Il cowboy col velo da sposa: il film dal titolo assurdo che ci ha cresciuti

domenica, luglio 20, 2025

Ci sono film con cui tanti di noi sono cresciuti, anche senza accorgercene.
Sono quei titoli che sembravano spuntare in TV ogni volta che si stava a casa da scuola, che si guardavano con i cugini durante le vacanze, che ci facevano sentire un po’ americani anche noi, anche solo per il tempo di una merenda.
Ecco, Il cowboy col velo da sposa è uno di quei film, nonostante quel titolo della versione italiana così assurdo che ogni volta mi fa alzare gli occhi al cielo. Perchè non c’è nessun cowboy, e la sposa, al massimo, indossa una veletta microscopica. Chissà chi ha avuto l’idea che potesse avere senso. Ma tant’è, il mistero resta.

Ma ora arriva il colpo di scena. Io, questo film, non l’ho visto da bambina.


Anzi, devo proprio fare un mea culpa: io sono cresciuta con Genitori in trappola, quello del 1998, con Lindsay Lohan (nella sua fase d’oro), Dennis Quaid e Natasha Richardson — e ogni volta che penso alla sua tragica scomparsa, mi viene un nodo alla gola.


Quindi immaginate la mia sorpresa quando, a metà anni Duemila, m’ imbatto ne Il cowboy col velo da sposa.
E capisco che quella storia che conoscevo già a memoria… era una versione nuova di qualcosa di molto più vecchio. E che nella versione originale, la protagonista era la mia adorata Hayley Mills — sì, proprio lei, la Pollyanna con cui sono cresciuta fin da piccola (se non avete ancora visto il mio articolo su quel film lo trovate qui).
Ma non solo: in quel film c’era pure quel vecchietto furbo e dolcissimo che avevo già visto nei panni del veterinario in Quattro bassotti per un danese, per non parlare della nonna di Cary Grant in Un amore splendido — due volti che per me erano pura casa.
E poi vogliamo parlare delle voci? La direttrice del campeggio è una super divertente di Lydia Simoneschi, qui davvero in versione Maga Magò in vacanza. Ma anche il resto del cast è il fior fiore del nostro doppiaggio italiano.
Dal momento in cui ho scoperto Il cowboy col velo da sposa, non ne sono più uscita.
Anzi, è entrato nel mio cuore con prepotenza, come solo i grandi classici sanno fare quando ti sorprendono da adulta, e ti fanno sentire, per un attimo, di nuovo una bambina.
Ecco perché oggi voglio portarvi dietro le quinte di questo piccolo grande film: raccontarvi le sue origini inaspettate, gli effetti speciali pionieristici, il cast straordinario, gli incidenti sul set, e il modo in cui la Disney ha scelto di raccontare, con leggerezza e rispetto, un tema delicatissimo per l’epoca: il divorzio, mettendo finalmente al centro lo sguardo dei figli. 
Se pensate di conoscere Il cowboy col velo da sposa, aspettate di leggere tutto il resto. Perché — e ve lo dico col cuore — c’è molto, molto di più. 


Il titolo originale è The parent trap, ed è un film del 1961 diretto da David Swift con protagonisti Hayley Mills, Maureen O'Hara e Brian Keith.  

La trama in breve: Susan e Sharon si incontrano per caso in un campo estivo e scoprono, con sgomento e meraviglia, di essere sorelle gemelle. Separate alla nascita dopo il divorzio dei genitori, decidono di scambiarsi di posto: Susan va a vivere con la madre a Boston, Sharon col padre in California. L’obiettivo? Conoscere il genitore “mancante”… e magari, far riunire la famiglia. Ma tra imprevisti, travestimenti e una futura matrigna in agguato, le due ragazze dovranno mettere in campo tutta la loro astuzia per far trionfare l’amore.

Alcune scene del film

All’inizio degli anni Sessanta l’America si sta scrollando di dosso il perbenismo dell’era Eisenhower e si affaccia a un decennio che cambierà tutto: i costumi, la musica, la famiglia, persino l’idea stessa di infanzia. È un’epoca di grandi contraddizioni: da un lato il boom economico, il mito della famiglia perfetta, i quartieri residenziali con la staccionata bianca. Dall’altro, il fermento culturale e sociale che inizia a premere da sotto la superficie.
Nel cinema, la Disney è ancora sinonimo di sicurezza, di mondi incantati, di intrattenimento familiare senza spigoli. Ma anche in casa Disney si avverte che qualcosa sta cambiando.
Il pubblico non è più composto solo da bambini accompagnati dai genitori: i film devono parlare anche agli adulti, e possibilmente a quelle famiglie che non sono più così perfette come vengono rappresentate nelle pubblicità..  
    
Non è una storia nata a Hollywood, e forse è proprio questo il suo segreto. 
Tutto comincia nel 1949, in un’Europa ancora scossa dalla guerra. Lo scrittore austriaco Erich Kästner, noto per i suoi romanzi per ragazzi che mischiano delicatezza, ironia e un tocco malinconico, pubblica un libro destinato a restare nel cuore di moltissimi lettori: Das doppelte Lottchen.

La trama, semplice solo in apparenza, racconta di due gemelle identiche, Luise e Lotte, cresciute una a Vienna e l’altra a Monaco, che si incontrano per caso in un campeggio estivo. Scoprono di essere sorelle, separate dai genitori dopo il divorzio, e decidono di scambiarsi la vita: Luise va con la madre, Lotte col padre. Non per capriccio, ma con l’idea (geniale e disperata, come solo i bambini sanno avere) di rimettere insieme la famiglia.
Il tono è lieve, pieno di sfumature. C’è l’umorismo, certo, ma anche la tristezza dei legami spezzati, il senso di perdita e quella resilienza infantile che spinge a credere che tutto si possa aggiustare. Ecco, questo è lo spirito originale.
Il libro è un successo immediato e, appena un anno dopo, diventa anche un film: Das doppelte Lottchen, diretto da Josef von Báky, con vere gemelle nel ruolo delle protagoniste. È una trasposizione molto fedele, girata in Germania, e viene addirittura presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1951.
Quello che forse non tutti sanno è che prima ancora del libro, Kästner aveva immaginato questa storia come sceneggiatura per il cinema. Ma il progetto fu accantonato a causa della guerra, e solo in seguito prese forma come romanzo. Come dire: certe storie sanno aspettare il momento giusto.
Quel momento, per la Disney, arriva grazie all’occhio attento di Bill Dover, story editor dello studio, che qualche anno dopo ne propone l’adattamento come veicolo perfetto per Hayley Mills. Ma questa è un’altra pagina della storia, e ci arriviamo tra pochissimo…
Il film viene pensato fin da subito come un nuovo veicolo per Hayley Mills, reduce dal trionfo di Pollyanna, che le è valso un Oscar giovanile e l’affetto del pubblico di mezzo mondo. Ma di lei vi parlo meglio tra poco.
Per dare vita a questa nuova storia — brillante, tenera e con due protagoniste in una — viene richiamato David Swift, già regista e sceneggiatore di Pollyanna. 

È lui a scrivere la sceneggiatura e a immaginare i tempi comici, le battute, le situazioni assurde ma credibili. Swift ha un talento particolare: sa raccontare l’infanzia senza infantilizzarla, sa muoversi tra emozione e leggerezza con quella grazia che pochi altri riescono a imitare.
Sotto la sua penna, la storia prende nuova forma: il tono si fa più americano, più moderno, ma conserva l’anima tenera e scanzonata del racconto originale. E soprattutto mette al centro le bambine. Sono loro, fin dal primo momento, le vere protagoniste del film, non semplici pedine in balia degli adulti, ma motore attivo della narrazione.
Il titolo di lavorazione cambia diverse volte: si parte con His and Hers, si passa a Petticoats and Blue Jeans — che ha l’aria di una canzone country — e si arriva infine a The Parent Trap, semplice, ironico, accattivante. Un titolo che gioca sul doppio senso della “trappola” per genitori e su quello, più affettuoso, della riconciliazione.
Prima ancora di diventare le gemelle Sharon e Susan, Hayley Mills è già un volto amatissimo dal pubblico. 

 

Figlia dell’attore inglese Sir John Mills e della scrittrice e sceneggiatrice Mary Hayley Bell, respira cinema e teatro fin da bambina. Il suo debutto sul grande schermo arriva nel 1959, in Questione di vita o di morte, un film britannico in cui recita accanto alla madre: piccola parte, ma primo segno di un talento fuori dal comune.
Il vero colpo di fortuna, però, arriva quando Walt Disney la nota e decide di puntare tutto su di lei per un ruolo che richiede dolcezza, caparbietà e una bella dose di luce interiore: quello della protagonista in Pollyanna. Il film è un successo immediato e Hayley conquista il pubblico americano con il suo sorriso limpido e lo sguardo intelligente. Per quella interpretazione, riceve uno special Oscar giovanile che la consacra come una delle stelle emergenti del cinema familiare dell’epoca.
Disney non perde tempo: firma con lei un contratto di cinque film in cinque anni, uno ogni estate, e mette in cantiere subito un nuovo progetto pensato su misura per lei. Qui Hayley si trova a interpretare due personaggi contemporaneamente: una sfida notevole, soprattutto considerando le differenze sottili ma importanti che deve restituire. Le due gemelle parlano infatti con accenti differenti — bostoniano e californiano — e Hayley riesce a cogliere queste sfumature con una precisione sorprendente.
Per aiutarla, sul set arriva anche Susan Henning, giovane attrice che si presta come controfigura per tutte le inquadrature di spalle. Ma di questo — e dei trucchetti tecnici geniali usati dalla Disney per far sembrare reali le due gemelle — vi racconterò meglio nella sezione dedicata alle riprese.
Quello che è certo è che Hayley non si limita a “dividersi” in due: dà vita a due personalità, credibili e ben distinte, e lo fa con una freschezza che ancora oggi conquista intere generazioni.

Maureen O’Hara non ha bisogno di presentazioni. È la rossa dagli occhi verdi che ha incantato Hollywood, la musa ribelle di John Ford, la partner ideale di John Wayne. Per due decenni ha interpretato donne forti, passionali, dallo sguardo fiero e dal temperamento indomabile.


Negli anni Cinquanta era una star affermata, ma la sua carriera subisce una battuta d’arresto dopo uno scandalo montato ad arte dalla famigerata rivista Confidential — sì, la stessa finita anche al centro della vicenda di Dorothy Dandridge, ve ne ho parlato in un altro articolo. O’Hara fa causa, dimostra la falsità dell’articolo, e vince. Ma intanto Hollywood, come spesso accade, le volta le spalle.
Quando arriva la proposta della Disney per Il cowboy col velo da sposa, Maureen accetta con entusiasmo: ama la sceneggiatura, il tono familiare, il ruolo di madre intelligente e affettuosa. Ottiene anche il compenso che ritiene giusto — ma non riesce a spuntarla sulla questione più spinosa: i titoli di testa.
Il suo status da protagonista avrebbe dovuto garantirle la posizione principale, ma la Disney decide di puntare tutto sulla popolarità di Hayley Mills, fresca del successo di Pollyanna. Risultato? In alto, a caratteri cubitali, campeggia “Hayley Mills & Hayley Mills”. O’Hara (insieme a Keith) resta in seconda linea.
È un colpo che non prende bene. E anche se evita di trasformare lo scontro in una causa, decide che quella sarà la sua ultima collaborazione con lo studio.
Una scelta netta, orgogliosa, coerente con la donna che era. Perché Maureen non era solo una leggenda del cinema, ma anche una professionista integerrima, con una dignità che non scendeva mai a compromessi.

Brian Keith è uno di quegli attori che ti trasmettono fiducia al primo sguardo. Ha la voce roca, l’aria solida, lo sguardo affettuoso ma un po’ spaesato, perfetto per il ruolo del padre che si ritrova due figlie in casa… quando pensava di averne una.


Fino a quel momento, però, il suo volto era stato associato a ruoli molto diversi: poliziotti, cowboy, uomini d’azione. Era una presenza frequente in film e serie tv che avevano poco a che fare con le commedie familiari. E invece Il cowboy col velo da sposa cambia tutto. È il suo primo ruolo da protagonista in una romantic comedy — e sarà l’inizio di una nuova fase della carriera: più leggera, più domestica, più sorridente.
Keith aveva alle spalle un vissuto intenso, e non solo sullo schermo. Dal 1942 al 1945 combatte nei Marines come artigliere, durante la Seconda guerra mondiale. Viene decorato con l’Air Medal, segno di coraggio e valore. E nel suo passato c’è anche una nota tragica: la sua matrigna fu Peg Entwistle, attrice di Broadway che si tolse la vita gettandosi dalla “H” della famosa scritta di Hollywood. Un episodio che, pur non legato a lui direttamente, è rimasto scolpito nella memoria collettiva.
Dopo la guerra, Keith si afferma come attore versatile: recita in teatro, in decine di serie tv — tra cui Alfred Hitchcock Presents — e poi approda al cinema. Con The Parent Trap dimostra di saper essere anche dolce, paterno, e persino un po’ goffo, ma nel modo giusto. Il pubblico lo adora.
Negli anni seguenti continua su questa strada: sarà il protagonista della serie di grande successo Tre nipoti e un maggiordomo (Family Affair), in cui interpreta un tutore affettuoso ma confuso, e poi di Hardcastle & McCormick, diventando uno dei volti più familiari della televisione americana.
Ma la sua vita non è tutta sorrisi e ciak. Negli ultimi anni soffre di enfisema e viene colpito da un tumore ai polmoni, nonostante avesse smesso di fumare da tempo. La perdita della figlia Daisy, suicida nel 1997, lo colpisce in modo devastante. Due mesi dopo, anche Brian Keith si toglie la vita, nella sua casa di Malibu.
Un uomo complesso, segnato da lutti e successi, ma che nel cuore di chi ha amato Il cowboy col velo da sposa resta il papà perfetto: un po’ disorientato, ma sempre pronto ad accogliere con calore — anche due figlie alla volta.
Joanna Barnes è la classica attrice che non ha bisogno di molte scene per lasciare il segno. Nel film interpreta Vicky, la nuova fidanzata del padre: elegante, ambiziosa, perfettamente calcolatrice. Il tipo di donna che i bambini fiutano subito come una minaccia. E hanno ragione.
La sua performance è così incisiva che nel remake del 1998 — Genitori in trappola, con Lindsay Lohan — le viene affidato un cameo perfetto: interpreta la madre della nuova fidanzata, che guarda caso si chiama ancora Vicky. Un bel gioco di specchi che fa l’occhiolino agli spettatori più nostalgici.
Ma Joanna Barnes non è solo Vicky. Nel 1958 ottiene una nomination al Golden Globe come “New Star of the Year” per il ruolo di Gloria Upson nella commedia La signora mia zia, dove brilla in un altro personaggio snob e superbamente antipatico. L’anno successivo diventa la 13ª attrice a interpretare Jane in un film di Tarzan (Tarzan, the Ape Man, 1959). E in Spartacus (1960) è una delle due aristocratiche romane che provocano con leggerezza una ribellione di schiavi. Sempre personaggi di carattere, mai banali.
Oltre a recitare, è stata anche scrittrice, giornalista e spesso panelist nel celebre quiz show What’s My Line? (pensate era nel panel quando l’ospite da indovinare era proprio Hayley e non l’ha riconosciuta). Intelligente, ironica, affilata. E Vicky — antipatica quanto si vuole — resta una delle antagoniste più iconiche del cinema Disney. Il suo ingresso in scena in tailleur beige e sorriso di circostanza è ancora oggi un perfetto esempio di “falsa gentilezza” da manuale.


Una Merkel è la tata adorabile, quella che tutti vorremmo avere a casa: saggia, schietta, con una vena di umorismo dolce e quel modo tutto suo di far capire che sì, può sembrare quieta… ma non le sfugge nulla.


Nel film interpreta Verbena, la governante che osserva, ascolta e interviene solo quando davvero serve — e quando lo fa, non sbaglia mai un colpo. Il suo personaggio è un piccolo gioiello di equilibrio: tenero ma non melenso, comico ma mai sopra le righe. Il classico “cuore della casa”.
Ma nella vita, Una Merkel non è una comparsa. È una vera veterana di Hollywood, ha esordito come controfigura di Lillian Gish negli anni Venti, e poi attiva fin dagli anni Trenta, con una carriera che spazia dai musical alle screwball comedies fino ai western. Sempre con quella voce morbida, quell’accento del sud, e una presenza che ti mette a tuo agio solo a guardarla.
Dietro la sua grazia, però, si nasconde una vita segnata da tragedie profonde. Nel 1945, la madre di Una — con cui condivideva un appartamento a New York — si tolse la vita, aprendo tutti i fornelli a gas della cucina. Anche Una fu coinvolta: venne trovata priva di sensi nella sua stanza, intossicata dai fumi, e solo un intervento tempestivo le salvò la vita.
Sette anni dopo, quasi nello stesso periodo dell’anno, Una attraversa un’altra profonda crisi personale e tenta a sua volta il suicidio con un’overdose di sonniferi. Viene salvata in extremis da una domestica che si prendeva cura di lei. Rimane in coma per un giorno intero, ma si risveglia. E — con quella forza silenziosa che l’ha sempre contraddistinta — torna al lavoro.
Forse è proprio questo dolore trasformato in resilienza a rendere la sua Verbena così autentica e capace di toccare il cuore: una donna che ha conosciuto la sofferenza, e l’ha saputa trasformare in gentilezza.
Una delle magie del cinema classico sta anche nei volti familiari che ti fanno sentire a casa, anche se non ricordi subito il nome. Il cowboy col velo da sposa è pieno di questi volti — e in particolare ce ne sono tre che vale la pena celebrare.

Charles Ruggles, per esempio, interpreta il nonno delle gemelle con un affetto burbero e un’ironia pacata che conquista subito. Per chi è cresciuta con i film Disney, è impossibile non ricordarlo anche nei panni del veterinario in Quattro bassotti per un danese — sempre con quell’aria da zio un po’ distratto, ma dal cuore d’oro. In realtà, Ruggles è stato un gigante della commedia americana, con una carriera iniziata addirittura nel cinema muto. Ha lavorato con Ernst Lubitsch, Howard Hawks, Roy Del Ruth, interpretando spesso ufficiali, dottori, miliardari eccentrici. Insomma, un esperto assoluto della commedia sofisticata. La sua vita ve l'ho raccontata nel mio articolo Professione caratterista qui.
Altrettanto memorabile è Cathleen Nesbitt, che qui è la nonna: elegante, tenera, saggia. Ha l’aura di una vera lady — non solo sullo schermo, ma anche nella vita. Laureata alla Sorbona, educata in lingue e letteratura, è stata attrice per tutta la vita, lavorando in ruoli sempre raffinati, spesso nobildonne o figure materne dal cuore grande. Per il pubblico italiano è anche la nonna di Cary Grant in Un amore splendido. Nel 1967 è stata insignita del titolo di Commendatore dell’Impero Britannico per il suo contributo alle arti. E sì, era proprio quel tipo di donna che sembrava nata per indossare un cappello con disinvoltura. La sua vita ve l'ho raccontata nel mio articolo Professione caratterista qui.
Infine, c’è Leo G. Carroll, qui nel ruolo del reverendo deve celebrare il matrimonio. Inglese, elegante, con quella voce profonda da “gentiluomo di altri tempi”, è stato uno degli attori più amati da Alfred Hitchcock, che lo ha voluto in ben sei film — da Il sospetto a Intrigo internazionale. Al cinema e in tv ha sempre incarnato l’autorità con garbo: è stato medici, direttori, scienziati, diplomatici. In questo film, è il tocco finale perfetto: discreto, divertito, impeccabile.
Tre presenze che forse lo spettatore più giovane nota distrattamente… ma che sono l’anima segreta di molte scene indimenticabili.
Le riprese iniziano nell’estate del 1960 e durano poco più di tre mesi. A livello tecnico, il film rappresenta una piccola rivoluzione: bisogna far convivere due gemelle nello stesso fotogramma… ma ce n’è solo una. Il trucco? Due tecniche complementari. La prima è l’uso della controfigura: Susan Henning, bionda, snella, occhi azzurri, recita di spalle o di lato accanto a Hayley Mills. La seconda è lo split screen, in cui la cinepresa espone metà pellicola alla volta e ogni scena viene girata due volte, con Hayley che cambia costume, acconciatura, atteggiamento.
L’effetto finale è sorprendente, grazie anche all’eccellente lavoro del reparto effetti speciali guidato da Ub Iwerks – uno dei geni fondatori dell’animazione Disney – e Bob Broughton, esperto in trucchi ottici. Pare che Walt Disney in persona abbia chiesto che venissero reinseriti nel montaggio alcuni di questi “trick shots” inizialmente ridotti al minimo: gli piaceva stupire con la tecnologia.
Anche fuori campo non manca il divertimento. Durante le pause pranzo, Hayley e Susan – identiche in costume e parrucca – uscivano dagli Studios per andare a mangiare da Bob’s Big Boy, fingendosi vere gemelle. Nessuno se ne accorgeva. Almeno, non subito. Certo, a un occhio attento qualche differenza si notava: Susan aveva le gambe più lunghe, il collo più slanciato… e – dettaglio meno visibile ma piuttosto scomodo – un nasino grazioso e sottile. Talmente diverso da quello di Hayley che per tutta la durata delle riprese fu costretta a indossare una protesi in gomma, modellata per riprodurre fedelmente il profilo della sua collega. Provateci voi a mordere un hamburger respirando da una narice di plastica!
Non mancano, però, alcune scelte scenografiche oggi un po’ datate. La famosa passeggiata di Hayley e Maureen nel parco di Boston, ad esempio, è girata in studio, con uno sfondo proiettato e le attrici che camminano su un tapis roulant. Una soluzione molto in voga all’epoca, ma che oggi risulta visivamente straniante: sembra di assistere a una scena su una passerella mobile, più che a una passeggiata nel verde.


E poi c’è l’aneddoto da set che più di tutti racconta lo spirito del cast. Nella scena in cui Mitch scopre che l’ex moglie si trova in casa sua – proprio mentre sta parlando con Vicky e il reverendo – rimane così sbalordito da inciampare su una sedia e cadere malamente, incrinandosi due costole. Ma decide di non dire nulla per non bloccare le riprese. Si rialza, stringe i denti, e va avanti come se niente fosse.

Alcune foto scattate sul set

Non sono certo i costumi la prima cosa che viene in mente quando pensiamo a Il cowboy col velo da sposa, eppure — come spesso accade con i dettagli ben fatti — è proprio perché non ci si fa caso che funzionano così bene.
A firmarli è Bill Thomas, uno che con ago e filo ci sapeva fare. Classe 1921, compie il suo apprendistato negli anni Quaranta alla Metro Goldwyn Mayer, fianco a fianco con due leggende come Irene e Walter Plunkett (giusto per citare il costumista di Via col vento, tanto per capirci). 

Negli anni Cinquanta diventa capo costumista alla Universal e più tardi collaboratore fisso di casa Disney, dove lavorerà per due decenni. Se avete mai visto Babes in Toyland, Un maggiolino tutto matto o Bedknobs and Broomsticks, avete già incrociato il suo stile.
In Il cowboy col velo da sposa, la sua mano si sente eccome, anche se non grida mai per attirare l’attenzione. I costumi sono semplici, funzionali, coerenti con i personaggi: camicie scozzesi, gonne al ginocchio, vestitini da campo estivo e tailleur da signora perbene. Il suo lavoro è così discreto da passare quasi inosservato, ma è proprio questa la sua forza.
Insomma, niente abiti da Oscar (anche se Thomas ne ha collezionate di nomination, e pure una statuetta per Spartacus), ma un lavoro preciso, coerente, e perfettamente allineato al tono scanzonato e famigliare del film. E anche questo fa parte della magia.

Uno dei motivi per cui Il cowboy col velo da sposa riesce ancora oggi a regalarci quella sensazione di familiarità e calore è anche merito delle sue location. Sì, lo so, non è esattamente realistico pensare che una bambina californiana venga spedita in un campo estivo sulle montagne e si ritrovi la copia identica di se stessa, ma lasciamoci trasportare. In fondo, ci siamo sempre lasciati trasportare.
Le scene del campo estivo sono state girate tra i pini delle San Bernardino Mountains, nei pressi di Big Bear Lake, più precisamente a Bluff Lake Camp e Cedar Lake Camp. Luoghi veri, concreti, dove il silenzio del bosco incontra il rumore delle risate (e dei dispetti) delle ragazze di Camp Inch. I nomi sono cambiati negli anni — oggi questi spazi sono gestiti da organizzazioni diverse — ma lo spirito da avventura anni '60 resta tutto.

E poi, come dimenticare Pebble Beach, il campo da golf da sogno dove il papà delle gemelle si concede una partita. Non è solo una delle location più eleganti e iconiche della California, è anche il luogo del cameo segreto di papà John Mills, l’attore e padre di Hayley, che si fa dare una comparsata… per poter giocare gratis tutto il giorno. 

 

Le scene ambientate a Monterey, dove vive il personaggio di Brian Keith, sono state girate in parte in esterni veri, nella zona di Carmel e Pacific Grove, ma soprattutto sul set ricreato negli studi Disney, nello storico Golden Oak Ranch a Placerita Canyon. Ed è proprio lì che prende forma la casa perfetta: elegante, luminosa, con la scalinata scenografica e il soggiorno da rivista. Non esiste davvero, ovviamente — è un set costruito ad hoc — ma ha lasciato un’impressione tale nel pubblico che ancora oggi il dipartimento archivio Disney riceve richieste per avere la piantina di quella casa. Un sogno domestico, con vista mare e happy ending incorporato.


Con Il cowboy col velo da sposa prende il via uno dei sodalizi più fortunati nella storia della Disney: quello tra Walt Disney e i fratelli Sherman, Richard e Robert. 

È grazie a Annette Funicello — ex stellina del Mickey Mouse Club e volto amatissimo dal pubblico giovanile — che Walt si accorge di loro. Avevano scritto per lei Tall Paul, un brano che aveva fatto il botto tra i teenager americani. E a quel punto, Disney chiede: “Chi sono quei due che scrivono i pezzi per Annette? Voglio conoscerli.”
L’incontro avviene. E da lì parte tutto.
Per questo film i due fratelli scrivono tre canzoni: una lenta, una media, e una più vivace, con l’idea che possano rappresentare le diverse sfumature emotive della storia. Ed è proprio tra queste che nasce Let’s Get Together, pensata come se fossero le stesse gemelle a cantarla. Il brano è semplice, diretto, irresistibilmente contagioso. Lo interpreta Haley Mills, in doppia versione. Non ha una voce tecnica, ma ci mette tutta la sua personalità: il risultato è genuino, fresco, e perfettamente in linea con il tono del film.
Il successo è immediato. Let’s Get Together viene pubblicato come singolo, e diventa una hit da jukebox, amata da bambini e adolescenti. Non male per una “non cantante” come Haley!

Gli Sherman firmano anche una ballata romantica, For Now, For Always, pensata per raccontare il passato dei genitori delle gemelle. È una canzone dal sapore anni ’40, scritta proprio per sembrare l’inno d’amore di un’epoca lontana — quella in cui, idealmente, Maureen O’Hara e Brian Keith si erano conosciuti.
Il regista David Swift, ascoltandola per la prima volta, confessa di aver sentito brividi lungo la schiena. La emozione che cercava era tutta lì. Ed è così che la canzone trova casa in una delle scene più toccanti del film: quella in cui, nel (finto) parco di Boston, la madre racconta a una delle figlie — o meglio, alla gemella che si finge l’altra — come ha conosciuto il padre. Una scena che non ha bisogno di troppe parole: For Now, For Always le dice tutte, con malinconia e grazia.

 

La title track del film, The Parent Trap, è cantata da Annette Funicello e Tommy Sands. Entrambi erano già impegnati in quegli anni sul set di Babes in Toyland (1961), proprio nei Disney Studios, e quindi perfetti per registrare il brano velocemente e “in casa”.

Questa canzone accompagna l’inizio del film, con una sequenza animata realizzata in stop motion da Bill Justice e Xavier Atencio, due artisti di punta del reparto animazione Disney. Il tono è scanzonato, leggero e swingante, perfetto per introdurre il film con quel mix di modernità e spensieratezza che Walt cercava.

Dal punto di vista musicale, il pezzo si ispira allo stile easy listening dei primi anni ’60, con un ritmo che strizza l’occhio al jazz leggero e ai vocal group dell’epoca. Gli Sherman avevano inizialmente pensato di scrivere una canzone dal titolo “Parent Trap” solo perché Walt lo aveva chiesto espressamente, ma poi hanno trovato il modo di renderla efficace… anche se il titolo non era proprio “musicale” da cantare!

Eppure, il risultato funziona: “The Parent Trap” diventa una sigla orecchiabile e allegra, perfetta per introdurre subito lo spirito giocoso e un po’ irriverente del film.

Infine, una chicca per i più attenti: quando le ragazze camminano verso la capanna dell’isolamento, tutte le altre le seguono fischiettando la Colonel Bogey March, la stessa del film Il ponte sul fiume Kwai (1957), usata lì per accompagnare l’ingresso dei soldati nel campo di prigionia. Un riferimento sottilissimo, ma irresistibile per i cinefili.

La sera del 21 giugno 1961, l'elegante Capitol Theatre di New York apre le sue porte per la premiere de Il cowboy col velo da sposa. È un evento in grande stile, con Walt Disney che punta tutto su Hayley Mills e sulla magia del suo doppio ruolo. E il pubblico? Ricambia con entusiasmo. Il film si trasforma subito in un successo clamoroso, incassando oltre 25 milioni di dollari negli Stati Uniti e arrivando a sfiorare i 30 milioni in tutto il mondo. Una cifra che lo consacra tra i titoli di punta della stagione, dietro solo a giganti come West Side Story.
Anche la critica risponde positivamente. Lodi per la regia di David Swift, per i personaggi vivaci e – ovviamente – per la straordinaria performance sdoppiata di Hayley. Non mancano neppure i riconoscimenti ufficiali: arrivano due nomination agli Oscar, per il miglior montaggio e il miglior sonoro, e il film si aggiudica anche un Eddie Award da parte dell’American Cinema Editors per il lavoro di montaggio.
Ma, come spesso accade, non tutto è oro. Hayley Mills racconta nella sua autobiografia che, per lei, quel trionfo fu anche un piccolo disastro economico. Dopo aver pagato le tasse negli Stati Uniti, il padre trasferisce il resto dei guadagni in Inghilterra, dove subiscono una tassazione del 91%. Una volta sottratte le commissioni, resta ben poco. E a peggiorare il tutto, nessun diritto residuale: nonostante le continue repliche e il successo nel tempo, Hayley non ha mai ricevuto alcun compenso extra.
Il cowboy col velo da sposa non è solo una commedia per famiglie perfettamente confezionata. È uno di quei film che, anche a distanza di decenni, riesce ancora a far sorridere, commuovere e – perché no – far venire un piccolo nodo alla gola. Un racconto leggero solo in apparenza, che parla di separazioni e riconciliazioni, di genitori imperfetti ma sinceri, e soprattutto di bambini capaci di sognare una famiglia, anche quando sembra ormai impossibile.
Forse è anche per questo che, nel 1998, la Disney ha deciso di riproporlo con un nuovo cast e una nuova estetica. Il remake con Lindsay Lohan (al suo debutto), Dennis Quaid e Natasha Richardson ha fatto centro, portando la storia a una nuova generazione, con tutto l’incanto degli anni Novanta e una colonna sonora da far ballare anche i più nostalgici. 


Eppure, chi è cresciuta con Hayley Mills che si specchia nel lago, con quella casa che sembra uscita da una rivista di sogni, con il vestito tagliato e l’aria furbetta delle gemelle... sa bene che il primo amore cinematografico non si scorda mai.
Questo film è, per molte di noi, un rifugio dell’anima. Un luogo sicuro dove tornare, anche solo per il tempo di una canzone. E chissà, magari anche voi – mentre rivedrete Il cowboy col velo da sposa – sentirete quella piccola scintilla. Quella che accende i ricordi e li trasforma in qualcosa di ancora più prezioso. 

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