Pickfair: la villa che cambiò Hollywood per sempre
giovedì, settembre 04, 2025“Ci sono solo campi di fagioli. Nessuno ci vorrà mai vivere.”
Così commentavano i primi agenti immobiliari di Los Angeles a inizio Novecento, quando quel tratto anonimo tra Coldwater Canyon e Wilshire Boulevard, sulle colline a ovest della città, era ancora solo una distesa coltivata a fagioli di lima. Nessuna strada asfaltata, nessun servizio, solo polvere e un progetto immobiliare che sembrava destinato a fallire.
E invece, nel giro di pochi anni, sarebbe diventata una delle zone residenziali più esclusive d’America, così celebre da trasformare anche il suo codice postale, 90210, in un’icona globale: parlo di Beverly Hills.
A innescare questa trasformazione non è stata una politica urbanistica lungimirante, o un colpo di fortuna economico, ma un fenomeno molto più potente: il cinema. O meglio, due delle sue prime grandi star. Quando Douglas Fairbanks e Mary Pickford, la coppia più amata d’America, decisero di costruire qui la loro residenza, quel nulla polveroso cominciò ad attrarre l’élite di Hollywood come un magnete.
La villa si chiamava Pickfair. E non fu solo una casa: fu un simbolo.
Simbolo di successo, eleganza, modernità. Simbolo di una nuova era in cui le star non si accontentavano più dei riflettori, ma volevano anche il loro regno.
Un regno con piscina, portico in stile Tudor, cene da venti portate e ospiti reali seduti accanto a scienziati, attrici, pugili e presidenti.
Ma Pickfair è anche il frutto di una visione condivisa: quella di pionieri del gusto e dell’architettura, come l’allora emergente Wallace Neff, che ha trasformato un rustico rifugio di caccia in una dimora da sogno, e come Elsie de Wolfe, prima interior decorator professionista d’America, che ha dato forma all’estetica luminosa e sofisticata che avrebbe influenzato intere generazioni.
Pickfair non ha solo ospitato feste leggendarie, ha definito un’estetica, un modo di vivere e, soprattutto, ha reso Beverly Hills un luogo mitico.
Prima ancora delle palme, delle limousine e delle boutique di Rodeo Drive, è stata quella villa sulle colline a raccontare al mondo cosa significasse essere “una star”.
In questo viaggio andremo alla scoperta di quella casa e delle vite che l’hanno abitata.
Passeremo per le stanze che hanno visto nascere la mondanità hollywoodiana, siederemo al tavolo con Charlie Chaplin e Amelia Earhart, esploreremo l’arte e l’architettura che ne hanno fatto un esempio di stile, fino ad arrivare, con un misto di malinconia e stupore, alla sua demolizione.
Perché sì, la villa che ha fondato Beverly Hills oggi non esiste più.
Ma come tutte le vere leggende, anche Pickfair è sopravvissuta a se stessa.
Nelle foto sbiadite, nei racconti tramandati, nel desiderio di chi ancora sogna, tra le colline californiane, un angolo di gloria.
La nascita di Beverly Hills
All’inizio del Novecento, Beverly Hills non è ancora un simbolo. Non ci sono cancelli dorati, né limoni nei vialetti d’ingresso. Solo campi. Campi di fagioli di lima, per la precisione.
È difficile da immaginare, ma in quel tratto anonimo tra Coldwater Canyon e Wilshire Boulevard c’erano più zolle di terra che persone, più polvere che strade. Il terreno apparteneva un tempo al Rancho Rodeo de las Aguas, una concessione agricola messicana. Dopo l’annessione della California agli Stati Uniti, la terra era stata lottizzata e affittata a coltivatori locali. I fagioli di lima, resistenti alla siccità e facili da trasportare, erano la coltura ideale: non richiedevano impianti costosi e garantivano buoni margini anche su piccoli appezzamenti.
Nel 1900, attratta dal boom petrolifero della California, la Amalgamated Oil Company acquista tutta l’area — oltre 1.000 acri — convinta di trovare petrolio. Invece, trova acqua. Tanta acqua. Troppa per trivellare, troppo poca per farne una risorsa commerciale. Ma proprio quell’acqua diventa la chiave di volta: gli investitori riconvertono il progetto e fondano la Rodeo Land and Water Company, decisi a trasformare quella terra agricola in un quartiere residenziale.
Nel 1906 danno alla zona un nome nuovo: Beverly Hills. “Beverly” in omaggio alla cittadina del Massachusetts dove alcuni fondatori avevano trascorso l’infanzia. “Hills” per quelle dolci colline che, fino a quel momento, non promettevano nulla.
Le promesse sono ambiziose: “una delle meraviglie del mondo”. Ma i primi anni sono un calvario. Il terreno costa troppo, le case tardano ad arrivare e la posizione è considerata scomoda. Per evitare il fallimento, Henry Hammel, uno degli investitori principali, offre parte dei lotti alla Pacific Electric Railway, sperando che qualche tenda e un po’ di traffico aiutino a raggiungere i 500 residenti necessari per l’incorporazione comunale.
Beverly Hills diventa ufficialmente città nel 1914, ma resta semivuota. Le vendite procedono a rilento e i vincoli razziali, che impediscono a ebrei, asiatici e neri di acquistare terreni, la rendono ancora più esclusiva — e non in senso positivo.
Poi qualcosa cambia. Non è un progetto urbanistico, né una nuova ferrovia. Sono due persone. Una coppia di attori, Douglas Fairbanks e Mary Pickford, che all’inizio degli anni Venti decide di farsi costruire qui la propria casa. E improvvisamente, quello che era un campo di fagioli diventa il cuore della nuova Hollywood.
La Royal Couple di Hollywood
Quando Douglas Fairbanks e Mary Pickford arrivano a Beverly Hills, il cinema è ancora giovane, ma loro sono già leggenda. Non solo per i ruoli che interpretano sullo schermo, ma per ciò che rappresentano fuori: la prima vera coppia reale di Hollywood.
Douglas Fairbanks è un concentrato di energia e ottimismo. Capace di saltare da una balconata all’altra con un sorriso da cartolina, ha trasformato il genere avventuroso in un fenomeno mondiale. I suoi film, come Il segno di Zorro, Robin Hood e Il ladro di Bagdad, non sono solo successi di pubblico ma creano un nuovo standard per l’eroe cinematografico. Ironico, atletico, sempre impeccabile, Fairbanks è il primo attore a incarnare l’idea di “star” come oggi la intendiamo. Dietro le quinte è anche produttore, sceneggiatore e co-fondatore della United Artists, uno studio pensato per dare agli artisti maggiore controllo creativo.
Mary Pickford, invece, è il volto dolce dell’America post-bellica. Conosciuta come la reginetta d’America, ha occhi profondi, riccioli biondi e una voce garbata che le permette di passare con grazia dal cinema muto al sonoro. Ma sotto l’aspetto tenero c’è una mente affilata. Pickford è un’imprenditrice decisa, una delle prime donne a negoziare contratti milionari, una pioniera dietro la macchina da presa. Anche lei è tra i fondatori della United Artists, insieme a Fairbanks, Charlie Chaplin e D.W. Griffith, in una mossa che rivoluziona l’industria cinematografica.
Si conoscono nel 1916, entrambi sposati con altri. Ma l’alchimia è innegabile. Quando finalmente si sposano nel 1920, dopo divorzi controversi e una stampa in pieno delirio, diventano il simbolo di un sogno americano fatto di successo, bellezza e romanticismo. E per celebrare l’unione, Fairbanks regala a Mary qualcosa di unico: una villa in costruzione su una collina allora dimenticata. La chiamano Pickfair, unione dei loro cognomi.
Ma Pickfair è molto più di una residenza: è una dichiarazione di potere, di stile e di ambizione. Mary e Doug non si accontentano di abitare Hollywood, vogliono essere Hollywood. E per farlo, hanno bisogno di un palcoscenico adeguato.
L’architetto visionario che ha trasformato un rifugio di caccia
Quando Douglas Fairbanks visita per la prima volta quella casa di legno immersa nel verde, non c’è nulla che faccia pensare a una residenza da sogno. Siamo in cima a Summit Drive, nel cuore del San Ysidro Canyon, e la proprietà al civico 1143 è un vecchio rifugio di caccia in stile rustico, privo di elettricità e acqua corrente, usato per brevi soggiorni nei fine settimana. Intorno, si estendono 14 acri di terreno collinare popolati da arbusti e querce. La struttura è semplice, quasi provvisoria: una piccola veranda, pareti in legno grezzo e interni scuri e spogli. Eppure, Fairbanks se ne innamora. Lo acquista nel 1919, pagandolo 35.000 dollari, con l’idea di farne un regalo di nozze per Mary Pickford.
Per trasformare quel rustico “shooting box” in una vera dimora regale, Doug si affida a Wallace Neff, giovane architetto californiano destinato a lasciare un segno profondo nello stile della Golden Age di Hollywood. Neff, figlio di un celebre stampatore, ha studiato architettura in Europa, e da poco ha aperto il suo studio a Pasadena. Incontra Fairbanks e Pickford negli uffici della United Artists, durante un pranzo informale. I due attori sono affascinati dal suo approccio: elegante ma non ostentato, raffinato e funzionale. Gli chiedono di ampliare Pickfair e di costruire, accanto, anche una casa per la madre di Mary. È l’inizio di una collaborazione che durerà decenni.
Neff trasforma la struttura esistente in una residenza a forma di L, con due ali disposte in modo da aprirsi sul giardino e sul canyon. Il nuovo stile è un mock Tudor californiano, una fusione tra cottage inglese e villa europea. Tetti spioventi, finestre a riquadri, facciate in legno chiaro e balconcini in ferro battuto donano alla casa un’aria fiabesca, ma allo stesso tempo sobria. Le tegole in rame, il vialetto in ciottoli e le colonne con capitelli scolpiti suggeriscono il gusto cosmopolita della coppia, che vuole una casa accogliente, ma in grado di stupire.
La tenuta include anche scuderie, serre, una casa da tè, un campo da tennis, un minigolf, una guest house, una piscina scavata nel terreno dove andavano perfino in canoa. Il giardino, curato in ogni dettaglio, è un’esplosione di colori, con rose inglesi, alberi da frutto, statue neoclassiche e pergolati ombreggiati da glicine.
Neff rimarrà per sempre legato a Pickfair. Grazie a quel progetto, la sua carriera decolla, e Mary Pickford finanzia anche alcune sue sperimentazioni architettoniche. È anche questo, in fondo, il segreto di Pickfair: non è solo una villa, ma un’opera collettiva, in cui sogni personali e ambizioni artistiche si incontrano e si sostengono a vicenda.
Elsie de Wolfe: la donna che ha inventato l’interior design
Ma prima di entrare a Pickfair e iniziare il tour, devo parlarvi di una figura senza la quale questa casa non sarebbe mai diventata l’icona che conosciamo oggi. Non una diva, non un regista, ma una donna che ha fatto della bellezza il suo mestiere: Elsie de Wolfe, pioniera del design d’interni e vera regina dello stile.
Elsie nasce a New York alla fine dell’Ottocento in una famiglia benestante e, dopo una breve carriera da attrice, capisce che la sua vera vocazione è trasformare gli ambienti. Detesta l’estetica cupa del periodo vittoriano, i tendaggi pesanti, le stanze buie. Ama la luce, il verde salvia, le righe bianche, le sedie Luigi XVI. È anticonformista, sofisticata, determinata. Apre finestre dove nessuno oserebbe, alleggerisce ogni stanza con specchi, mobili chiari, porcellane francesi e chinoiserie. E soprattutto, inventa un mestiere: è considerata la prima vera interior decorator professionista d’America.
Nel 1905 conquista il suo primo incarico importante, il Colony Club di New York, e da lì inizia a lavorare per nomi come Anne Vanderbilt, la Duchessa di Windsor e Henry Clay Frick. Frequenta Parigi, ama il sole della California, e si muove tra salotti altolocati e ville da reinventare con un’eleganza tutta sua.
Il suo legame con Mary Pickford nasce a Los Angeles, quando le due si incontrano agli studi della United Artists, la compagnia fondata da Mary, Fairbanks, Chaplin e Griffith. Mary ha appena sposato Douglas, e insieme hanno iniziato a ristrutturare Pickfair. Hanno bisogno di qualcuno che dia forma alla loro visione di casa, che riesca a coniugare sogno e prestigio, intimità e rappresentanza. De Wolfe accetta subito.
Per Pickfair non si limita a consigliare qualche tessuto: rifà completamente gli interni. Abbandona ogni residuo della vecchia hunting lodge e plasma stanze leggere, ariose, luminose. Fa allargare finestre, coprire travi grezze, smontare tende pesanti. Il soggiorno diventa una sala in stile francese con boiserie chiare, divani imbottiti in seta lavanda e grandi specchi dorati. Nella sala da pranzo introduce porcellane di Sèvres, mobili antichi e una specchiera scorrevole che nasconde il camino. Perfino i bagni sono arredati con gusto teatrale ma sobrio, come se ogni dettaglio dovesse raccontare una storia.
Tra le due donne nasce una fiducia autentica. Mary le dà carta bianca, e de Wolfe fa di Pickfair un manifesto del suo stile. Ogni stanza riflette la raffinatezza della padrona di casa e la modernità della sua designer. Quando gli ospiti varcano la soglia, prima ancora di vedere Mary e Douglas, percepiscono l’impronta inconfondibile di Elsie.
In un mondo ancora dominato dagli uomini, è proprio una donna a dettare le regole del gusto. E Pickfair, più che una casa, diventa il suo capolavoro silenzioso.
Per chi ha già letto il mio articolo sui cocktail nel cinema classico, questo nome non suonerà nuovo. Elsie de Wolfe è infatti accreditata come l’inventrice di una delle prime versioni del Pink Lady, il cocktail divenuto celebre anche sul grande schermo. La sua ricetta — gin, succo di pompelmo rosa e Cointreau — era servita regolarmente alle sue feste, riflettendo lo stesso spirito leggero, brillante e anticonvenzionale che ha caratterizzato tutta la sua carriera.
Un altro tassello che racconta quanto, anche tra i bicchieri e le stoffe damascate, Elsie de Wolfe abbia saputo lasciare un segno nella storia dello stile. Se volete recuperare quell’articolo, lo trovate in fondo alla pagina.
Il tour della casa

IL PIANO TERRA
Appena superato l’ingresso, l’impatto è teatrale. Una grande scalinata avvolgente si apre davanti agli ospiti, curva con eleganza sotto un imponente lampadario di cristallo. È la sala delle scale, uno spazio progettato per stupire fin dal primo passo, in cui le proporzioni sembrano amplificate dalla luce naturale che filtra dalle alte finestre. Mary e Douglas vi compaiono spesso nelle fotografie dell’epoca: minuscoli al confronto, come a sottolineare che, a Pickfair, lo spettacolo comincia già nel foyer.
Da qui si accede al salone principale, rivestito da pannelli dipinti e impreziosito da una collezione di mobili europei, tra cui sedie Luigi XIV, arazzi, quadri e antichità scelte personalmente da Mary Pickford. Il suo posto preferito era su un divano in seta damascata cinese, raccolta e sorridente tra statue orientali e porcellane rare. Pickfair, più che una casa, è un riflesso del gusto eclettico e sofisticato di chi l’ha abitata.
Accanto si trova la sala da pranzo formale, un ambiente in continua trasformazione. Mary è celebre per ridisegnare gli interni da un weekend all’altro, cambiando luci, tappezzerie, disposizione dei mobili e perfino la lunghezza della stanza, grazie a pareti mobili o ampliamenti temporanei. Ad esempio Mary fa applicare una parete specchiata a chiusura del caminetto che lo fa completamente sparire.
Ogni cena a Pickfair può diventare una sorpresa scenografica, curata nei minimi dettagli. Non è raro che, da un fine settimana all’altro, la sala passi da sobria a sfarzosa, sempre pronta ad accogliere ambasciatori, attori, regine di bellezza o scienziati in visita.E tra un piatto e l’altro, non mancava il gusto per l’inatteso. Douglas, con il suo spirito teatrale e un’ironia a tratti fanciullesca, aveva fatto installare una sedia “truccata” capace di dare una lieve scossa elettrica agli ospiti più ignari. Un piccolo scherzo da gentiluomo, che gli permetteva di osservare le reazioni più disparate tra una portata e l’altra. Quel tocco imprevedibile – mai offensivo, sempre giocoso – dice molto dell’atmosfera che si respirava a Pickfair: tra aristocrazia e vaudeville, eleganza e commedia slapstick.
La luce gioca un ruolo fondamentale in tutta la casa, e il merito è anche delle porte francesi. Raffinate e funzionali, queste porte a vetri, suddivise in riquadri simmetrici e incorniciate da legno dipinto di bianco, sono presenti in ogni ambiente di rappresentanza. Collegano gli interni al giardino, lasciando entrare aria e sole. Quando sono aperte, la casa sembra estendersi fino ai prati, creando un continuum tra dentro e fuori.
La veranda vetrata, affacciata sul prato, ospita tè pomeridiani e colazioni tardive. E anche gli ambienti di servizio – la sala da colazione, la cucina, gli alloggi per la servitù – mantengono uno standard estetico elevato, con dettagli eleganti e materiali selezionati con cura.
I PIANI SUPERIORI
Salendo la grande scalinata avvolgente, si raggiunge il piano superiore della villa. Qui, inizia un’altra dimensione di Pickfair: quella più privata, ma non per questo meno sontuosa. Le camere da letto, distribuite lungo un corridoio centrale, sono pensate per stupire tanto quanto gli ambienti di rappresentanza.
La suite padronale di Mary, affacciata sul giardino, è un piccolo capolavoro in stile neoclassico francese. Le pareti sono rivestite in seta nei toni lavanda e verde salvia, i mobili sono ispirati al Settecento – dalle consolle dorate alle sedie con schienale ovale – mentre grandi specchi moltiplicano lo spazio e la luce. La stanza è completata da un bagno privato, dotato di vasca in porcellana e piastrelle decorate, e da una veranda per dormire, molto in voga prima dell’invenzione dell’aria condizionata.
Accanto, la camera di Douglas Fairbanks riflette un gusto più sobrio ma altrettanto ricercato: pelle, legni scuri e una scrivania in noce massello dove ama rivedere copioni e bozze. Le loro stanze sono separate ma comunicanti, a dimostrazione di un’intimità moderna, fondata sulla complicità più che sulla formalità.
Lungo il corridoio si trovano cinque camere per gli ospiti, ognuna arredata con uno stile diverso: chinoiserie, neogotico, rococò, secondo il gusto e la provenienza di chi vi alloggiava. Anche i bambini e i familiari più stretti avevano stanze personalizzate, con camini in marmo, armadi laccati, peluche in ogni angolo e, naturalmente, tappeti soffici dove giocare o leggere accoccolati.
Ma la vera sorpresa si trova ancora più in alto, al terzo piano: una sala da biliardo e una pista da bowling privata, entrambe pavimentate in legno levigato. Fairbanks ha voluto questi spazi non solo per sé, ma per intrattenere gli ospiti durante le lunghe serate hollywoodiane. C’è anche una piccola sala proiezioni, dove i due coniugi visionano pellicole in anteprima, spesso in compagnia di registi e attori amici.
Il piano superiore custodisce il lato più personale della coppia, ma sempre all’insegna dell’eleganza. Qui si respira una calma ovattata, in netto contrasto con la vitalità degli spazi inferiori. È il luogo dove Mary scrive lettere, dove Doug si rifugia con un libro, dove gli ospiti trovano riposo dopo una cena sfarzosa o una partita a tennis.
In questo video viene consegnato l'Oscar alla carriera a Mary Pickford direttamente a Pickfair.
OUTDOOR

Ora lasciamoci l’interno della casa alle spalle e spostiamoci all’esterno, dove Pickfair si trasforma da sontuosa residenza privata a vero e proprio palcoscenico all’aperto. I suoi giardini si estendono per oltre 18 acri tra dolci declivi, terrazze fiorite e scorci paesaggistici che sembrano usciti da un sogno. Nulla è lasciato al caso: sentieri in pietra serpeggiano tra fontane in stile europeo e aiuole geometriche, mentre gazebo e pergolati punteggiano lo spazio come quinte sceniche, pronte ad accogliere feste e ricevimenti.
Protagonista assoluta è la piscina, una delle prime interrate nella contea di Los Angeles. Lunga oltre 17 metri, avvolge la casa come un nastro d’acqua, riflettendo il cielo e la facciata della villa. L’immagine iconica di Mary e Douglas che vi remano in canoa, perfettamente vestiti, è diventata simbolo stesso dell’eleganza giocosa che aleggiava su Pickfair.
Accanto, si trovano stagni artificiali, un padiglione da tè nascosto tra gli alberi, una scuderia con sei stalle, un minigolf e una pista da jogging nel seminterrato che, secondo più di una testimonianza, Fairbanks percorreva spesso completamente nudo. Ogni angolo era pensato per stupire o intrattenere, per incantare gli ospiti e consolidare l’aura di leggenda della coppia.
Persino l’ingresso alla proprietà era teatrale: un viale alberato culminava in colonne ioniche ornate da fregi e cartigli, con l'insegna “Pickfair” ben visibile ai visitatori.
I giardinieri, molti dei quali europei, curavano la vegetazione con attenzione maniacale, seguendo i disegni che Pickford aggiornava di continuo.
Dopo il tramonto, Pickfair cambiava volto. La luce naturale lasciava spazio al bagliore soffuso dei lampadari e delle candele, i profumi della cucina cominciavano a diffondersi lungo i corridoi, e il fruscio di abiti eleganti annunciava l’arrivo degli ospiti. Più che una semplice dimora privata, Pickfair era diventata il cuore mondano della Hollywood degli anni Venti. Un invito a cena nella villa dei Fairbanks valeva più di qualsiasi contratto cinematografico: era il lasciapassare per la cerchia più esclusiva dell’industria.
Cortesie per gli ospiti
A Pickfair, ogni cena è molto più di un pasto: è un evento. Mary e Doug ricevono con eleganza informale, quella che solo i veri padroni di casa riescono a rendere naturale, anche quando la lista degli ospiti include re, presidenti o divi del calibro di Greta Garbo. Il cerimoniale si ripete con una costanza che fa parte del suo fascino: il personale è istruito a preparare ogni sera la tavola per almeno quindici coperti, indipendentemente dal numero effettivo di ospiti. Douglas ha l’abitudine di invitare persone all’ultimo momento, spesso senza neanche avvisare Mary, che però ha ormai imparato a prevederlo.
Il salone da pranzo, come abbiamo visto, cambia volto di continuo. Un giorno può accogliere una cena in stile rococò francese, con porcellane antiche e candelabri dorati, e il giorno dopo essere trasformato in una sala più austera e inglese, tutta legni scuri e candele bianche. Mary adora sorprendere, e dietro ogni serata c’è un’idea, un tema, un gioco scenografico. Non è raro che il menù venga stampato su cartoncini personalizzati, a volte persino decorati a mano.
Il menù è spesso semplice ma impeccabile. Nessun alcol in tavola, almeno ufficialmente: Douglas è astemio. Mary, invece, ama concedersi qualche bicchiere — ma con discrezione. Si dice che nasconda lo sherry in una bottiglia da collutorio, e il gin in un flacone di acqua ossigenata. Una forma di ribellione domestica, che racconta quanto anche tra i muri dorati di Pickfair ogni equilibrio sia fatto di compromessi.
Gli ospiti, intanto, si avvicendano come in un romanzo corale. C’è Albert Einstein, curioso e gentile, seduto accanto a Helen Keller. C’è la Duchessa di Windsor, impeccabile come sempre. C’è Noël Coward che ride sommessamente con Joan Crawford, e poi Will Rogers, che da sindaco di Beverly Hills scherza dicendo che il suo compito principale è “indirizzare i forestieri a casa della signora Pickford”. E ancora: Elinor Glyn, Greta Garbo, Charles Lindbergh, Thomas Edison, Amelia Earhart, H.G. Wells, F. Scott Fitzgerald.
La conversazione, ovviamente, è parte dello spettacolo. Si parla di arte, politica, gossip, letteratura, ma anche delle ultime innovazioni tecniche o delle scoperte scientifiche. Non mancano i momenti eccentrici: Fairbanks ama intrattenere i commensali con giochi di prestigio o improvvisazioni teatrali. Si racconta che una sera abbia fatto il giro del tavolo recitando Shakespeare in costume, tra le risa complici degli amici.
Cene così non si improvvisano. Sono rituali condivisi, momenti in cui Hollywood dimentica per qualche ora le luci dei riflettori per celebrare se stessa, in un’atmosfera sospesa tra mondanità e intimità. Pickfair diventa allora teatro, tempio e salotto: il luogo dove le storie nascono, si raccontano e, a volte, si riscrivono.
La fine di un’era
Negli anni Trenta, la luce dorata che aveva circondato Pickfair inizia ad affievolirsi. Hollywood cambia, e con essa cambiano anche Mary e Doug. L’arrivo del cinema sonoro ha scosso l’industria, portando nuove star e un nuovo tipo di recitazione. Fairbanks, che aveva costruito la sua carriera su personaggi atletici e irriverenti, fatica ad adattarsi a questo nuovo linguaggio. Pickford, invece, cerca di reinventarsi.
Nel 1929, con Coquette, Mary ottiene il suo primo Oscar grazie a un ruolo drammatico e parlato, ma qualcosa si incrina. Per calarsi nel personaggio, decide di tagliare i celebri ricci biondi che l’avevano resa “la reginetta d’America”. È un gesto di emancipazione, un atto radicale che lei stessa definisce liberatorio. Ma il pubblico non è pronto. L’America, cresciuta con l’immagine di “Little Mary”, si sente tradita. Le lettere dei fan si fanno amareggiate, qualcuno parla di “un lutto nazionale”.
Quel taglio segna un punto di non ritorno. Non solo nel rapporto con i suoi spettatori, ma anche nella sua identità pubblica. Lontana dai ruoli infantili che l’avevano resa famosa, Mary appare irriconoscibile. E se da un lato inizia a dedicarsi con passione alla produzione cinematografica e alle attività benefiche, dall’altro si ritira sempre più spesso nella quiete malinconica di Pickfair.
Anche il matrimonio con Fairbanks mostra le prime crepe. Le loro ambizioni divergono, i viaggi si fanno più frequenti, le cene più silenziose. Doug inizia a trascorrere lunghi periodi in Europa, mentre Mary rimane a casa, circondata dai ritratti del passato. A poco a poco, i due si allontanano. Nel 1933 annunciano la separazione, e tre anni dopo il divorzio è ufficiale. Fairbanks si risposa con la socialite Sylvia Ashley e si trasferisce nella casa al mare di Santa Monica, dove morirà nel 1939.
Pickfair, un tempo scenario di feste leggendarie e luogo simbolico del potere hollywoodiano, si trasforma in un santuario della memoria. Mary resta lì con il secondo marito, Buddy Rogers, ma la villa non è più la stessa. I saloni, un tempo animati da regine, scienziati e campioni olimpici, si fanno silenziosi. Gli arazzi iniziano a scolorire, le stanze si svuotano, le fontane smettono di zampillare.
Quando Mary muore nel 1979, dopo decenni vissuti tra solitudine e ricordi, Pickfair è già una reliquia. Passa di mano più volte, ma nel 1990 arriva la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire: l’ultima proprietaria, l’attrice Pia Zadora, ne ordina la demolizione. Le motivazioni ufficiali parlano di danni strutturali, termiti e “spiriti inquieti”. La verità è che Pickfair non apparteneva più a nessuno: troppo legata a una gloria che non esisteva più.
Al suo posto viene costruita una nuova villa, moderna e opulenta. Ma qualcosa è andato perduto per sempre. Con Pickfair non è crollata solo una casa. È davvero finita un’era.
Spero che questo piccolo viaggio a Pickfair vi abbia fatto respirare almeno per un momento l’atmosfera di un’epoca in cui tutto stava iniziando. Dove non c’erano ancora regole, ma già si scriveva la storia.
Perché è anche da qui, da una collina di Beverly Hills e da due divi con idee molto chiare, che è nato il mito di Hollywood.
Articolo sul Grauman's Theatre: qui e qui
Articolo sui cocktail: qui
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