La porta d’oro, quando Billy Wilder capì che le sue storie doveva dirigerle lui
domenica, settembre 21, 2025🎧 Questo articolo è disponibile in audio grazie alla funzione “Ascolta la pagina”
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Ecco, con La porta d’oro mi era successo esattamente questo.
Un titolo nel quale continuavo a imbattermi da anni: mentre guardavo la filmografia del regista Mitchell Leisen, o spulciavo i titoli di Charles Boyer, o ancora, quando leggevo qualcosa sulla celebre faida tra Olivia de Havilland e sua sorella Joan Fontaine.
Sì, perché La porta d’oro è proprio quel film: quello che le ha messe l’una contro l’altra nella corsa all’Oscar. Olivia candidata per questo, Joan per Il sospetto di Hitchcock.
Ma ogni volta che leggevo due righe sulla trama, un gigolò della Romania che cerca di entrare in America passando dal Messico, ostacolato dalle quote per l’immigrazione, mi bloccavo. Un soggetto che, sulla carta, mi sembrava distante anni luce da quello che mi avrebbe potuto incuriosire. Mi sembrava freddo, burocratico, quasi grigio.
Non immaginavo che invece avrei trovato uno dei film più coinvolgenti e imprevedibili che mi sia capitato di vedere.
Stavo facendo zapping. Quella specie di navigazione cieca, dove speri solo che qualcosa ti colpisca prima di arrenderti all’ennesimo rewatch.
Finisco su un canale regionale, uno di quelli che sembrano messi lì per sbaglio, che non sai mai cosa mandino in onda e proprio per questo finiscono per regalarti le cose migliori. Titoli di testa in bianco e nero, e basta questo a farmi decidere di restare lì.
Istintivamente, la mano corre verso il telefono per controllare la trama. Ma poi mi blocco. Per una volta, decido che non cercherò niente e mi lascerò trasportare dalla storia.
Pochi istanti dopo compare un cartello: “Forse il modo migliore per iniziare questa storia è raccontarvi come è arrivata fino a noi. Un giorno dello scorso agosto, agli studios della Paramount a Hollywood, entrò un uomo…”
Non sto più solo guardando un film. Ci sono entrata dentro. Sono catapultata negli studios della Paramount, insieme ad un gruppo di turisti che sta per essere accompagnato a visitare lo studio. Compare un uomo, passa tra tecnici e comparse, ha fretta, è lì per una ragione precisa. Vuole incontrare un regista. Quando appare sulla scena lo riconosco subito, anche se nel film ha un altro nome: è proprio Mitchell Leisen, il vero regista del film che sto guardando.
E non solo: sta girando una scena di un altro film, proprio lì davanti a noi, con la meravigliosa Veronica Lake. La macchina da presa si muove, la troupe è in azione: siamo dentro il cinema, mentre il cinema accade. È una scena dell’altro film che sta girando Liesen I cavalieri del cielo.
E non solo: sta girando una scena di un altro film, proprio lì davanti a noi, con la meravigliosa Veronica Lake. La macchina da presa si muove, la troupe è in azione: siamo dentro il cinema, mentre il cinema accade. È una scena dell’altro film che sta girando Liesen I cavalieri del cielo.
L’uomo, Georges Iscovescu, si presenta con un soggetto per un film. Dice che ha poco tempo, che lo stanno cercando e che presto lo arresteranno. Ed è lì che mi ha agganciata senza più lasciarmi andare. Perché da quel momento in poi, il film mi ha tenuta inchiodata: tensione, emozione, sofferenza, tenerezza, ironia, colpi al cuore. Una tavolozza completa, orchestrata con una grazia che non mi aspettavo.
A quel punto ero già completamente dentro. E mentre la storia scorreva, sentivo affiorare qualcosa. Una tensione sotterranea. Ecco, quando un film riesce a farmi questa impressione, che sotto ci sia dell’altro, inizio a scavare nella storia dietro la storia. Perché La porta d’oro è uno di quei film che ti cattura due volte: una mentre lo guardi, e un’altra quando scopri quello che è successo dietro la macchina da presa.
C’è una sceneggiatura che nasce da un’esperienza vera. C’è una scena, scritta e mai girata, che ha scatenato una mezza guerra. E c’è anche il momento esatto in cui uno sceneggiatore decide: “Sai che c’è? I miei film da ora in poi me li dirigo da solo”. Volutamente sapere il suo nome? Billy Wilder.
È tutto lì, sotto la superficie. E se hai voglia di andare a vedere cosa c’è tra le righe, te lo racconto.
A quel punto ero già completamente dentro. E mentre la storia scorreva, sentivo affiorare qualcosa. Una tensione sotterranea. Ecco, quando un film riesce a farmi questa impressione, che sotto ci sia dell’altro, inizio a scavare nella storia dietro la storia. Perché La porta d’oro è uno di quei film che ti cattura due volte: una mentre lo guardi, e un’altra quando scopri quello che è successo dietro la macchina da presa.
C’è una sceneggiatura che nasce da un’esperienza vera. C’è una scena, scritta e mai girata, che ha scatenato una mezza guerra. E c’è anche il momento esatto in cui uno sceneggiatore decide: “Sai che c’è? I miei film da ora in poi me li dirigo da solo”. Volutamente sapere il suo nome? Billy Wilder.
È tutto lì, sotto la superficie. E se hai voglia di andare a vedere cosa c’è tra le righe, te lo racconto.
Il titolo originale è Hold back the dawn (trattenere l'alba), ed è un film del 1941 diretto da Mitchell Leisen con protagonisti Charles Boyer e Olivia De Havilland.
La trama in breve: Georges Iscovescu è un affascinante immigrato bloccato in una cittadina al confine tra Messico e Stati Uniti, in attesa di un visto che sembra non arrivare mai. È rumeno, ha un passato ambiguo e un futuro che sembra inchiodato in una stanza d’albergo. Quando scopre che sposare una cittadina americana potrebbe accelerare l'ingresso negli USA, coglie l’occasione: si avvicina a una giovane insegnante di provincia, Emmy Brown, e inizia il gioco.
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Alcune scene del film |
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Foto promozionali |
Ma per capire davvero questa storia, bisogna fare un passo indietro. E guardare il mondo com’era quando è arrivata sullo schermo. Siamo nel 1941. L’Europa è già in guerra da due anni. La Germania nazista ha invaso la Polonia, poi la Francia, e sta stringendo sempre più paesi sotto il proprio controllo. Chi può, scappa. Chi non può, cerca almeno di provarci.
Le persone arrivano a Parigi, poi a Marsiglia, poi in Spagna o in Portogallo, e da lì, con viaggi lenti e pericolosi, tentano di raggiungere l’America. Ma gli Stati Uniti, all’epoca, non sono quel porto sicuro che ci si immagina. C’erano le quote: limiti rigidi imposti per ogni paese, che tagliavano fuori la maggior parte dei richiedenti. E più arrivavano notizie drammatiche dall’Europa, più l’America chiudeva le porte, timorosa di lasciarsi travolgere.
Così in tanti si ritrovavano bloccati al confine, letteralmente. A Tijuana o Mexicali, in una stanza d’albergo o in un dormitorio improvvisato, aspettando il proprio numero. Un numero che, a volte, non arrivava mai. E non parliamo solo di disperati: tra questi esuli c’erano scrittori, registi, attori, musicisti, professori, spesso ebrei, spesso famosi in patria. Gente con una carriera, una lingua, un’identità, tutto in sospeso.Alcuni si adattavano a vivere nell’attesa. Altri, nel frattempo, cercavano scorciatoie.
È dentro questo clima che una storia ha cominciato a prendere forma. Non da un’inchiesta giornalistica né da un’analisi politica, ma da qualcosa di molto più personale: un’esperienza vissuta. Una di quelle che restano addosso e, prima o poi, bussano per essere raccontate.
La scrive Ketti Frings, giornalista e autrice. O meglio: lei trasforma in racconto l’esperienza vera che ha vissuto suo marito, Kurt Frings. Un ex pugile tedesco, rifugiato, e per un periodo è rimasto bloccato in Messico, proprio come tanti altri europei in fuga dalle persecuzioni.Ha vissuto sulla sua pelle l’attesa, la frustrazione, il limbo delle quote migratorie.
La scrive Ketti Frings, giornalista e autrice. O meglio: lei trasforma in racconto l’esperienza vera che ha vissuto suo marito, Kurt Frings. Un ex pugile tedesco, rifugiato, e per un periodo è rimasto bloccato in Messico, proprio come tanti altri europei in fuga dalle persecuzioni.Ha vissuto sulla sua pelle l’attesa, la frustrazione, il limbo delle quote migratorie.
Ketti prende tutto questo e lo fa diventare Memo to a Movie Producer. Già dal titolo, sembra un’esortazione: questa è una storia che qualcuno deve portare sullo schermo. E la Paramount lo capisce subito. Compra i diritti per 5.000 dollari, ancor prima che venga pubblicata come romanzo.
Ci ha visto un potenziale fortissimo. Una materia viva, attuale, che mescola tensione politica e battito umano. Non ha bisogno di proclami: basta metterla lì, sullo schermo, e lasciare che faccia effetto.
Ci ha visto un potenziale fortissimo. Una materia viva, attuale, che mescola tensione politica e battito umano. Non ha bisogno di proclami: basta metterla lì, sullo schermo, e lasciare che faccia effetto.
Il progetto prende forma sotto l’occhio esperto di Arthur Hornblow Jr., un nome di assoluta fiducia alla Paramount. Prima di approdare allo studio, Hornblow si è formato accanto a Sam Goldwyn, è proprio quest’ultimo ad assumerlo nel 1927 come production supervisor, facendolo entrare a pieno titolo nella macchina hollywoodiana.
Negli anni ’30, oltre al matrimonio con Myrna Loy, costruisce una solida reputazione: produce screwball comedies e commedie sofisticate capaci di trovare il giusto equilibrio tra ritmo, sentimento e scrittura brillante. Non è uno che punta solo ai nomi altisonanti: è uno che riconosce le buone storie. Anche quando bussano alla porta con una valigia mezza aperta e un titolo ancora provvisorio.
Per trasformare Memo to a Movie Producer in un film serve una penna affilata. O meglio: due. La sceneggiatura viene affidata a Billy Wilder e Charles Brackett, una delle coppie più rodate di Hollywood.
Per trasformare Memo to a Movie Producer in un film serve una penna affilata. O meglio: due. La sceneggiatura viene affidata a Billy Wilder e Charles Brackett, una delle coppie più rodate di Hollywood.
Wilder è arrivato da poco in America, ma non ha dimenticato il rumore delle sirene in Europa, né l’umiliazione delle attese alla frontiera. Di questa storia sente ogni parola come qualcosa che gli appartiene. Lo dirà anche più avanti, senza mezzi termini: La porta d'oro è la sceneggiatura più autobiografica che abbia mai scritto.
Brackett e Wilder la immaginano con una protagonista ben precisa in mente. Un’attrice che tutti conoscono, ma che è sotto contratto con un altro studio. E che non sarà facile ottenere.
Ma prima, serve un regista. E per la Paramount la scelta è quasi naturale: Mitchell Leisen.
Ma prima, serve un regista. E per la Paramount la scelta è quasi naturale: Mitchell Leisen.
Leisen non è uno qualunque. Inizia come costumista e scenografo (è stato lui a disegnare i set di The Ten Commandments di DeMille nel 1923), e poi passa dietro la macchina da presa, firmando commedie raffinate e visivamente impeccabili. Sa come far funzionare una storia sullo schermo, ma ha anche un gusto personale che talvolta lo porta a mettere mano ai copioni. Cosa che, in questo caso, non sarà proprio indolore.
Per il ruolo del protagonista, alla Paramount sanno che l’uomo giusto è Charles Boyer.
Per il ruolo del protagonista, alla Paramount sanno che l’uomo giusto è Charles Boyer.
Ha il carisma, l’accento, l’esperienza. Ma soprattutto ha quel tipo di ambiguità affascinante che serve al personaggio di Georges Iscovescu: un uomo che vive sul confine, geografico, morale, emotivo.
Boyer non è solo un attore di talento, è anche uno dei rari casi di attore europeo che ha conquistato Hollywood senza mai rinunciare del tutto alle proprie origini. Nato in Francia, laureato in filosofia alla Sorbona prima di scoprire la passione per il teatro, si forma tra Parigi e i teatri di provincia prima di approdare al cinema.
È stato protagonista di Garden of Allah con Marlene Dietrich, Love Affair con Irene Dunne, Maria Walewska con Greta Garbo. Una galleria di donne forti, icone ciascuna a modo suo, con cui Boyer ha costruito sullo schermo storie di passione intensa, mai banale. In comune, tutte quelle storie avevano un dettaglio: c’era sempre un momento in cui Charles Boyer taceva, e lo spettatore capiva tutto.
In questo film serve tutto: il gigolò, l’esule, il seduttore pentito, l’uomo che cambia.
Boyer può essere tutto questo, anche solo con un’espressione. Ecco perché è il primo nome a essere confermato. Una sicurezza per lo studio, ma anche una scelta di grande coerenza narrativa: è un europeo che interpreta un europeo, in una storia che parla di frontiere, migrazioni e ambiguità sentimentali. Georges ha bisogno di qualcuno che non sia mai troppo chiaro, troppo lineare. Qualcuno che riesca a farsi amare anche quando non è del tutto sincero. E Boyer, questo, lo sa fare come pochi altri.
Per il ruolo femminile, Wilder e Brackett non hanno dubbi. Fin dalla prima stesura, il volto che immaginano per Emmy Brown è uno solo: Olivia de Havilland.
Boyer non è solo un attore di talento, è anche uno dei rari casi di attore europeo che ha conquistato Hollywood senza mai rinunciare del tutto alle proprie origini. Nato in Francia, laureato in filosofia alla Sorbona prima di scoprire la passione per il teatro, si forma tra Parigi e i teatri di provincia prima di approdare al cinema.
È stato protagonista di Garden of Allah con Marlene Dietrich, Love Affair con Irene Dunne, Maria Walewska con Greta Garbo. Una galleria di donne forti, icone ciascuna a modo suo, con cui Boyer ha costruito sullo schermo storie di passione intensa, mai banale. In comune, tutte quelle storie avevano un dettaglio: c’era sempre un momento in cui Charles Boyer taceva, e lo spettatore capiva tutto.
In questo film serve tutto: il gigolò, l’esule, il seduttore pentito, l’uomo che cambia.
Boyer può essere tutto questo, anche solo con un’espressione. Ecco perché è il primo nome a essere confermato. Una sicurezza per lo studio, ma anche una scelta di grande coerenza narrativa: è un europeo che interpreta un europeo, in una storia che parla di frontiere, migrazioni e ambiguità sentimentali. Georges ha bisogno di qualcuno che non sia mai troppo chiaro, troppo lineare. Qualcuno che riesca a farsi amare anche quando non è del tutto sincero. E Boyer, questo, lo sa fare come pochi altri.
Per il ruolo femminile, Wilder e Brackett non hanno dubbi. Fin dalla prima stesura, il volto che immaginano per Emmy Brown è uno solo: Olivia de Havilland.
C’è però un problema. E non da poco. Olivia è sotto contratto con la Warner Bros., e Jack Warner non è certo noto per la generosità nel prestare le sue star. Lei, intanto, è nel pieno della popolarità. Ma anche della frustrazione. Dopo la candidatura all’Oscar per Via col vento, Hollywood continua a usarla come ornamento nei film d’avventura con Errol Flynn. Olivia vuole di più, e ha cominciato a farlo capire.
Poi succede l’imprevisto. A Parigi, mentre si sta riprendendo da un’appendicectomia, si ritrova ospite dell’amica Geraldine Fitzgerald. È lì che Charlie Brackett la incontra per caso, durante un brunch, e le parla del progetto che sta scrivendo con Billy Wilder. Olivia legge la sceneggiatura. Le piace così tanto che dice di essersi sentita guarire più in fretta. Chiama Brackett e gli confessa che vorrebbe ardentemente interpretare Emmy, se solo la Warner avesse dato il permesso.
Il colpo di scena arriva grazie a un incastro perfetto.
Jack Warner vuole Fred MacMurray, della Paramount, per un nuovo progetto con Flynn. Durante una trattativa con i dirigenti dello studio, snocciola una lista di nomi che sarebbe disposto a scambiare in cambio dell’attore. Tra questi, anche Olivia. I dirigenti Paramount restano impassibili. Nessuna reazione. Nessun segnale che possa far salire il prezzo. Qualche giorno dopo, tornano alla carica con finta noncuranza: «Per quel film che stiamo per iniziare, pensavamo che Olivia de Havilland potrebbe andar bene».
E Warner accetta. Senza costi aggiuntivi. Risultato: Wilder, Brackett e Leisen si ritrovano con l’attrice che hanno sempre desiderato, e Olivia ottiene finalmente il ruolo che stava aspettando.
Emmy è un personaggio che sembra semplice, ma che vive di sfumature: una donna che crede, ama, si espone, rischia, con una purezza mai ingenua. Olivia la interpreta con una grazia silenziosa, forte, e quella dolcezza tutta sua che non diventa mai debolezza.
A completare il triangolo principale, Paulette Goddard. Attrice carismatica, presenza magnetica, e all’epoca una delle punte di diamante della scuderia Paramount.
Poi succede l’imprevisto. A Parigi, mentre si sta riprendendo da un’appendicectomia, si ritrova ospite dell’amica Geraldine Fitzgerald. È lì che Charlie Brackett la incontra per caso, durante un brunch, e le parla del progetto che sta scrivendo con Billy Wilder. Olivia legge la sceneggiatura. Le piace così tanto che dice di essersi sentita guarire più in fretta. Chiama Brackett e gli confessa che vorrebbe ardentemente interpretare Emmy, se solo la Warner avesse dato il permesso.
Il colpo di scena arriva grazie a un incastro perfetto.
Jack Warner vuole Fred MacMurray, della Paramount, per un nuovo progetto con Flynn. Durante una trattativa con i dirigenti dello studio, snocciola una lista di nomi che sarebbe disposto a scambiare in cambio dell’attore. Tra questi, anche Olivia. I dirigenti Paramount restano impassibili. Nessuna reazione. Nessun segnale che possa far salire il prezzo. Qualche giorno dopo, tornano alla carica con finta noncuranza: «Per quel film che stiamo per iniziare, pensavamo che Olivia de Havilland potrebbe andar bene».
E Warner accetta. Senza costi aggiuntivi. Risultato: Wilder, Brackett e Leisen si ritrovano con l’attrice che hanno sempre desiderato, e Olivia ottiene finalmente il ruolo che stava aspettando.
Emmy è un personaggio che sembra semplice, ma che vive di sfumature: una donna che crede, ama, si espone, rischia, con una purezza mai ingenua. Olivia la interpreta con una grazia silenziosa, forte, e quella dolcezza tutta sua che non diventa mai debolezza.
A completare il triangolo principale, Paulette Goddard. Attrice carismatica, presenza magnetica, e all’epoca una delle punte di diamante della scuderia Paramount.
Nel film è Anita Dixon, la ex partner (di ballo, e non solo) del protagonista. Donna pragmatica, seducente, con quel tocco cinico che serve a far risaltare ancora di più la trasparenza emotiva di Emmy.
La Goddard non si preoccupa troppo degli accenti: nel copione Anita dovrebbe essere straniera, ma lei sfoggia il suo inglese perfetto da newyorkese, con nonchalance. E funziona. Perché Anita, così com’è, diventa perfettamente credibile come cosmopolita senza scrupoli, una che si adatta a ogni situazione pur di non restare indietro. Anche in questo caso, Wilder e Brackett le scrivono battute taglienti, piene di doppi sensi e frecciatine da femme fatale che conosce il gioco e non si fa illusioni. Con la sua parlantina sicura e quel sorriso da “so più di quello che ti sto dicendo”, Paulette porta in scena un personaggio vivo, tridimensionale, che si muove con disinvoltura tra seduzione, ironia e amarezza.
C’è da dire che la Goddard è nel suo elemento: questo tipo di ruoli sembrano cuciti su misura per lei. E del resto, la sua carriera fino a quel momento l’ha portata spesso vicino a ruoli forti, brillanti, a volte sensuali ma mai scontati. È stata una delle protagoniste di Il grande dittatore accanto a Charlie Chaplin (con cui ha avuto anche una relazione lunga e tormentata), ma ha lavorato anche con Cecil B. DeMille, Mitchell Leisen e altri registi di peso. Nel 1938 era arrivata a un soffio dal diventare Rossella O’Hara in Via col vento. Aveva superato più di un provino, era la favorita per settimane… poi, all’ultimo momento, è comparsa Vivien Leigh. E il resto è storia
La Goddard non si preoccupa troppo degli accenti: nel copione Anita dovrebbe essere straniera, ma lei sfoggia il suo inglese perfetto da newyorkese, con nonchalance. E funziona. Perché Anita, così com’è, diventa perfettamente credibile come cosmopolita senza scrupoli, una che si adatta a ogni situazione pur di non restare indietro. Anche in questo caso, Wilder e Brackett le scrivono battute taglienti, piene di doppi sensi e frecciatine da femme fatale che conosce il gioco e non si fa illusioni. Con la sua parlantina sicura e quel sorriso da “so più di quello che ti sto dicendo”, Paulette porta in scena un personaggio vivo, tridimensionale, che si muove con disinvoltura tra seduzione, ironia e amarezza.
C’è da dire che la Goddard è nel suo elemento: questo tipo di ruoli sembrano cuciti su misura per lei. E del resto, la sua carriera fino a quel momento l’ha portata spesso vicino a ruoli forti, brillanti, a volte sensuali ma mai scontati. È stata una delle protagoniste di Il grande dittatore accanto a Charlie Chaplin (con cui ha avuto anche una relazione lunga e tormentata), ma ha lavorato anche con Cecil B. DeMille, Mitchell Leisen e altri registi di peso. Nel 1938 era arrivata a un soffio dal diventare Rossella O’Hara in Via col vento. Aveva superato più di un provino, era la favorita per settimane… poi, all’ultimo momento, è comparsa Vivien Leigh. E il resto è storia
Infine, ci sono altri due personaggi di cui voglio parlarvi. Il primo è l’ispettore Hammock, interpretato da Walter Abel.
Il suo volto ha qualcosa di immediatamente riconoscibile, anche se magari non sapete da dove. E in effetti la sua è una di quelle carriere solide, costruite a cavallo tra teatro e cinema. Abel arriva da Broadway, ci debutta già negli anni ’20, con alle spalle una formazione all’American Academy of Dramatic Arts e un repertorio classico che include Shakespeare e O’Neill. Il suo primo ruolo importante al cinema è nel 1935, come D’Artagnan in The Three Musketeers prodotto dalla RKO. Da lì in poi, compare in oltre sessanta film, tra cui il brillante Holiday Inn del 1942, accanto a Bing Crosby e Fred Astaire, dove interpreta l’agente iperattivo Danny Reed. E non si limita alla recitazione: diventa anche vicepresidente della Screen Actors Guild, segno di una presenza forte anche fuori dal set.
E poi c’è Berta Kurz, la rifugiata incinta che vuole a tutti i costi far nascere il proprio bambino in America. Una figura che resta ai margini, ma che emoziona. A interpretarla è Rosemary DeCamp, qui al suo debutto cinematografico.
E poi c’è Berta Kurz, la rifugiata incinta che vuole a tutti i costi far nascere il proprio bambino in America. Una figura che resta ai margini, ma che emoziona. A interpretarla è Rosemary DeCamp, qui al suo debutto cinematografico.
Arriva dalla radio, Dr. Christian era già un successo, e ha un background raro per le attrici dell’epoca: una laurea e persino un master al Mills College. Porta sullo schermo un’empatia istintiva, una gentilezza che non è mai zuccherosa. Dopo questo esordio, continuerà a lavorare con regolarità, e negli anni ’50 la ritroveremo in due commedie musicali nostalgiche accanto a Doris Day, Vecchia America (1951) e il suo seguito By The Light Of The Silvery Moon (1953), dove interpreta la madre della protagonista, sempre con sobrietà e calore.
Le riprese di La porta d’oro si svolgono tra il 18 febbraio e il 5 maggio 1941. Mitchell Leisen come regista è noto per la sua attenzione al dettaglio visivo e al ritmo narrativo. Ma questa volta, dietro l’eleganza delle inquadrature, il clima è più teso del solito.
Al centro del conflitto: una scena tagliata e due sceneggiatori sul piede di guerra.
Charles Brackett e Billy Wilder, che stanno ancora apportando modifiche alla sceneggiatura durante le riprese, scrivono una sequenza di forte impatto simbolico. Il protagonista, Georges Iscovescu, è da solo nella sua stanza d’albergo. Frustrato, nervoso, ossessionato dal confine che non riesce ad attraversare, nota uno scarafaggio che arrampica sul muro.
A quel punto, Georges inizia a interrogarlo come farebbe un ufficiale dell’immigrazione, spingendolo via più volte, come se il povero insetto stesse tentando anche lui di entrare negli Stati Uniti. Una scena bizzarra, ma potente. Nelle intenzioni degli autori, condensava la solitudine del personaggio, la sua disumanizzazione, e insieme la crudeltà di un sistema che giudica, seleziona, espelle.
Wilder ci teneva particolarmente. Non solo per il significato, ma perché toccava da vicino il suo vissuto: anche lui aveva dovuto aspettare in Messico il permesso di rientrare negli USA, nel 1934, quando il suo visto era scaduto. Ma Charles Boyer si oppone. Trova la scena umiliante, quasi ridicola, e convince Leisen a tagliarla. Il regista, che tende a evitare attriti con le sue star, accetta.
E per Wilder e Brackett è la goccia.
Il clima si fa più rigido. In risposta, i due sceneggiatori cominciano a sottrarre sfumature e spazio al personaggio di Georges, e a rafforzare la centralità di Emmy Brown. Le scene più emozionanti passano a lei. Una vendetta silenziosa, ma efficace. Non è un caso se, alla fine, Olivia de Havilland riceve la candidatura all’Oscar, mentre Boyer resta fuori dai giochi.
La frustrazione dei due sceneggiatori arriva a un punto tale che, per la prima volta, pretendono che nei titoli di testa venga usata la dicitura “Written by” invece di “Screenplay by”. Una sfumatura? Non proprio. Quel “scritto da” è una presa di posizione: un modo per segnare la paternità piena dell’opera, e sottolineare che, secondo loro, il regista non ha rispettato lo spirito originale della sceneggiatura. Da questo episodio, Billy Wilder prenderà una decisione definitiva: “D’ora in avanti, i film che scrivo, li dirigo anche.” E così sarà, regalandoci alcuni dei più bei film della storia del cinema.
Un’ultima chicca. Mitchell Leisen per poter interpretare un regista (Dwight Saxon) si è dovuto iscrivere alla Screen Actors Guild, ricevendo un compenso come tutti gli attori, compenso che lui donerà in beneficenza.

Le riprese di La porta d’oro si svolgono tra il 18 febbraio e il 5 maggio 1941. Mitchell Leisen come regista è noto per la sua attenzione al dettaglio visivo e al ritmo narrativo. Ma questa volta, dietro l’eleganza delle inquadrature, il clima è più teso del solito.
Al centro del conflitto: una scena tagliata e due sceneggiatori sul piede di guerra.
Charles Brackett e Billy Wilder, che stanno ancora apportando modifiche alla sceneggiatura durante le riprese, scrivono una sequenza di forte impatto simbolico. Il protagonista, Georges Iscovescu, è da solo nella sua stanza d’albergo. Frustrato, nervoso, ossessionato dal confine che non riesce ad attraversare, nota uno scarafaggio che arrampica sul muro.
A quel punto, Georges inizia a interrogarlo come farebbe un ufficiale dell’immigrazione, spingendolo via più volte, come se il povero insetto stesse tentando anche lui di entrare negli Stati Uniti. Una scena bizzarra, ma potente. Nelle intenzioni degli autori, condensava la solitudine del personaggio, la sua disumanizzazione, e insieme la crudeltà di un sistema che giudica, seleziona, espelle.
Wilder ci teneva particolarmente. Non solo per il significato, ma perché toccava da vicino il suo vissuto: anche lui aveva dovuto aspettare in Messico il permesso di rientrare negli USA, nel 1934, quando il suo visto era scaduto. Ma Charles Boyer si oppone. Trova la scena umiliante, quasi ridicola, e convince Leisen a tagliarla. Il regista, che tende a evitare attriti con le sue star, accetta.
E per Wilder e Brackett è la goccia.
Il clima si fa più rigido. In risposta, i due sceneggiatori cominciano a sottrarre sfumature e spazio al personaggio di Georges, e a rafforzare la centralità di Emmy Brown. Le scene più emozionanti passano a lei. Una vendetta silenziosa, ma efficace. Non è un caso se, alla fine, Olivia de Havilland riceve la candidatura all’Oscar, mentre Boyer resta fuori dai giochi.
La frustrazione dei due sceneggiatori arriva a un punto tale che, per la prima volta, pretendono che nei titoli di testa venga usata la dicitura “Written by” invece di “Screenplay by”. Una sfumatura? Non proprio. Quel “scritto da” è una presa di posizione: un modo per segnare la paternità piena dell’opera, e sottolineare che, secondo loro, il regista non ha rispettato lo spirito originale della sceneggiatura. Da questo episodio, Billy Wilder prenderà una decisione definitiva: “D’ora in avanti, i film che scrivo, li dirigo anche.” E così sarà, regalandoci alcuni dei più bei film della storia del cinema.
Un’ultima chicca. Mitchell Leisen per poter interpretare un regista (Dwight Saxon) si è dovuto iscrivere alla Screen Actors Guild, ricevendo un compenso come tutti gli attori, compenso che lui donerà in beneficenza.

I costumi
Tra i tanti talenti silenziosi che hanno reso possibile La porta d’oro, quello di Edith Head è forse uno dei più preziosi. La sua collaborazione con Mitchell Leisen, in quegli anni, è già rodata: hanno lavorato insieme in diversi film, e il loro metodo è tanto rodato quanto… competitivo. Leisen, con un passato da costumista, ama mettere becco su tutto: Head prepara i bozzetti, Leisen li rifà, lei li riprende, poi si arriva, dopo andirivieni infiniti, a qualcosa che somiglia a ciò che avevano deciso fin dall’inizio. Ma se sul set qualcosa non funziona? Si ricomincia.
Nel caso di Emmy Brown, l’abito è anche personaggio. All’inizio la vediamo in mise rigorose, da insegnante elementare californiana, come il primo vestito chiaro con bottoni più scuri, che è lo stesso scelto per il matrimonio all’alba. Un capo semplice, funzionale… ma già leggermente addolcito da dettagli che lasciano intravedere la possibilità di qualcosa in più.
Nel corso della storia, Emmy cambia. Non in modo plateale, ma sottile. E i costumi accompagnano questo cambiamento con delicatezza. Come nel secondo abito, portato durante il viaggio in auto con Boyer: più morbido, con dettagli vezzosi come il fiocco sul petto, ma ancora castigato. Una donna in cammino, più che arrivata.
Nel caso di Emmy Brown, l’abito è anche personaggio. All’inizio la vediamo in mise rigorose, da insegnante elementare californiana, come il primo vestito chiaro con bottoni più scuri, che è lo stesso scelto per il matrimonio all’alba. Un capo semplice, funzionale… ma già leggermente addolcito da dettagli che lasciano intravedere la possibilità di qualcosa in più.
Nel corso della storia, Emmy cambia. Non in modo plateale, ma sottile. E i costumi accompagnano questo cambiamento con delicatezza. Come nel secondo abito, portato durante il viaggio in auto con Boyer: più morbido, con dettagli vezzosi come il fiocco sul petto, ma ancora castigato. Una donna in cammino, più che arrivata.

Nel ritorno in hotel, il look si fa più informale: camicetta annodata e gonna a vita alta, un modo sottile per dire che qualcosa in lei si è sciolto, che sta lasciando emergere una femminilità più spontanea, forse inconsapevole, ma sempre più presente.
E poi c’è la scena finale. Emmy entra in scena, bandiera americana in mano. È sempre lei, lo stesso stile, la stessa palette, ma ora tutto è più nitido. Il cappello a tesa larga, la postura, la sicurezza nei gesti. È il costume di una donna che ha attraversato una tempesta e ne è uscita con più consapevolezza, più forza. Senza mai diventare altro da sé.

A fare da contraltare al percorso di Emmy c’è quello, opposto, di Anita. Se i costumi della De Havilland si alleggeriscono nel corso della storia, quelli di Paulette Goddard fanno esattamente il contrario: si chiudono, si irrigidiscono. All’inizio del film, Anita appare con top succinti, cinture scintillanti, acconciature elaborate. Ma man mano che il suo ruolo di “femme fatale” si incrina e deve tornare a recitare la sua parte con un nuovo pollo da spennare, ecco che i suoi abiti diventano più castigati, più rigidi, quasi severi. E soprattutto, si fanno più carichi di accessori: cappelli, borsette, guanti. Dove Emmy si spoglia, Anita si riveste. Un gioco di contrasti che, grazie al lavoro di Edith Head, si fa narrazione visiva.
I gioielli che vediamo addosso a Paulette Goddard non sono semplici accessori di scena, ma pezzi di alta bigiotteria firmati da Eugene Joseff, il celebre maestro delle “finte meraviglie” di Hollywood, cui dedicherò presto un articolo a parte. Ma c’è di più. Pare che Paulette si presentasse spesso sul set con i suoi cofanetti personali, colmi di gioielli veri, che mostrava alle sarte con un sorriso e un avvertimento: “Potete guardare, ma non toccare.” Un gesto teatrale, certo, ma che Edith Head, sempre attenta all’equilibrio tra eleganza e buon gusto, trovava decisamente poco empatico.
La colonna sonora
A firmare le musiche è Victor Young, uno di quei compositori che sembrano nati per il cinema.
Nato a Chicago nel 1900, da una famiglia ebraica di origine polacca, studia violino a Varsavia, dove riceve una solida formazione classica. Ma è tornando in America che trova il suo vero palcoscenico: Hollywood.
Young ha scritto più di 300 colonne sonore, e non è un modo di dire. Era celebre nell’ambiente per la sua incredibile velocità di composizione e la capacità di adattarsi ai generi più diversi, passando con naturalezza da un western a un melodramma, da un’epopea storica a una commedia romantica.
Tra i suoi lavori più noti ci sono Il giro del mondo in 80 giorni (Oscar postumo nel 1957), Johnny Guitar e Un uomo tranquillo, dove seppe fondere le suggestioni liriche della partitura con motivi popolari irlandesi. In Per chi suona la campana (1943), adattamento del romanzo di Hemingway ambientato durante la guerra civile spagnola, usa invece la chitarra in modo sapiente e malinconico, quasi fosse la voce narrante invisibile del film.
Per Scaramouche (1952), capolavoro del genere cappa e spada, crea una partitura frizzante e colorata, in perfetta sintonia con la regia coreografica e danzante di George Sidney. E in Come le foglie al vento (Written on the Wind, 1956), il melodramma firmato Douglas Sirk, compone solo la canzone dei titoli, su parole di Sammy Cahn, ma è sufficiente per lasciare un’impronta.
Young non era un compositore invadente. La sua musica non schiacciava mai la scena, ma la accompagnava, la completava, ne svelava la temperatura emotiva più profonda. Anche in La porta d’oro, il suo lavoro è discreto e raffinato: non impone, ma suggerisce. E lo fa con quella sensibilità che solo i grandi artigiani dell’immagine sanno tradurre in note.
La porta d'oro arriva nelle sale americane il 26 settembre 1941, con una première al Paramount Theatre di New York. Il budget sfiora il milione di dollari, 978.000, per la precisione, e solo per i tre interpreti principali vengono spesi oltre 237.000 dollari. Una cifra che la Paramount ritiene giustificata: la storia è forte, il cast perfettamente assortito, la regia di Leisen ha il giusto equilibrio tra eleganza e coinvolgimento emotivo.
Il film piace. Alla critica e al pubblico. Non fa rumore, ma lascia traccia. Viene apprezzata l’interpretazione di Charles Boyer, lo charme in ombra di Paulette Goddard, e soprattutto quella di Olivia de Havilland, capace di trasformare il suo personaggio con una delicatezza quasi invisibile, ma potentissima. A colpire è anche la sceneggiatura firmata Brackett e Wilder, che riesce a unire dramma e ironia con una naturalezza che allora era tutt’altro che scontata.
Arrivano anche le nomination agli Oscar: sei in tutto.
Miglior film, regia, sceneggiatura originale, fotografia, scenografia… e miglior attrice protagonista, per de Havilland.
Ed è qui che il film entra in una storia più grande. Perché tra le candidate di quell’anno c’è anche Joan Fontaine, sorella minore di Olivia. È la prima volta che due sorelle si trovano a competere nella stessa categoria. Olivia è candidata per La porta d'oro, Joan per Il sospetto di Hitchcock. E in gara ci sono anche Bette Davis e Barbara Stanwyck. Joan, all’inizio, non vuole nemmeno andare alla serata. Ha paura del confronto con Olivia. Ma è proprio lei, la sorella maggiore, ad aiutarla a prepararsi, a spronarla a farsi vedere. Arrivano insieme. E quando viene annunciato il nome di Joan come vincitrice, pare che Olivia le dica soltanto: “Alzati. Abbiamo vinto.”
È un momento di tenerezza, almeno in apparenza. Ma qualcosa si incrina subito dopo. Diversi testimoni raccontano che, mentre Olivia cerca di congratularsi, Joan le volta le spalle.
Young ha scritto più di 300 colonne sonore, e non è un modo di dire. Era celebre nell’ambiente per la sua incredibile velocità di composizione e la capacità di adattarsi ai generi più diversi, passando con naturalezza da un western a un melodramma, da un’epopea storica a una commedia romantica.
Tra i suoi lavori più noti ci sono Il giro del mondo in 80 giorni (Oscar postumo nel 1957), Johnny Guitar e Un uomo tranquillo, dove seppe fondere le suggestioni liriche della partitura con motivi popolari irlandesi. In Per chi suona la campana (1943), adattamento del romanzo di Hemingway ambientato durante la guerra civile spagnola, usa invece la chitarra in modo sapiente e malinconico, quasi fosse la voce narrante invisibile del film.
Per Scaramouche (1952), capolavoro del genere cappa e spada, crea una partitura frizzante e colorata, in perfetta sintonia con la regia coreografica e danzante di George Sidney. E in Come le foglie al vento (Written on the Wind, 1956), il melodramma firmato Douglas Sirk, compone solo la canzone dei titoli, su parole di Sammy Cahn, ma è sufficiente per lasciare un’impronta.
Young non era un compositore invadente. La sua musica non schiacciava mai la scena, ma la accompagnava, la completava, ne svelava la temperatura emotiva più profonda. Anche in La porta d’oro, il suo lavoro è discreto e raffinato: non impone, ma suggerisce. E lo fa con quella sensibilità che solo i grandi artigiani dell’immagine sanno tradurre in note.
La porta d'oro arriva nelle sale americane il 26 settembre 1941, con una première al Paramount Theatre di New York. Il budget sfiora il milione di dollari, 978.000, per la precisione, e solo per i tre interpreti principali vengono spesi oltre 237.000 dollari. Una cifra che la Paramount ritiene giustificata: la storia è forte, il cast perfettamente assortito, la regia di Leisen ha il giusto equilibrio tra eleganza e coinvolgimento emotivo.
Il film piace. Alla critica e al pubblico. Non fa rumore, ma lascia traccia. Viene apprezzata l’interpretazione di Charles Boyer, lo charme in ombra di Paulette Goddard, e soprattutto quella di Olivia de Havilland, capace di trasformare il suo personaggio con una delicatezza quasi invisibile, ma potentissima. A colpire è anche la sceneggiatura firmata Brackett e Wilder, che riesce a unire dramma e ironia con una naturalezza che allora era tutt’altro che scontata.
Arrivano anche le nomination agli Oscar: sei in tutto.
Miglior film, regia, sceneggiatura originale, fotografia, scenografia… e miglior attrice protagonista, per de Havilland.
Ed è qui che il film entra in una storia più grande. Perché tra le candidate di quell’anno c’è anche Joan Fontaine, sorella minore di Olivia. È la prima volta che due sorelle si trovano a competere nella stessa categoria. Olivia è candidata per La porta d'oro, Joan per Il sospetto di Hitchcock. E in gara ci sono anche Bette Davis e Barbara Stanwyck. Joan, all’inizio, non vuole nemmeno andare alla serata. Ha paura del confronto con Olivia. Ma è proprio lei, la sorella maggiore, ad aiutarla a prepararsi, a spronarla a farsi vedere. Arrivano insieme. E quando viene annunciato il nome di Joan come vincitrice, pare che Olivia le dica soltanto: “Alzati. Abbiamo vinto.”
È un momento di tenerezza, almeno in apparenza. Ma qualcosa si incrina subito dopo. Diversi testimoni raccontano che, mentre Olivia cerca di congratularsi, Joan le volta le spalle.
Ma la vendetta si sa, è un piatto che va servito freddo, e 5 anni dopo si presenta l’occasione. Olivia è di nuovo candidata come miglior attrice, stavolta per A ciascuno il suo destino. Quando vince, è Joan a trovarsi dietro le quinte: ha appena presentato il premio al miglior attore. Stavolta si avvicina lei, per congratularsi. Ma Olivia si gira dall’altra parte. Il momento viene immortalato da un fotografo, e diventa una delle immagini più famose nella storia degli Oscar.
Siamo arrivati alla fine di un articolo che non pensavo nemmeno di scrivere.
Ho iniziato per curiosità, quasi per caso, e mi sono ritrovata dentro una storia molto più grande di quanto immaginassi. Una storia che parla di confini e attese, ma anche di talento, intuizioni, attriti, scommesse vinte e occasioni colte al volo. E ora che sono arrivata fin qui, mi rendo conto che La porta d’oro è uno di quei film che, se li lasci entrare, ti restano addosso. Proprio come certe scoperte fatte tardi. Ma al momento giusto.
Siamo arrivati alla fine di un articolo che non pensavo nemmeno di scrivere.
Ho iniziato per curiosità, quasi per caso, e mi sono ritrovata dentro una storia molto più grande di quanto immaginassi. Una storia che parla di confini e attese, ma anche di talento, intuizioni, attriti, scommesse vinte e occasioni colte al volo. E ora che sono arrivata fin qui, mi rendo conto che La porta d’oro è uno di quei film che, se li lasci entrare, ti restano addosso. Proprio come certe scoperte fatte tardi. Ma al momento giusto.
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