quello in Angeli con la pistola (1961) di Frank Capra, dove interpreta “Faina”, uno degli scagnozzi del gangster Dave “lo Sciccoso”. Un contesto insolito per un uomo abituato a stare dalla parte della legge — e che proprio per questo risulta ancora più memorabile. Sul piccolo schermo ha fatto apparizioni in serie come Bonanza, Gunsmoke, Perry Mason, Colt .45, Lassie e moltissime altre: una carriera da caratterista instancabile, che lo ha reso un volto-feticcio del cinema e della TV americana tra anni ’50 e ’70.
Nel colorato e caotico universo domestico di 4 bassotti per un danese, c’è una scena particolare che porta gli spettatori in un’atmosfera da festa orientale: è quella organizzata da Mr. Toyama, interpretato da Robert Kino, un cliente della coppia Garrison e party planner ante litteram, che si occupa con serietà e dedizione di ogni dettaglio dell’evento. Al suo fianco, come aiutante fidato, troviamo Kenji, suo nipote, interpretato da un giovanissimo Mako.
All’epoca, per il pubblico, era poco più di una comparsa comica. In realtà, dietro quel ruolo minore si nascondeva uno degli attori più significativi della storia del cinema asiatico-americano.
Mako, nato Makoto Iwamatsu nel 1933 a Kōbe, in Giappone, era figlio del celebre autore di libri per bambini Taro Yashima. I suoi genitori si erano trasferiti negli Stati Uniti per studiare arte quando lui era ancora bambino, lasciandolo in Giappone con i nonni. Ma quando scoppiò la guerra nel 1941 e Giappone e Stati Uniti divennero nemici, Mako rimase separato dalla sua famiglia. I suoi genitori, rimasti negli USA, collaborarono con lo United States Office of War Information — un fatto che rese impossibile per anni ricongiungersi.
Fu solo nel 1949 che riuscì finalmente a raggiungerli in America. Poco dopo prestò servizio militare e, durante l’esperienza nell’esercito, scoprì inaspettatamente il proprio talento per la recitazione. All’inizio aveva scelto di studiare architettura, ma il palcoscenico lo catturò per sempre. Una volta congedato, si iscrisse alla Pasadena Playhouse, dove iniziò a formarsi come attore. Nel 1956 venne naturalizzato cittadino statunitense.
La sua carriera cinematografica prende slancio lentamente, passando per piccoli ruoli come quello in 4 bassotti per un danese, fino ad arrivare alla svolta: nel 1966 ottiene una nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista per "Quelli della San Pablo" (The Sand Pebbles) accanto a Steve McQueen. È una pietra miliare: Mako diventa il primo attore asiatico-americano a ricevere questo tipo di riconoscimento.
Nel frattempo, fonda anche la compagnia East West Players, ancora oggi attiva, con l’obiettivo di offrire rappresentazioni autentiche e rispettose delle identità asiatiche, in un’epoca in cui Hollywood relegava gli attori orientali a ruoli stereotipati e marginali.
La sua carriera prosegue senza sosta: è il mago Akiro nei due film della saga Conan il barbaro accanto a Arnold Schwarzenegger, il magnate Kanemitsu in RoboCop 3, l’ammiraglio Yamamoto in Pearl Harbor, e Kungo Tsarong in Sette anni in Tibet. Una delle sue interpretazioni più amate resta quella del saggio Li Sung, mentore di David Banner nella serie L’incredibile Hulk.
Nel 1994 è il mago Nakano in Highlander 3 – The Sorcerer, mentre uno degli ultimi ruoli è quello in Memorie di una geisha, dove chiude la sua carriera tornando ancora una volta a raccontare il Giappone, ma con uno sguardo maturo, profondo e consapevole.
C'è un ultimo personaggio di cui voglio parlarvi. In Quattro bassotti per un danese interpreta il giudice di gara, con la sua solita aria arcigna, occhiali sottili e un bloc-notes in mano. Pochi minuti in scena, ma più che sufficienti per lasciare il segno. Perché Charles Lane era uno di quegli attori che bastava vederli una volta per non dimenticarli più.
Nato a San Francisco nel 1905, figlio di una famiglia ebraica, ha appena un anno quando la città viene colpita dal catastrofico terremoto del 1906. È uno degli sfollati della tragedia, eppure la sua famiglia riesce a superare l’evento e ricostruire la propria vita.
I genitori non vedono di buon occhio la carriera teatrale, ma Charles ha altri progetti. Dopo la laurea a Berkeley, si unisce a una compagnia itinerante e nel 1931 debutta al cinema, dando così inizio a una carriera lunga 70 anni, con oltre 250 titoli all’attivo.
Il suo volto severo e il portamento burbero lo rendono perfetto per ruoli da impiegato rigido, avvocato seccato, burocrate insopportabile, giudice intransigente. Eppure, dietro quella maschera, Lane aveva una precisione comica eccezionale, capace di rendere irresistibile anche il personaggio più antipatico.
È una presenza immancabile nei film di Frank Capra: lo troviamo in Mr. Smith va a Washington, L’eterna illusione, La vita è meravigliosa, Arsenico e vecchi merletti…
Ma anche nel musical Capobanda, nella commedia 10 in amore accanto a Doris Day e Clark Gable, e in film per famiglie come 7 giorni di fifa. In televisione è stato presenza fissa nei programmi di Lucille Ball: I Love Lucy, The Lucy Show, The Lucy-Desi Comedy Hour… sempre nei panni di qualche funzionario irritato ma irresistibile. E persino in animazione ha lasciato il segno: è la voce originale dell’avvocato George Hautecourt ne Gli Aristogatti (1970), quell’anziano euforico che balla il valzer con Duchessa prima di cadere dalle scale.
Il suo ultimo ruolo arriva nel 1995 con Il computer con le scarpe da tennis — un remake Disney che chiude idealmente il cerchio, a 90 anni suonati. Morirà nel 2007, a 102 anni, lasciando un'eredità silenziosa ma potentissima. Per approfondire la sua incredibile carriera, vi rimando al mio articolo sui caratteristi hollywoodiani — troverete altre chicche su di lui (e non solo).
Protagonisti a quattro zampe
Se gli attori umani fanno la loro parte, è indubbio che le vere star di 4 bassotti per un danese sono i cani. Realizzare una commedia con quattro vivaci bassotti e un gigantesco alano ha richiesto una notevole organizzazione e una buona dose di pazienza. Per questo, la Disney ha affidato il delicato compito a uno dei migliori addestratori di Hollywood: William R. Koehler.
Koehler non è solo un trainer di talento, ma una vera autorità nel suo campo. Durante la Seconda guerra mondiale ha addestrato cani per l’esercito, e nel dopoguerra ha messo la sua esperienza al servizio del cinema. Ha collaborato spesso con Disney e ha anche scritto numerosi libri sulle tecniche di addestramento, diventando un punto di riferimento per generazioni di educatori cinofili.
Con questo film si è trovato di fronte a una sfida non banale: da un lato, un alano dalla presenza scenica imponente ma dal carattere docile, dall’altro, quattro bassotti testardi, indipendenti e imprevedibili.
Il ruolo dell’alano Brutus, il “danese” del titolo italiano, è stato affidato a più esemplari. Il cane principale era Diego of Martincrest, chiamato anche Pirate, un alano fulvo di tre anni, campione di razza, che ha fornito la presenza scenica e le interazioni più tranquille. Per le sequenze più movimentate o complesse, la produzione ha impiegato invece Duke, un altro alano già esperto di set (lo si era visto nel film Disney Robinson nell’isola dei corsari). Nella sequenza finale della mostra canina, Brutus incrocia infine lo sguardo di una splendida alano arlecchino, Piccolina vom Philosophenwald, appositamente scelta per far scattare il “colpo di fulmine” e segnare la sua definitiva “redenzione” da cane travestito da bassotto a vero esemplare di razza.
Anche per i bassotti (Danke e le sue tre cucciole Heidi, Chloe e Wilhelmina), il team ha dovuto lavorare con più cagnolini simili tra loro. I cuccioli crescono in fretta, e sul set serve sempre una riserva pronta per affrontare le scene più lunghe o difficili. I bassotti, si sa, hanno un carattere forte e indipendente, qualità adorabili ma non sempre ideali sul set. Per strappare loro performance credibili, Koehler e il suo team hanno dovuto ricorrere a ogni trucco del mestiere: croccantini nascosti, giocattoli piazzati strategicamente, comandi vocali dati con pazienza e discrezione.
In compenso, Brutus – nonostante la mole – si è dimostrato un cane mansueto e collaborativo. Le scene più esilaranti nascono proprio da quel contrasto visivo tra la sua imponenza e la furbizia dei minuscoli bassotti. Un effetto comico che funziona ancora oggi perché, in fondo, è anche il frutto di una certa libertà lasciata ai cani di interagire spontaneamente con l’ambiente, sotto l’occhio vigile degli addestratori.
Se 4 bassotti per un danese funziona così bene è anche merito dell’atmosfera che si respirava dietro le quinte. Nonostante le difficoltà legate alla presenza di tanti animali, il clima sul set è sempre stato disteso e collaborativo. Lo ha ricordato anche Mako, anni dopo, in un documentario dedicato alla pellicola:
“Sul set c’era un’aria serena. Nessuna fretta, tutti gentili. Anche i cani sembravano divertirsi.”
Un aneddoto irresistibile riguarda la vera cagnolina di Suzanne Pleshette, una Yorkshire Terrier di nome Missy. Ogni giorno, al ritorno dal set, Missy la accoglieva annusandola con sospetto, gelosa dell’odore di altri cani. Alla fine, Suzanne fu costretta a farsi la doccia e cambiarsi in studio prima di rientrare a casa, per non turbare la sensibilità della sua piccola Missy.
Location
Molte delle scene si svolgono all’interno della casa dei Garrison, ricostruita con cura negli studi Disney di Burbank. La scenografia della casa è uno degli elementi più iconici del film: un perfetto esempio di design domestico anni Sessanta, con divani ampi, moquette chiara, cucina funzionale e i celebri letti gemelli che tanto colpiscono lo spettatore contemporaneo, abituato a dinamiche diverse nella rappresentazione della vita coniugale.
Costumi
Ho adorato i costumi di 4 bassotti per un danese. Nella loro semplicità sono raffinati, delicati, rassicuranti. Rappresentano perfettamente quella normalità ben curata di cui oggi c’è così tanto bisogno — e che il cinema Disney di quegli anni sapeva raccontare con grazia.
A firmare i guardaroba sono Gertrude Casey e Chuck Keehne, due nomi forse poco noti, ma il cui lavoro nei reparti costumi Disney ha contribuito a creare l’immaginario visivo di un’epoca. La loro cura per il dettaglio si vede in ogni scena: i colori pastello, gli accessori coordinati, i tessuti morbidi. Tutto parla silenziosamente dei personaggi, accompagnandoli senza mai rubare la scena.
I costumi indossati da Fran sono un perfetto equilibrio tra eleganza e sobrietà, con quella grazia ordinaria che racconta tanto del suo personaggio: una madre giovane, sofisticata ma radicata nel quotidiano. In ogni scena i suoi abiti contribuiscono a costruire quell’ideale anni Sessanta fatto di armonia domestica e piccoli sogni in maglia rasata. Completi in lana leggera, gonne a tubino e maglioncini pastello disegnano una silhouette sempre composta e femminile, capace di armonizzarsi perfettamente con gli ambienti in cui si muove: la casa, il giardino, lo studio veterinario. Il suo stile — mai eccessivo — è fatto di colori morbidi (grigio perla, rosa cipria, azzurro polvere), tagli puliti, tessuti confortevoli e dettagli curati, come colletti a contrasto o cinture ton sur ton.
Anche Mark è vestito in perfetta coerenza con il suo ruolo: padre moderno, premuroso, un po’ sopraffatto ma sempre presente. Il suo guardaroba è dominato da blazer sportivi in tweed o rigati, camicie sobrie, maglioni girocollo o con scollo a scialle, pantaloni chino e cardigan portati con disinvoltura. I toni restano neutri — grigio, beige, verde salvia, crema — e costruiscono un’immagine rassicurante e concreta, in linea con il tono familiare del film.
Nelle due occasioni più formali — la cena di compleanno di Mark e la festa a tema orientale — entrambi i protagonisti si fanno più eleganti. Alla cena, Fran indossa un abito nero da cocktail con corpino trasparente e gonna a balze, mentre Mark opta per un classico smoking con papillon. Alla festa orientale, lei sfoggia una camicia avorio in seta ricamata abbinata a una gonna lunga scura, mentre lui indossa un completo chiaro a righe sottili, camicia bianca e cravatta nera: un look fresco, semi-formale, perfetto per un ricevimento in giardino.
Colonna sonora
La musica di sottofondo accompagna le scene con leggerezza, accentuando il tono brillante della commedia. La colonna sonora è affidata a George Bruns, veterano della Disney e già autore delle musiche di La carica dei 101 e Il libro della giungla.
Le melodie sono spensierate e giocano spesso su motivi buffi, stacchi ritmati e interventi orchestrali che sottolineano i movimenti degli animali o le reazioni esagerate dei personaggi. In certi momenti sembrano quasi “sincronizzate” con le azioni comiche – come nei cartoni animati – creando un effetto immediatamente riconoscibile e rassicurante per il pubblico.
Ma c’è una chicca musicale che nella versione italiana è andata completamente perduta.
Nella scena del compleanno di Mark, quando Fran gli consegna una serie di regali da parte delle cagnoline, uno di questi è un carillon che fa infuriare il protagonista. Il personaggio crede stia suonando Il bel Danubio blu, ma in realtà – per chi ascolta in lingua originale – si tratta della canzoncina “Oh Where, Oh Where Has My Little Dog Gone?”, un piccolo scherzo musicale nascosto dagli autori.
Si tratta di un brano popolare ottocentesco, composto da Septimus Winner nel 1864 e basato su una melodia tedesca tradizionale (In Lauterbach hab’ ich mein’ Strumpf verlor’n), poi entrata nel repertorio delle nursery rhymes anglosassoni. La canzone è un lamento affettuoso per un cagnolino scomparso, e il tono dolce e leggermente ironico si adatta perfettamente all’umorismo della scena.
La stessa melodia appare anche in Lilli e il vagabondo, dove viene fischiettata dall’accalappiacani – un altro piccolo legame musicale nascosto tra le produzioni Disney che chi ha l’orecchio attento può cogliere.
4 bassotti per un danese esce nelle sale americane il 4 febbraio 1966 e si rivela un buon successo commerciale per la Disney: incassa 6 milioni di dollari, una cifra importante per l’epoca. Il film si aggiudica anche il Blue Ribbon Award della rivista specializzata Boxoffice, un riconoscimento assegnato ogni mese agli incassi più forti e ai titoli meglio accolti dagli esercenti cinematografici statunitensi.
La critica accoglie il film con toni moderati ma positivi. Variety lo descrive come una “commedia graziosa e ben ritmata, con un cast affiatato e un uso intelligente degli animali in scena”, mentre il New York Times ne apprezza la leggerezza, pur considerandolo un film minore all’interno del catalogo Disney.
Come da tradizione per le uscite cinematografiche Disney, il film venne preceduto da un cortometraggio animato, parte integrante della strategia dello studio. In questo caso si trattava di Winnie the Pooh and the Honey Tree, prima apparizione ufficiale del celebre orsetto. Il corto — adorato dal pubblico — finì però per oscurare in parte il film principale. Anni dopo, Dean Jones racconterà:
“La Disney aveva messo il corto prima del film, e alla fine tutti parlavano di Winnie!”
Con il tempo, 4 bassotti per un danese non è diventato uno dei film Disney più citati o celebrati, ma ha saputo trovare il suo pubblico fedele, quello che lo riscopre ogni volta come un piccolo rifugio affettivo. Pubblicato in VHS e DVD, è uno di quei titoli passati un po’ in sordina nei cataloghi ufficiali, ma sempre vivi nel cuore degli spettatori.
È un film che accompagna silenziosamente l’infanzia di molti, e che riesce ancora oggi a regalare sorrisi e momenti di tenerezza. Le scene con Brutus e i bassotti sono diventate iconiche, le dinamiche di coppia tra Fran e Mark restano godibili, e l’atmosfera domestica — tra disastri e affetto — conserva un’irresistibile freschezza.
Chi lo ama, lo ama profondamente. E ogni visione è come tornare in una casa ordinata e caotica al tempo stesso, ma sempre piena d’amore.
Se ora vi è venuta voglia di vederlo potete vederlo comodamente:
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LINK UTILI:
Il cowboy col velo da sposa qui
Professione caratterista: parte uno qui e parte due qui
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