I profumi preferiti dalle Star pt. 4

lunedì, giugno 23, 2025

Ci sono profumi che non si dimenticano, nemmeno quando non li si è mai indossati. Bastano poche gocce nell’aria — o il ricordo di un flacone intravisto su una mensola del bagno, tra i gesti quotidiani di una madre, o sul tavolino di un camerino — per far riaffiorare tutto: atmosfere, dettagli, un certo modo di essere e di stare al mondo.
In questo quarto articolo (qui trovate il primo, qui il secondo e qui il terzo) torno a raccontarvi alcune fragranze legate a volti che ci sono rimasti nel cuore. Donne che hanno scelto un profumo come si sceglie un segno distintivo: una dichiarazione, una protezione, un piccolo gesto ostinato che ripetevano ogni giorno. Alcuni profumi erano floreali fino all’eccesso, altri audaci e provocanti, altri ancora così unici da essere riconoscibili a occhi chiusi.  
E le storie dietro la nascita di queste fragranze non sono da meno. In certi casi, sembrano la trama di un film: tra finte nobildonne francesi usate come abili strategie di marketing, contese legali, concorsi a premi e colpi di scena che ancora oggi fanno sorridere.
Spero che vi faccia piacere continuare questo viaggio con me, tra storie vere, dettagli dimenticati e quella scia leggera che, ancora oggi, sa far voltare la testa.

1) Jungle Gardenia (1932)
di Tuvaché

LA STORIA:  

A dispetto del nome sofisticato che evoca un’eleganza d’oltralpe, Tuvaché non è affatto una maison francese. È nato a New York nei primi anni ’30, in un’epoca in cui il profumo “serio” ha quasi sempre un’etichetta parigina. Per distinguersi sul mercato — o forse per confondere elegantemente le acque — Bernadine Angus, fondatrice del marchio, si è inventata una fantomatica Madame Tuvaché, mai esistita.
Il nome stesso, con il suo accento francese immaginario, si ispira a un personaggio insospettabile: Monsieur Tuvaché, il sindaco del villaggio nel romanzo Madame Bovary di Flaubert. Un riferimento colto e ironico per un marchio che, pur ispirandosi a Parigi, è sempre rimasto saldamente radicato nella Fifth Avenue di Manhattan.
Nel 1932 è arrivata la fragranza che ha dato fama e fortuna alla casa: Jungle Gardenia. Non è solo un profumo, è un manifesto. Una gardenia tropicale, cremosa, languida, l’opposto dei bouquet vaporosi e cipriati dell’epoca. Il nome promette umidità, vegetazione fitta, sensualità appena velata — e mantiene. Fin da subito ha conquistato una nicchia di donne sofisticate e sicure di sé, che non volevano profumare di saponetta, ma di carne e fiori esotici.
Per anni è rimasto un segreto custodito nelle boutique d’élite. Poi, tra gli anni ’50 e ’60, una diva tra le più fotografate di Hollywood ha dichiarato di amarlo e di portarlo sempre con sé. Da quel momento Jungle Gardenia ha iniziato a farsi strada anche nei grandi magazzini.

A rilanciarlo su scala più ampia è stata Germaine Monteil, che ha acquisito Tuvaché dopo la morte dei coniugi Angus. Monteil, abituata a investire nella pubblicità su riviste di prestigio come Vogue, Harper’s Bazaar e Glamour, ha proposto un piano ambizioso.
Rolf Warner, direttore generale di Tuvaché, ha colto il suggerimento e ha acquistato spazi pubblicitari su quelle testate per diversi anni. Ma ha voluto osare di più. Sfruttando premi al pubblico nei programmi TV, ha fatto regalare Jungle Gardenia ai partecipanti, ottenendo preziose citazioni a basso costo. “È sorprendente la quantità di lettere che ricevevamo dalla TV,” ha ricordato. “I conduttori creavano un legame fortissimo con il pubblico. Ci scrivevano per fare ogni tipo di domanda sul profumo…”
Quel rispetto per la fedeltà degli ascoltatori ha ispirato Warner a testare anche la radio, puntando su voci autorevoli. Nel 1962 è partita così la prima campagna radiofonica di Tuvaché a New York, affidata a Jack Sterling (WCBS) e Pegeen Fitzgerald (WOR).
L’obiettivo era semplice: espandere la distribuzione. Il profumo era già presente nelle boutique d’élite, ma ora servivano volumi di vendita nei grandi magazzini e nelle farmacie. La strategia? Spingere i clienti a entrare nei negozi e chiedere Jungle Gardenia per nome.
In sei settimane i punti vendita sono aumentati del 50%. Il resto è storia di acquisizioni e riformulazioni: il marchio è passato di mano in mano — Yardley, Jovan, Coty — e ha subito modifiche che ne hanno snaturato l’essenza. Ma il nome è rimasto scolpito nella memoria. Oggi, tra chi colleziona i flaconi originali e chi ricorda quella scia inconfondibile, Jungle Gardenia rappresenta ancora la quintessenza della gardenia.
È la fragranza che non ha mai chiesto di essere capita da tutti. Solo da chi sa riconoscere la bellezza feroce e vellutata di un fiore nel suo pieno splendore.

LE NOTE:  

La protagonista indiscussa è la gardenia, interpretata nella sua forma più opulenta e avvolgente: corposa, vellutata, calda. L’apertura è un soffio leggermente amaro e verde, con arancia, salvia, elicriso e ciclamino, che preparano il terreno senza appesantire.
Il cuore è un’esplosione fiorita: tuberosa, ylang-ylang, gelsomino, foglie di violetta, mughetto, con un accento verde e speziato di dragoncello, che amplifica la gardenia rendendola quasi narcotica.
Il fondo si adagia su un letto caldo e morbido di muschio, sandalo, benzoino e muschio di quercia, donando profondità e un’eco vellutata alla scia. 

IL FLACONE:

  

Nel corso degli anni, Jungle Gardenia ha conosciuto diverse versioni del suo flacone, specchio delle epoche che ha attraversato.
 Le prime edizioni, vicine al lancio degli anni Trenta, si presentavano in boccette basse e squadrate, con un’etichetta semplice su fondo dorato e una gardenia bianca disegnata al centro. Il tappo in vetro trasparente, a taglio netto, era legato al collo con un filo scuro: uno stile quasi farmaceutico, ma con un tocco di grazia artigianale.
Negli anni Sessanta e Settanta, il profumo è stato riproposto in una forma più moderna: una bottiglia affusolata, slanciata, con tappo cilindrico argentato e un’etichetta verde, dove campeggiano in caratteri rotondi bianchi le parole jungle gardenia bath perfume. È questo il packaging che molti ricordano: sobrio e funzionale, ma con una presenza scenica marcata, complice anche il colore ambrato scurissimo del liquido al suo interno.

CHI LO HA AMATO:

Per Natalie Wood, Jungle Gardenia non è stato solo un profumo, ma un gesto identitario, un piccolo rituale quotidiano. La sua prima boccetta arriva prestissimo: ha appena otto anni quando Barbara Stanwyck gliela regala durante le riprese di Non c’è due senza tre (1946), dove interpretano madre e figlia. Un dono inaspettato che Natalie conserverà con cura e che, crescendo, tornerà a scegliere consapevolmente.


Negli anni della giovinezza, Jungle Gardenia diventa la sua firma olfattiva. Come racconta la sorella Lana Wood, Natalie usciva sempre curata nei minimi dettagli: truccata, pettinata, avvolta da pellicce — spesso prese in prestito — e profumata della sua gardenia. Portava un bracciale per coprire un polso che la faceva sentire insicura, fumava sigarette Kool con filtro Dunhill, guidava la sua decappottabile T-Bird. Ogni elemento contribuiva a costruire quell’immagine di diva che aveva imparato fin da piccola ad abitare.
Il profumo non era un dettaglio: faceva parte della trasformazione quotidiana. “Se c’era anche solo una minima possibilità che qualcuno la vedesse, doveva presentarsi in un certo modo,” ricorda Lana. E quella gardenia intensa e persistente era il modo in cui Natalie entrava nella stanza prima ancora di apparire. La figlia di Natalie ha raccontato di come le basti sentire il profumo di gardenia per ricordare sua madre.


Anche Elizabeth Taylor ha più volte dichiarato di avere un debole per Jungle Gardenia. A differenza di Natalie, non lo tiene per sé: ne parla apertamente, e la stampa ne scrive con entusiasmo. Si racconta che ne facesse scorte generose e che amasse in particolare la forza della sua scia. Quando una diva come Liz Taylor lo cita tra i suoi profumi del cuore, l’effetto è immediato: la fragranza torna sotto i riflettori, e la domanda cresce. 


2) Le De (1957)
di Givenchy


LA STORIA: 


Nel 1957, a cinque anni dalla nascita della maison, Hubert de Givenchy decide di affiancare alla sua moda anche un’identità olfattiva. Lo fa con la consueta eleganza e discrezione che lo contraddistinguono. A guidare il progetto è il fratello Jean-Claude, che avvia la divisione profumi in un piccolo laboratorio a Ivry-sur-Seine. Il capitale iniziale è modesto, il team ristretto, ma l’ambizione è chiara: creare fragranze in perfetta sintonia con lo stile raffinato e composto della casa di moda.


Ed è così che vengono lanciati i primi due profumi firmati Givenchy. Il primo è L’Interdit, di cui vi ho già raccontato nel primo articolo sui profumi: una fragranza “proibita”, pensata inizialmente come creazione esclusiva per Audrey Hepburn, sua musa e amica. L’altro è Le De, più appartato e austero. Due visioni complementari dello stesso ideale di eleganza: L’Interdit per la donna luminosa e spontanea, Le De per chi preferisce il garbo e la misura, per chi sceglie di farsi notare senza alzare la voce.
Il nome, all’apparenza misterioso, è un sottile gioco sull’origine nobiliare del cognome de Givenchy: una firma discreta, destinata a una donna altrettanto discreta. Le De nasce come fragranza intimista, limpida, pensata per chi ama la sobrietà senza rinunciare al fascino.
Nel panorama olfattivo degli anni ’50 — dominato da note dense, cipriate, opulente — Le De si distingue per la sua struttura composta e riservata. È un profumo che non invade, ma accompagna. Non parla a tutti: si rivolge a chi sa riconoscere una certa idea di grazia.
Anche nella sua riformulazione del 2007, Le De ha conservato questa natura discreta e quasi eterea. Una fragranza che sembra arrivare da un altro tempo, fatta per chi ama il sottovoce e lascia parlare la postura, il dettaglio, il silenzio.

LE NOTE: 

Le De appartiene alla famiglia floreale verde e si apre con un’espressione limpida, quasi cristallina. Le note di testa combinano la freschezza luminosa del galbano con la purezza dell’aldeide, regalando una sensazione verde e pulita, come lino appena stirato. Un soffio gentile di gardenia e neroli addolcisce i contorni, preparando il terreno alla delicatezza del cuore.
Nel cuore della composizione sboccia un bouquet di fiori bianchi: tuberosa, ylang ylang, iris e gelsomino. Ma a differenza delle fragranze opulente dell’epoca, qui tutto è trattenuto, misurato, come filtrato attraverso un velo di garza sottile. La sensualità è presente, ma si muove con grazia, senza mai imporsi.
Le note di fondo sono asciutte e morbide. Sandalo, muschio e vetiver sostengono la struttura con un’eleganza pacata. Non c’è dolcezza opulenta né fondo talcato: Le De rimane coerente nella sua compostezza fino all’ultimo respiro.

IL FLACONE: 

 

Fin dal suo esordio nel 1957, Le De si presenta in un flacone raffinato e minimale, con linee pulite e spalle leggermente arrotondate — un’estetica che richiama quella di L’Interdit, con cui condivide lo spirito della maison. Il vetro è spesso e trasparente, la silhouette affusolata e quasi scultorea: un oggetto discreto e prezioso, perfettamente in sintonia con la fragranza che custodisce.
Il tappo in vetro, ampio e dalle curve morbide, aggiunge un tocco di delicatezza e armonia. Spesso è fissato al collo della bottiglia da un sottile filo nero, un dettaglio artigianale che crea un raffinato contrasto con la limpidezza del vetro. Sul corpo del flacone, l’etichetta dorata riporta con sobrietà e precisione la scritta “LE DE GIVENCHY”, in caratteri essenziali ed eleganti.
Nel 2007, la riedizione proposta all’interno della linea Les Mythiques ha mantenuto la forma classica del flacone, alleggerita da un vetro satinato e completata da un tappo più lineare. Un aggiornamento che ha saputo restare fedele all’idea originaria: un profumo che non si annuncia, ma accompagna.

CHI LO HA AMATO: 

Quando Le De arriva sul mercato Bette Davis ha da poco compiuto cinquant’anni. È ormai una diva consacrata, due volte premio Oscar, con alle spalle una carriera che ha sfidato i cliché di Hollywood a ogni passo. Niente a che vedere con l’immagine eterea e beneducata di Audrey Hepburn, per cui il profumo era stato inizialmente pensato — proprio come L’Interdit. Entrambe le fragranze erano nate come omaggi privati del couturier francese alla sua musa: due composizioni parallele, diverse, come due sfumature dello stesso ideale di femminilità. Eppure, proprio questa distanza rende l’amore di Bette Davis per Le De ancora più affascinante. 

Non si tratta di un’adesione scontata: Davis sceglie Le De come suo profumo del cuore in un momento della vita in cui non ha più nulla da dimostrare. Forse è proprio la riservatezza della fragranza, la sua eleganza sussurrata, a offrirle una sorta di equilibrio. Un modo per conciliare la sua anima forte e anticonformista con una femminilità più intima, meno esposta.
Chi l’ha conosciuta racconta che Bette amava i profumi non troppo invadenti, ma inconfondibili. E Le De, con la sua firma floreale-verde e il suo portamento composto, diventa quasi una dichiarazione personale. Come se avesse trovato in quella composizione una compagna silenziosa: un profumo che non rubava la scena, ma la teneva con la stessa intensità con cui lei sapeva tenere lo sguardo in camera.

3) Narcisse Noir (1911)
di Caron

LA STORIA: 

Nel giugno del 1911, in un laboratorio appartato ad Asnières, Ernest Daltroff mette a punto una fragranza destinata a cambiare per sempre la storia della profumeria. L’ha immaginata audace, disturbante, anticonvenzionale. Un profumo nato non per sedurre nel senso più prevedibile del termine, ma per colpire, quasi stordire. E a ben vedere, non poteva che chiamarsi così: Narcisse Noir.
Caron era stata fondata qualche anno prima, nel 1904, dallo stesso Daltroff, profumiere autodidatta e visionario, e dalla sua musa e socia Félicie Wanpouille, un’ex modista dal gusto infallibile. Il sodalizio tra i due — lui creatore silenzioso, lei occhio e voce pubblica della maison — dà vita a una profumeria dall’identità precisa e inconfondibile. I profumi Caron non assecondano le mode: le sfidano.


Con Narcisse Noir, Daltroff osa ciò che all’epoca suonava quasi scandaloso. Prende la fierezza arcigna del narciso, già carico di riferimenti mitologici, e lo spinge verso una dimensione oscura, sensuale, quasi notturna. Un vero narciso nero non esiste, ma il nome evoca qualcosa di misterioso e proibito. Il jus — costruito su un fiore d’arancio alterato e quasi animale, unito a gelsomino, rosa, muschio, sandalo, vetiver e civetta — restituisce una sensualità densa, opulenta, senza compromessi.
Fin da subito, conquista una clientela raffinata. Ma è negli anni ’20 che Narcisse Noir inizia a esercitare la sua influenza culturale: entra nei salotti della Parigi bohémien, nei drammi teatrali di Noël Coward, nei racconti delle riviste di costume. È il profumo di un’élite cosmopolita, fatta di donne emancipate e uomini dalle cravatte di seta, di boudoir, velluti e giochi proibiti.
Il successo, come spesso accade, attira le imitazioni. Nel 1924, Narcisse Noir si trova al centro di due cause legali intentate da Caron negli Stati Uniti. Due aziende americane — Vivaudou Inc. e la Compagnie Vendôme — mettono in commercio profumi dai nomi evocativi (Narcisse de Chine, Narcisse de Vendôme), confezionati in flaconi scuri con etichette dorate. Il giudice respinge ogni attenuante: definisce le somiglianze “flagrantemente ingannevoli” e ordina modifiche radicali a packaging, flaconi e pubblicità.
Oggi, Narcisse Noir è considerato il profumo simbolo di Caron: ciò che N°5 è per Chanel o Shalimar per Guerlain. Ma, a differenza di quei titani, ha scelto di restare nell’ombra: un segreto sussurrato tra intenditori, un’eredità olfattiva rimasta fedele a sé stessa. Ed è proprio questo il suo fascino.

LE NOTE: 

Nulla in Narcisse Noir è pensato per piacere a tutti. È un profumo che osa sin dall’attacco: un’apertura amara e brillante, dove il fiore d’arancio — anziché mostrarsi tenero e solare — appare quasi “sporcato”, alterato, come se una mano esperta avesse voluto svelarne il lato più sensuale e notturno. Un inizio che non accoglie: scuote.
Poi, lentamente, affiora il cuore. Un cuore costruito come un bouquet d’ombre, dove la dolcezza del gelsomino si carica di una profondità inattesa, quasi inquietante. C’è la rosa, sì, ma non una rosa romantica: è opulenta, pesante, avvolta in pieghe di muschio e velluto. Ogni fiore in Narcisse Noir sembra indossare un trucco teatrale: marcato, audace, provocatorio.
E infine il fondo, che non consola ma ipnotizza. Il sandalo e il vetiver avvolgono la pelle in una morbidezza densa, che però non rassicura mai del tutto: rimane in agguato qualcosa di torbido, un’eco animale data dallo zibetto, che rende questa fragranza più simile a una presenza che a un oggetto.

IL FLACONE: 

 

Come la fragranza, anche il flacone di Narcisse Noir ha voluto lasciare un segno nella storia della profumeria. Sin dal debutto nel 1911, Ernest Daltroff e Félicie Wanpouille si sono affidati al savoir-faire dei maestri vetrai, tra cui la celebre manifattura Baccarat.
Il design originale si è ispirato a un calamaio antico: basso, largo, con un aspetto solido e al tempo stesso raffinato. A renderlo inconfondibile è stato soprattutto il tappo nero, scolpito a richiamare un anemone o un fiore stilizzato. Il nero del tappo e dei dettagli, così come del vetro in alcune versioni, ha evocato fin da subito quel noir che dà nome e carattere alla fragranza.
Le confezioni sono state proposte in scatole nere ornate d’oro, con etichette essenziali che riportano in rilievo “Le Narcisse Noir Caron”. Con il passare dei decenni, il flacone ha conosciuto diverse reinterpretazioni, ma le versioni d’epoca — quelle in vetro Baccarat — restano le più amate e ricercate dai collezionisti di tutto il mondo.

CHI LO HA AMATO: 

Gloria Swanson amava i profumi quanto amava i gioielli — e forse anche di più. Spendeva cifre astronomiche per le sue fragranze. Perciò non stupisce che il suo nome sia legato a doppio filo a una fragranza specifica: si tratta proprio di Narcisse Noir di Caron.

Nel 1927 la rivista Photoplay racconta un fenomeno curioso: l’uscita del film muto Beyond the Rocks (1922) avrebbe scatenato una piccola mania tra le spettatrici. Si cita una scena in cui Theodora si sta truccando davanti alla toeletta e accanto a lei compare un flacone inconfondibile. La descrizione coincide con quella del Narcisse Noir originale, ma la scena, nelle copie sopravvissute del film, non si trova più.
Passano gli anni, il mito di Gloria sembra tramontare, fino al suo trionfale ritorno nel 1950 con il film Viale del tramonto (i retroscena ve li ho raccontati qui). Per calarsi nei panni della tragica Norma Desmond, l’attrice chiede che la casa di scena sia intrisa del suo profumo preferito: Narcisse Noir. Sulla pelle di Gloria — e nell’aria carica di ricordi della villa hollywoodiana — sembrava nata per quel ruolo: decadente, profonda, irresistibilmente fuori dal tempo.

4) Shocking (1937)
di Schiaparelli

 LA STORIA: 

Nel mondo della moda, Elsa Schiaparelli non ha mai cercato la misura: ha cercato lo stupore. Nata a Roma, cresciuta tra biblioteche aristocratiche e suggestioni orientali, approda a Parigi negli anni Venti e vi costruisce un’estetica personale fatta di ironia, surrealismo e provocazione. La moda, per lei, è un gesto artistico — e spesso teatrale.
Nel 1936 un’intuizione cromatica le cambia la carriera: inventa un colore. Un rosa acceso, violento, quasi elettrico. Lo battezza shocking e lo descrive come “brillante, impossibile, sfrontato... pieno di vita, come tutti gli uccelli e i pesci del mondo messi insieme”. Non è solo una sfumatura: è una dichiarazione d’intenti.
Un anno dopo, quel nome diventa profumo. Shocking de Schiaparelli nasce nel 1937, firmato dal grande Jean Carles. Con Shocking, Carles porta quello stesso spirito in una direzione nuova: più sofisticata, ma altrettanto audace.
La campagna pubblicitaria viene affidata a Marcel Vertès, illustratore ungherese noto per la sua eleganza ironica. Le immagini sono leggere e maliziose, piene di piccoli ammiccamenti e raffinate provocazioni, proprio come il profumo. Tutto, in Shocking, gioca su un doppio registro: frivolezza e audacia, vezzo e sovversione.

Fin dalla sua uscita, Shocking si impone come qualcosa di più di un semplice profumo. È una dichiarazione, un gioco, una rottura con le convenzioni. L’ennesimo colpo di teatro di una donna che ha fatto della meraviglia il suo tratto distintivo. 

LE NOTE: 

Le prime sensazioni di Shocking sono come un lampo: bergamotto, aldeidi e un tocco aromatico lanciano un avvio brillante e leggermente pungente, che scuote e risveglia i sensi senza chiedere permesso.
Poi arriva il cuore, fiorito e morbido ma mai scontato. Il miele bianco si fonde con lo ylang-ylang, il narciso, il gelsomino e la rosa, creando un insieme caldo, mieloso, quasi “tattile”, sospeso tra innocenza e una sensualità sottesa.
Il vero colpo di scena si svela nel fondo: lo zibetto, in dosi generose, regala quella sensualità torbida e un po’ proibita tipica dei grandi profumi degli anni ’30, mentre muschio, legno di sandalo e ambra avvolgono la pelle con una profondità calda e quasi ipnotica.

IL FLACONE: 

Come ogni creazione di Elsa Schiaparelli, anche Shocking non si limita a profumare: vuole stupire. E lo fa già dal contenitore, diventato uno degli oggetti più iconici della storia della profumeria.
La bottiglia, disegnata nel 1937 dall’artista surrealista Leonor Fini, prende forma da un’idea geniale e provocatoria: un busto femminile da sartoria, dalle curve esagerate e sensuali, fasciato da un metro da sarta, sormontato da un fiore e sigillato da un monogramma “S”.
Quel busto, modellato sulle forme dell’attrice Mae West, divenne subito un’icona: una provocazione contenuta in vetro. La boccetta venne spesso esposta sotto una campana di vetro, richiamo ironico alle teche vittoriane. Ma in questo caso custodiva qualcosa di ben diverso: un profumo che dichiarava guerra al perbenismo.
L’insieme — busto, vetro, metro da sarta, monogramma “S” e il celebre rosa shocking — era un’esplosione di femminilità sfacciata e ironica. Tanto iconico che, decenni dopo, ispirerà Jean Paul Gaultier per il suo Classique.

CHI LO HA AMATO: 

O meglio: chi lo ha ispirato. Perché se c’è una donna che non solo ha indossato Shocking, ma lo ha in qualche modo generato, quella è Mae West.

La collaborazione tra la diva e Elsa Schiaparelli prende forma nel 1937, sul set del film Every Day’s a Holiday. Un calco in gesso, modellato sulle celebri curve di Mae, viene spedito in Francia. All’arrivo di quel busto formoso, le sarte parigine esclamano un fragoroso “Oo-la-la!”, convinte che si tratti di un’esagerazione caricaturale. Solo dopo aver preso le misure si rendono conto che quelle proporzioni sono autentiche.
Si racconta che sia proprio osservando quel calco dalle forme esuberanti che Elsa esclami: “Shocking!” — e trovi così il nome perfetto per la fragranza audace che ha in mente.
Con Shocking, Schiaparelli trasforma in fragranza tutto ciò che Mae West rappresenta: una femminilità spavalda, ironica, pronta a scandalizzare i benpensanti, proprio come nelle battute celebri della diva — su tutte: «Quando sono brava sono molto brava. Ma quando sono cattiva sono anche meglio».

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