Il Bullock’s Wilshire: l’iconico emporio in cui ha lavorato Angela Lansbury
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Un po' di tempo fa stavo leggendo una biografia di Angela Lansbury, quando ad un certo punto un dettaglio cattura la mia attenzione: nel 1942, a sedici anni, aveva lavorato come commessa al grande magazzino Bullock’s Wilshire.
Non avevo mai sentito questo nome prima, ma il mio istinto mi dice che valga la pena approfondire.
Decido di cercare qualche immagine e bam! Rimango folgorata da questa sorta di cattedrale Art Decò, color terracotta con dettagli turchesi.
Inizio a scavare per capirne di più e mi rendo ben presto conto che dietro quelle vetrine si nasconde una delle storie più affascinanti della Los Angeles del Novecento. Una storia fatta di visione imprenditoriale, audacia architettonica e attenzione maniacale al servizio.
C’è dentro tutto: la nascita di una nuova idea di città, l’ascesa di Hollywood, la capacità di affrontare le crisi senza rinunciare all’identità. E c’è anche la bellezza, quella costruita con metodo, ambizione e intelligenza.
Perciò mettetevi comodi perchè vi porterò in un viaggio dove ricostruiremo non solo la storia della sua realizzazione, ma anche le vite e gli aneddoti delle star che lo hanno frequentato, che hanno lavorato tra i suoi reparti o lo hanno scelto come rifugio. Perché anche un grande magazzino può raccontare la storia di un’epoca — se si ha voglia di ascoltarla.
E volete sapere qual è la ciliegina sulla torta? Che Angela Lansbury ha voluto rendere tributo al posto in cui aveva lavorato da ragazza. Come? Girando al suo interno un episodio della serie La signora in giallo.
Tre uomini che hanno saputo vedere oltre
Prima del Bullock’s Wilshire, c’era il sogno. Un’idea coltivata da uomini che avevano iniziato a lavorare da ragazzini, vendendo stoffe e dolciumi in negozi di provincia, e che avrebbero finito per trasformare l’atto stesso dello shopping in un rito quasi cerimoniale.
Il primo di cui voglio parlarvi è John G. Bullock, nato nel 1871 a Paris, una piccola cittadina dell’Ontario. Suo padre lavora per le ferrovie canadesi, e la famiglia si mantiene con poco. Bullock non ha il tempo di studiare a lungo: a undici anni comincia a lavorare come commesso, prima in un piccolo negozio chiamato Munn & Co., poi da Rheders, il più grande rivenditore di tessuti della zona.
Qui gli viene assegnato un carro a cavalli per le consegne. Passa giornate intere tra i quartieri vicini, portando rotoli di stoffa da una parte all’altra. Proprio in quelle ore, mentre percorre sempre le stesse strade, comincia a immaginare qualcosa di diverso. Un giorno, racconta, vorrebbe avere un negozio grande quanto Rheders. Non sa ancora come, ma ci crede abbastanza da non lasciar cadere l’idea.
Sua madre se ne accorge. Intuisce che quella determinazione non è passeggera. Decide di affidargli tutti i risparmi che ha messo da parte: 150 dollari. Non bastano a garantirgli un futuro, ma sono sufficienti per partire. E Bullock parte.
Nel febbraio del 1896, arriva a Los Angeles, una città in piena trasformazione, ma ancora lontana dalla metropoli che diventerà. Sfogliando il giornale, legge di una svendita straordinaria in un negozio all’angolo tra la Quarta Strada e Broadway. Si tratta del Broadway Department Store, appena fondato da un certo Arthur Letts, inglese, imprenditore, e grande osservatore della psicologia dei consumatori.
Bullock si presenta di buon’ora per offrire la sua disponibilità, ma gli dicono che il personale è al completo. Non si arrende. Resta nei paraggi. Quando il negozio apre, riesce a entrare da una porta laterale e si ritrova proprio davanti a Letts, impegnato sul pavimento con altri dipendenti a preparare la merce. Letts lo guarda e lo riconosce come quel ragazzo insistente di poco prima. «Vuoi cominciare subito?», gli chiede. Bullock accetta. Viene assunto come commesso a 2 dollari al giorno.
Il lavoro comincia al reparto abbigliamento maschile, ma Bullock non si limita a vendere. Dopo l’orario, resta per sistemare la merce, aggiornare gli scaffali, osservare gli altri reparti, capire come funziona ogni dettaglio. Non ha studi formali, ma capisce presto ciò che conta davvero nel commercio: l’ambiente, la relazione con i clienti, la cura nella presentazione. Letts se ne accorge. In breve tempo, Bullock diventa uno dei dipendenti più stimati del negozio, con ruoli sempre più ampi.
Prima di diventare uno degli uomini più influenti del retail californiano, Arthur Letts ha conosciuto la perdita. Alla fine dell’Ottocento vive a Seattle, dove lavora per una ditta specializzata in tappeti e tessuti: la Taklos Singerman Company. È giovane, ambizioso, e ha ottenuto la responsabilità di un intero reparto. Ma il 6 giugno del 1889, un devastante incendio riduce in cenere il cuore commerciale della città. Il fuoco avanza inarrestabile e in poche ore cancella ogni attività. Il direttore della ditta, senza girarci intorno, gli dice che nel giro di un’ora non ci sarà più nulla e che può andare a casa. Letts si ritrova senza impiego, senza capitale, senza un piano B.
È allora che decide di scommettere tutto su Los Angeles. Ha trent’anni, una moglie e pochissime risorse. Ma ha un’idea. Appena arrivato, passeggiando per le vie del centro, nota un negozio chiuso all’incrocio tra la Quarta Strada e Broadway. A quei tempi quella zona è considerata fuori mano, “campagna” per gli standard cittadini. Ma Letts riesce a vedere oltre: quel punto, secondo lui, diventerà il futuro nodo nevralgico del commercio cittadino.
Il 24 febbraio 1896, apre il Broadway Department Store: un'unica grande stanza, con una manciata di scaffali, qualche tessuto, pochi giocattoli, pentole, caramelle. Nessuna pretesa estetica, ma un’idea di fondo chiarissima: portare ordine, equità e innovazione in un settore ancora caotico e iniquo. Letts non vuole solo vendere — vuole educare.
Nel suo negozio, introduce una rivoluzione invisibile ma potentissima: il prezzo fisso. Non si contratta. Il prezzo è uguale per tutti, sempre. Anche un bambino può comprare da solo, senza bisogno dell’aiuto dell’adulto più esperto o del membro più furbo della famiglia. Il commercio non è più una sfida, ma un accordo chiaro, dignitoso.
E poi c’è l’ossessione per la correttezza, che prende forma in un gesto semplicissimo: dare il resto in penny. A Los Angeles, nessuno usa la moneta da un centesimo: è considerata superflua, troppo piccola per contare. Letts, invece, ne fa un simbolo. Introduce prezzi che richiedono il penny e restituisce il resto fino all’ultimo centesimo. Il suo è un messaggio chiaro: ogni cliente merita rispetto, anche nei dettagli più piccoli.
Questa scelta si trasforma presto in un gesto affettivo: ogni anno, all’anniversario del negozio, barili di penny nuovi vengono spediti direttamente dalla zecca federale e distribuiti gratuitamente, uno per ciascun cliente. Non importa quanto si è speso: il penny è un ricordo, un pegno di fiducia reciproca.
Ma Letts non si limita a rivoluzionare la cassa. Capisce prima di chiunque altro il potere della pubblicità audace, diretta, quotidiana. Firma personalmente gli annunci, lancia offerte che destabilizzano la concorrenza, scommette su investimenti comunicativi spiazzanti: nel primo mese spende un terzo dell’intero budget annuale.
In pochi anni, da quindici dipendenti iniziali, si passa a oltre cento. Letts si occupa di tutto: selezione della merce, pubblicità, formazione, esposizione delle vetrine, allestimenti interni. È instancabile. Ma anche attento a riconoscere il talento. Tra i tanti volti che si muovono tra le corsie del negozio, ne nota due in particolare: un giovane canadese infaticabile, John G. Bullock, e un ragazzo timido ma preciso, Percy Glen Winnett. Saranno loro, con lui, a gettare le fondamenta di un nuovo modo di fare commercio.
Se Bullock è l’anima visionaria e Letts il pioniere, Percy Glen Winnett è l’ingranaggio che tiene tutto insieme. È il più giovane dei tre, e anche il più silenzioso. Ma non per questo meno determinante. Entra nel Broadway Department Store a quindici anni, come semplice cassiere, e nel giro di pochi mesi si fa notare per la rapidità, la precisione, l’iniziativa. Corre per il negozio a svolgere commissioni, infila i bottoni delle scarpe, organizza le casse. Letts si accorge subito che quel ragazzo fa molto più del dovuto, e quando Bullock viene promosso, affida a Winnett il ruolo di responsabile acquisti per l’abbigliamento maschile. È l’inizio di un sodalizio che durerà una vita.
Nel 1907, Letts ha già consolidato il successo del Broadway, ma ha in mente un progetto diverso: un secondo negozio, che operi in modo indipendente, con una propria identità e un’immagine più sofisticata. E per realizzarlo, ha già scelto i suoi uomini: Bullock come presidente, Winnett come vicepresidente e direttore generale.
L'importanza di chiamarsi...
La questione del nome è cruciale. Inizialmente si pensa a Bullock’s Department Store, ma Winnett suggerisce qualcosa di più snello e diretto: Bullock’s, semplice, autorevole, in linea con il modello Macy’s. Evoca stabilità e personalità, e lascia intuire la nascita di una nuova istituzione commerciale.
La sede è in pieno centro, al 639–657 South Broadway. L’edificio, firmato dagli architetti John e Donald Parkinson, è elegante, imponente, con vetrine angolari, colonne monumentali e spazi aperti. Ma a fare la differenza è l’approccio.
Qui ogni dettaglio è studiato: la merce è selezionata con cura, i fornitori sono scelti per qualità e originalità, il servizio è calibrato sulle esigenze di una clientela più esigente. Bullock disegna persino uno stemma con il motto “Suprema regnat qualitas” — la qualità regna sovrana.
Letts e Bullock si rendono conto presto che gli articoli di fascia alta si vendono meglio di quelli economici. Così decidono di eliminare gradualmente la merce a basso costo, svuotando i magazzini attraverso saldi strategici in agosto. Viene introdotto un sistema di conti a credito per clienti abituali, si personalizzano gli acquisti, si tengono schede dettagliate sui gusti di chi frequenta il negozio.
Il panico del 1907: eleganza in tempo di crisi
Ma pochi mesi dopo l’inaugurazione, una crisi finanziaria colpisce l’intero paese. Il panico parte da New York, dove la Knickerbocker Trust Company, una delle banche più importanti della città, crolla in seguito a una crisi di liquidità. In breve, l’instabilità si propaga al sistema bancario nazionale. Le borse precipitano, i consumatori riducono le spese, molte aziende sono costrette a licenziare. Passata alla storia come The Panic of 1907, una recessione che mette in ginocchio anche le economie più promettenti.
Bullock reagisce con lucidità. Non vuole che il negozio trasmetta l’idea di crisi. Fa riempire gli scaffali con scatole vuote, per non mostrare buchi nei reparti. Le sei carrozze da consegna di Bullock’s, spesso senza merce, continuano a circolare per la città, come se nulla fosse. È una messinscena, certo, ma funziona. I dipendenti, vedendolo calmo e risoluto, ritrovano fiducia. Lui ripete che gli ideali del negozio non devono essere sacrificati per il guadagno, e li convince a restare uniti.
Gli anni successivi sono complessi ma decisivi. Il negozio resiste, si espande, guadagna una reputazione sempre più solida nella città che cresce intorno a lui. E mentre Bullock’s consolida la sua identità, il legame tra i tre uomini che lo guidano si rafforza.
Tra il 1912 e il 1915 Letts affida il progetto di espandere il Broadway Department agli architetti Parkinson & Bergstrom, acquisendo il Clark Hotel per avere un accesso anche su Hill Street.
Una missione lasciata in eredità
Ma il destino cambia direzione all’improvviso. Nel maggio del 1923, Arthur Letts muore a sessant’anni per una polmonite. Con lui scompare il primo grande pioniere del commercio moderno in California, l’uomo che aveva trasformato una piccola vetrina sulla Broadway in un modello innovativo.
La notizia scuote profondamente l’ambiente, ma non ferma l’ingranaggio che lui stesso ha messo in moto. Il testimone passa nelle mani del più giovane del trio, Percy Winnett, che da lì a poco si troverà a fare i conti con un’idea ancora più ambiziosa.
La città dell'amore
Per il prossimo capitolo della storia dobbiamo salire su un aereo e spostarci a Parigi. È il 1925, e Percy Winnett visita l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne. Il suo obiettivo è vedere le collezioni di haute couture, esplorare musei e gallerie, ma anche scoprire nuovi stili, materiali, soluzioni architettoniche.
Un’idea nata a Parigi, che nasce ufficialmente in quell’occasione, lo colpisce come una rivelazione: geometrie moderne, simmetrie armoniose, materiali raffinati. È uno stile che parla la lingua del futuro, ma con accenti di eleganza assoluta. Lo stesso linguaggio che influenzerà le scenografie di Cedric Gibbons alla MGM e i gioielli cinematografici di Hoeffer, simboli di quella Hollywood che fonde arte, glamour e visione (ve ne ho parlato qui e qui).
Winnett rimane colpito da quella visione estetica e decide che il nuovo punto vendita di Bullock’s dovrà incarnarla in pieno. Ma la novità non è solo stilistica.
Dal progetto alla realtà
La scelta del luogo è altrettanto rivoluzionaria. Invece di rimanere nel centro storico di Los Angeles, già affollato da traffico pedonale e attività commerciali, Bullock e Winnett guardano a Wilshire Boulevard: affettuosamente soprannominato gli “Champs-Élysées di Los Angeles” è un viale in forte espansione, elegante, frequentato da una clientela benestante e — soprattutto — abituata a spostarsi in automobile.
La loro intuizione è semplice, ma lungimirante: se la clientela di fascia alta possiede auto, è disposta a guidare anche per decine di chilometri pur di raggiungere un luogo che valga il viaggio. E allora perché non pensare a un negozio progettato intorno all’automobile?
L’ingresso principale di Bullock’s Wilshire non sarà sulla strada, ma sul retro, dove gli automobilisti, dopo varcheranno un cancello in ferro battuto decorato con motivi geometrici e linee verticali tipiche dell'art decò.
Ad attenderli ci sarà un porte-cochère: un portico coperto, ispirato ai palazzi nobiliari e agli hotel parigini, che consente alle auto di fermarsi per far scendere i passeggeri al riparo da sole o pioggia, senza cercare parcheggio. Qui, valletti in livrea accolgono i clienti, prendono in carico le vetture, e si assicurano che gli acquisti vengano recapitati direttamente nel bagagliaio al momento dell’uscita. Sotto la volta del portico è dipinto il murale “The Spirit of Transportation” di Herman Sachs, dedicato all’era dei trasporti — un omaggio a quel mondo in movimento.
Per Bullock, aprire lì significa intercettare la nuova élite hollywoodiana, che sta costruendo le proprie case e i propri studi cinematografici a ovest del centro. Per Winnett, è l’occasione per creare un simbolo: un edificio che incarni lo spirito moderno della città, e che diventi riconoscibile da lontano.
Per trasformare quella visione in un edificio reale, serviva un team all’altezza. E per Bullock e Winnett, la scelta è naturale: si rivolgono a John e Donald Parkinson, padre e figlio, gli stessi architetti che hanno progettato per loro il primo grande magazzino in centro città nel 1906.
Ma questa volta non si tratta solo di ampliare un’attività esistente, quanto di dare forma a un’idea nuova: un grande magazzino pensato per l’automobile, ispirato allo stile Art Déco e immerso nel paesaggio urbano in rapida trasformazione. Serve qualcosa che si faccia notare, ma che allo stesso tempo sappia accogliere, sorprendere, sedurre.
Il nuovo edificio, al civico 3050 di Wilshire Boulevard, si estenderà per oltre 21.000 metri quadrati: una superficie imponente per l’epoca, pensata per ospitare un’esperienza d’acquisto senza precedenti.
L’elemento più riconoscibile sarà la torre centrale: un pinnacolo alto circa 73 metri, sormontato da una cupola verde-azzurra in vetro e metallo, illuminata da 88 riflettori e 4 tubi al neon al mercurio. Di notte, quella luce visibile da chilometri trasforma Bullock’s Wilshire in un faro urbano, un punto di riferimento che sembra uscito da una scenografia hollywoodiana.
Ma anche il resto dell’edificio risponde a logiche di eleganza funzionale. La facciata in terracotta, realizzata dalla Gladding, McBean & Company, è decorata con dettagli geometrici e superfici scolpite a mano. Ampie vetrate scandiscono i piani inferiori, mentre le linee verticali accentuano lo slancio verso l’alto. Ogni elemento parla il linguaggio dell’Art Déco, ma con una precisione quasi teatrale. E non è un caso: uno dei progettisti principali, Jock Peters, ha lavorato brevemente a Hollywood come scenografo per la Paramount Pictures.
Peters porta con sé uno sguardo estetico colto e moderno. Ex combattente della Prima Guerra Mondiale, tedesco di nascita ma cosmopolita nella visione, crede che l’architettura debba emozionare. E a Bullock’s Wilshire riesce nell’intento: le proporzioni sono armoniche, i volumi ben distribuiti, le decorazioni mai eccessive. L’effetto è quello di un tempio del consumo, ma con il rigore di una cattedrale laica.
Sulla facciata principale si trova un basso rilievo con la scritta "To Build a Business That Will Never Know Completion" (Per costruire un'attività che non conoscerà mai fine) realizzato da George Stanley, lo scultore che ha realizzato la statuetta dell'Oscar (di cui vi ho parlato qui).
Se l’esterno di Bullock’s Wilshire cattura l’attenzione per le sue linee verticali e la torre scintillante, è all’interno che si compie la vera magia. A dirigere la concezione degli ambienti è Jock Peters, ma l’arte della decorazione è affidata a una figura chiave: Eleanor Le Maire, una delle prime interior designer professioniste della West Coast.
A lei viene affidato il coordinamento di un team selezionato di 13 artisti, tra nomi noti e giovani promesse. Per realizzare questa visione viene allestita un’officina artigianale interna, con quasi 100 specialisti capaci di lavorare legni rari, metalli cesellati, vetri smerigliati, cuoio e tessuti su misura. È una macchina creativa senza precedenti, in grado di produrre arredi e dettagli al pari dei migliori atelier parigini.
Il piano terra: l’arte dell’accoglienza
L’ingresso principale, accessibile dal celebre porte-cochère posteriore, introduce il visitatore in un foyer a cupola alta, con ascensori incorniciati in bronzo, rame e metallo brunito. Lo stile richiama il Bauhaus, corrente tedesca che univa arte, design e funzionalità con un’estetica industriale: lo si percepisce nei materiali esposti e in dettagli come l’orologio a parete con ingranaggi a vista (ce ne sono diversi e particolarissimi sparsi in tutto il grande magazzino).
La celebre Hall dei Profumi sembra più una sala museale che un reparto commerciale: pareti in marmo rosa St. Genevieve, vetrine basse su piedistalli in palissandro, pannelli retroilluminati che diffondono una luce soffusa, ottenuta anche grazie a strisce metalliche verticali che guidano lo sguardo. Nessuna insegna, nessun registro di cassa visibile: solo profumi esposti come pezzi unici.
Dall’altra parte, il reparto Abbigliamento Sportivo è un inno alla velocità e al dinamismo. Il Saddle Shop ha pavimenti in piastrelle vermiglio, tappeti nei toni terra e un bassorilievo giocoso di Eugene Maier-Krieg, con arcieri e giocatori di polo. A dominare la sala un altro murale "The Spirit of the Sports", dell'artista Gjura Stojano. Sempre lì si trova "Barney", un cavallo in gesso a grandezza naturale su cui i clienti potevano provare i pantaloni da equitazione. Poco distante, il primo reparto per l’abbigliamento dei cani, la Doggery.
I piani superiori
Salendo al secondo piano, si entra nel cuore dell’alta moda internazionale. Gli spazi sono progettati per valorizzare ogni collezione come se fosse una scenografia. Qui si trovano le “Period Rooms”, saloni di vendita ispirati all’arredamento francese del XVIII e XIX secolo.
La Sala Luigi XVI, decorata in avorio e oro con lampadari di cristallo, richiama l’intimità di un boudoir alla corte di Maria Antonietta.
La Sala Direttorio, inizialmente riservata agli abiti da sera, diventa poi il Salone delle Pellicce, con camino, murales di George De Winter e modanature neoclassiche.
La Sala Luigi XV, più fantasiosa e rococò, ospita accessori di alta gamma e, successivamente, diventerà la Sala Chanel.Inoltre qui si trova lo scenografico "Studio of Beauty," molto più di un semplice salone di bellezza. Con le sue 18 postazioni parrucco e una innovativa macchina per fissare la permanente che sembrava uscita dal futuro, oltre ad una stanza con un lettino per l'abbronzatura a raggi ultravioletti.Al terzo piano, l’attenzione si sposta su una clientela giovane: le studentesse delle high school e delle università, che trovano un’intera sezione dedicata alla moda scolastica. Gli ambienti sono sobri ma eleganti, con legni naturali come noce e acero, e tappeti nei toni neutri.
Il quarto piano è riservato al mondo dell’infanzia. Piccole stanze tematiche accolgono abiti, giocattoli, libri e prodotti per neonati.
Al quinto piano, il più eclettico, troviamo la Cactus Room è un ambiente che funge da lounge di lusso, dalle tonalità sabbia e salvia, con luce filtrata da un soffitto in vetro con forme geometriche e cactus stilizzati, con pareti che evocano i colori del deserto. La Salle Moderne decorata con pannelli laccati e animali dipinti da Maurice Jallot, è un raffinato esempio di design anni Trenta.
La Tea Room, infine, è divisa in più ambienti — ciascuno con una palette diversa tra verde, oro e beige — e adornata con pannelli illustrati che raffigurano cervi californiani. Qui si tengono pranzi, incontri di società e, negli anni successivi, corsi di galateo per giovani donne.
Questo è un menù del 1937.
Un nuovo modo di fare shopping
Se Bullock’s Wilshire colpisce per la sua architettura e per la bellezza dei suoi interni, è il modo in cui comunica e accoglie i clienti a renderlo davvero unico. Nulla è lasciato al caso: ogni dettaglio — dalla carta da regalo ai biglietti da visita — riflette un’estetica coerente, moderna, raffinata.
Già alla fine degli anni Venti, il team acquista i diritti esclusivi per un carattere tipografico d’avanguardia: Stellar Bold, una font dal tratto deciso e geometrico, ispirata alle avanguardie europee. È una scelta che si allinea perfettamente con il design Art Déco del negozio e che diventa il segno distintivo dell’identità visiva di Bullock’s Wilshire. Tutto, dalla grafica degli annunci pubblicitari alla palette dei colori promozionali, viene curato con maniacale precisione per rafforzare l’idea di uno shopping di alto profilo.
Ma la vera innovazione è nel servizio. L’intera esperienza è costruita come una messa in scena teatrale, dove il cliente è al centro di una narrazione fatta di discrezione, cortesia e attenzione. Non c’è fretta né confusione. Ogni reparto è progettato per offrire silenzio e privacy: pareti fonoassorbenti, poltrone morbide dove attendere il proprio turno come in un salotto, spazi riservati per osservare e scegliere in tranquillità. Il cliente non si sente mai spinto a comprare. Si muove con lentezza, osserva, si lascia ispirare.
A contribuire a questo senso di armonia è anche il personale. Le commesse devono indossare cappello e guanti, gli abiti devono essere sobri, lo smalto è vietato. Alle nuove assunte viene insegnato a trattare il cliente come un ospite in casa propria.
Bullock’s Wilshire è anche avanguardista nel concetto di servizio su misura. Oltre 60 buyer e responsabili merceologici studiano i gusti personali della clientela e cercano in tutto il mondo articoli rari, spesso commissionati in esclusiva per il negozio. I clienti possono ordinare abiti su misura, acquistare oggetti non esposti, ricevere consulenze personali. E soprattutto, non devono preoccuparsi del trasporto: ogni acquisto viene consegnato direttamente nel bagagliaio dell’auto, grazie a un sistema logistico tanto invisibile quanto impeccabile.
Non stupisce, allora, che nel 1929 — anno dell’inaugurazione — le grafiche pubblicitarie di Bullock’s Wilshire siano state esposte al Metropolitan Museum of Art di New York come esempio di eccellenza nel design modernista.
Il momento più nero
Il negozio viene completato nel 1929, con un investimento imponente per l’epoca: 2 milioni di dollari. Quando Bullock’s Wilshire apre le porte al pubblico è tutto pronto per celebrare una nuova era del commercio di lusso a Los Angeles. L’edificio è una dichiarazione di modernità, un monumento all’eleganza e all’ottimismo economico. Ma quell’entusiasmo dura poco.
Poche settimane dopo l’inaugurazione, il 29 ottobre 1929, Wall Street crolla. È il martedì nero, il punto di rottura che dà inizio alla Grande Depressione. I mercati si fermano, la fiducia si sgretola, e milioni di americani si trovano improvvisamente disoccupati, senza risparmi, senza certezze.
Anche Los Angeles ne risente. Il mondo dorato di Bullock’s, fatto di cappotti su misura, profumi francesi e ambienti rivestiti in marmo, appare, d’un tratto, fragile. Chi può permettersi ancora di acquistare in un negozio del genere?
La risposta è sorprendente. Nonostante la crisi, Bullock’s Wilshire resta aperto. Non solo: riesce a mantenere il proprio standard di servizio e raffinatezza, adattandosi con intelligenza ai tempi difficili. Merito di P.G. Winnett, che guida l’azienda con prudenza e determinazione. I tagli sono minimi, i dipendenti restano in gran parte al loro posto, e il messaggio alla clientela è chiaro: qui niente cambia, anche se il mondo là fuori vacilla.
L'importanza della squadra
John Bullock, invece, non riesce a reggere l’urto. Le difficoltà economiche, le pressioni, le notti insonni minano la sua salute. Dopo una serie di attacchi cardiaci, il cuore cede definitivamente nel 1933. Ha 62 anni. Il giorno dei funerali, la città si ferma. Le vetrine abbassano le luci, i dipendenti si vestono di nero, e in molti lasciano fiori davanti all’ingresso di Wilshire Boulevard. È una dimostrazione di rispetto, ma anche un tributo a un uomo che ha saputo trasformare lo shopping in un atto culturale.
Se Bullock’s Wilshire ha incarnato l’eleganza moderna del consumo, è anche merito delle donne che lo hanno gestito e modellato, spesso lontano dai riflettori ma centrali nel costruire il mito. Tra direzione, moda, scenografia e dettagli, tre figure femminili emergono con forza: Ann Hodge, Agnes Farrell e Mary Goodholme.
Ann Hodge è la mente operativa dietro la macchina impeccabile di Bullock’s Wilshire. Direttrice generale della merce prima, e poi prima donna a guidare l’intero store, Hodge esercita un controllo puntuale su ogni reparto. Nessuno viene assunto senza il suo consenso. Dalla disposizione delle vetrine al comportamento dello staff, ogni dettaglio passa sotto il suo sguardo vigile. Tutti la chiamano “Miss Hodge”, e quel titolo — un misto di rispetto e timore — riflette perfettamente la sua autorità discreta ma assoluta. Il suo contributo non si misura solo nei numeri, ma nella coerenza dell’identità del negozio: elegante, sobria, impeccabile.
Agnes Farrell, invece, è l’anima stilistica e comunicativa. Direttrice della moda e della pubblicità dal 1930 agli anni ’60, ha la capacità di interpretare i gusti della clientela prima ancora che si manifestino. È lei a curare le grafiche, le presentazioni e lo stile delle campagne. Ma è anche un’educatrice, nel senso più nobile del termine: fonda una scuola interna di buone maniere per il personale, affinando non solo l’estetica ma anche la grazia sociale di chi lavora da Bullock’s. E nel 1922, spinta dalle lamentele delle figlie che non trovavano nulla di adatto a loro nei negozi, crea una linea interamente dedicata alle giovani donne: la Collegienne.
Infine c’è Mary Goodholme, designer freelance dalla creatività insolita. Il suo contributo più celebre non riguarda una collezione, ma una tradizione: l’albero di Natale. Un’enorme struttura realizzata con piume di struzzo bianche che, ogni dicembre, occupa il foyer principale e incanta i clienti. Goodholme inizia a occuparsene già in agosto, supervisionando il lavaggio delle piume da parte dei magazzinieri, che poi devono soffiarci sopra per asciugarle. È un lavoro lungo, meticoloso, costoso (diecimila dollari ogni tre anni per rinnovare le piume) ma l’effetto è tale da diventare leggendario.
Clienti famosi
Negli anni Trenta e Quaranta, se si voleva incontrare una star del cinema fuori dal set, uno dei luoghi più probabili era Bullock’s Wilshire. Il grande magazzino diventa in breve tempo il cuore silenzioso della moda hollywoodiana, meta di attrici, registi, scenografi e socialite. Un punto d’incontro privilegiato, lontano dai riflettori ma vicino al cuore dell’industria cinematografica.
Attratte dalla discrezione del servizio, dall’estetica degli interni e dalla qualità delle collezioni, attrici del calibro di Jean Harlow (che ha anche posato per 2 servizi fotografici per la MGM qui, nella sala Direttorio davanti allo splendido camino), Marlene Dietrich, Joan Crawford, Loretta Young, Ingrid Bergman, Rosalind Russell e June Allyson frequentano regolarmente i reparti più esclusivi.
Greta Garbo, che nel reparto maschile acquista diverse paia di pantaloni negli anni ’30. Clark Gable commissiona una tuta da sci in lana paisley e chiede che ne venga realizzata una identica per Carole Lombard. William Randolph Hearst, visionario magnate della stampa e collezionista compulsivo, acquista decine di costumi da bagno per i suoi ospiti a San Simeon, il suo castello da sogno sulla costa californiana (di cui vi ho parlato qui).
Al secondo piano, i nomi più celebrati della couture sfilano in una sequenza di saloni curatissimi: Chanel, Balenciaga, Courrèges, Galanos, Oscar de la Renta, Dior, Givenchy, Schiaparelli. Le collezioni vengono presentate da mannequins, modelle vere che si muovono tra gli arredi come se ogni giorno fosse una sfilata privata.
Nel 1935 nasce un’istituzione destinata a lasciare il segno: il salone di Irene Lentz Gibbons, costumista della MGM, autrice di abiti indossati sullo schermo e nella vita da dive come Dietrich, Colbert, Goddard e Crawford. È la prima stilista americana ad avere una boutique personale in un grande magazzino, e riceve su appuntamento le sue clienti più affezionate. Il salone, situato al secondo piano, inaugurato nel 1935, resta attivo fino al 1942.
I corridoi di Bullock’s custodiscono anche episodi più personali, momenti sottratti alla memoria ufficiale. Come quando un assistente agli acquisti apre la porta del camerino 12 e trova Judy Garland seduta per terra, nuda, con un martini in mano.
Mae West, invece, è una cliente affezionatissima pur non avendo mai messo piede dentro al negozio. Preferisce far recapitare gli articoli direttamente nella sua limousine nera parcheggiata nel cortile. Ogni oggetto viene mostrato e selezionato lì, come in un set mobile, con l’aria distaccata di chi ha fatto dello stile un’arte personale.
Quando Angela Lansbury entra al Bullock’s Wilshire per la prima volta, non è ancora una star. È il dicembre del 1942, ha sedici anni, pochi soldi in tasca e una vita da ricostruire. Vive con la madre e i fratelli in un appartamento minuscolo su Ocean Avenue, così piccolo che lei dorme in cucina. Ma quell’insegna scintillante su Wilshire Boulevard sembra promettere un futuro diverso.
Viene assunta come cassiera e addetta ai pacchi natalizi. Le insegnano subito come si confeziona una scatola “alla Bullock’s”: nastro perfetto, pieghe precise, carta robusta e timbro monogrammato. Un gesto quasi cerimoniale. Dopo le feste, Angela passa al reparto cosmetici. Vende profumi e creme di lusso a clienti benestanti, anche se a casa continua a usare quelli da pochi cent. Più tardi viene spostata alle borse. Resta a Bullock’s fino a giugno del 1943. Poi tutto cambia. Sostiene un provino per la MGM, viene scritturata per Angoscia (Gaslight, 1944) e riceve la sua prima nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il salto è vertiginoso, ma Angela non dimentica quel primo impiego. Torna spesso a fare acquisti da Bullock’s Wilshire, e per il suo primo matrimonio con l’attore Richard Cromwell sceglie un tailleur in tweed lilla.
Anche sua madre, l’attrice Moyna Macgill, ha avuto una parentesi da dipendente nel reparto giocattoli. È stata licenziata, pare, perché giocava troppo con i bambini.
Angela Lansbury continuerà a costruire una carriera brillante, ricevendo altre due nomination agli Oscar e diventando un volto familiare in tutto il mondo grazie a La signora in giallo (di cui vi ho parlato qui). Ma Bullock’s Wilshire rimane nel suo cuore. Vi tornerà anni dopo, nel 1993, per girare un episodio della serie (stagione 10 episodio 17 “Il cacciatore di cervi”), e come ricordo riceverà in dono una zuccheriera e una lattiera d’argento della storica Tea Room. C'è una scena all'inizio in cui dice "Sono molto affezionata a questo posto, è pieno di ricordi".
Ha già fatto una piccola esperienza sul set, ma quel giorno non cerca un ruolo. Vuole un lavoro vero. È entrata da Bullock’s Wilshire per fare acquisti e, d’impulso, è salita all’ufficio del personale per chiedere un colloquio.
Le propongono un impiego part-time nel reparto Collegienne, pensato per le ragazze come lei: moda giovanile, abiti adatti alle studentesse delle scuole superiori e delle università. June accetta con entusiasmo. Lavora ogni sabato e durante le vacanze scolastiche. Guadagna 35 dollari a settimana, che spende quasi tutti pranzando nella Tea Room.
Prende l’autobus ogni mattina da North Catalina Street, vicino a Vermont Avenue, e raggiunge il negozio a piedi. Vende con passione, e ricorda di essersi divertita molto. Racconta che una volta è stata richiamata per aver corso sul piano vendita: un’abitudine che nel contesto di Bullock’s era inammissibile. Un’altra volta indossa un vestito rosso a pois la direzione le chiede qualcosa di più sobrio anche se lei quell’abito l’ha comprato proprio lì.
Alla fine dell’estate si diploma. Bullock’s Wilshire le propone un trasferimento a New York per accompagnare una buyer come follow-up girl. Ma nel frattempo arriva un contratto con la MGM. Chiama il negozio per ringraziare e congedarsi. Loro avrebbero risposto: “Sapevamo che la MGM ti avrebbe pagato più di noi.”
L'unione fa la forza
Dopo la morte di John Bullock nel 1933, Percy Glen Winnett prende in
mano l’azienda con l’obiettivo di onorare la visione originaria e, al
tempo stesso, adattarla alle sfide economiche della Grande Depressione e
al futuro dell’industria. Nel 1944 compie una mossa audace: guida la fusione tra Bullock’s Inc. e I. Magnin & Co., storica catena di San Francisco specializzata in abbigliamento femminile di alta gamma. Il risultato è un colosso del retail californiano con dodici negozi lungo tutta la West Coast e vendite combinate da 63 milioni di dollari. Non si tratta solo di una fusione commerciale, ma di un'operazione culturale: due stili diversi — l’eleganza raffinata di Magnin e l’audacia moderna di Bullock’s — che si incontrano per sopravvivere in un mercato in rapido mutamento.
Con gli anni ‘60 la centralità dell’esperienza viene gradualmente sacrificata sull’altare dell’efficienza, e la personalizzazione lascia il posto all’omologazione.
Nel 1964, a sorpresa, si ritrova coinvolto in una dura battaglia interna: il suo stesso consiglio d’amministrazione, insieme a una potente corporazione e al genero, si muove per estrometterlo dal potere. Gli anni dell’armonia si chiudono con una crisi profonda. I collaboratori più fedeli lo difendono, ma l’era pionieristica è finita.
Nel luglio del 1968, Percy Glen Winnett muore. Con lui si spegne l’ultimo dei tre fondatori, e si chiude definitivamente l’epoca pionieristica di Bullock’s Wilshire. Ma poco prima di andarsene, riesce a cogliere un’ultima soddisfazione: nel giugno dello stesso anno, il palazzo al 3050 Wilshire Boulevard ottiene lo status ufficiale di Monumento Storico Culturale di Los Angeles, un riconoscimento che ne sottolinea il valore architettonico e culturale all’interno della città. È una forma di consacrazione pubblica per un progetto che ha saputo unire eleganza, funzionalità e visione.
Dieci anni più tardi, il 25 maggio 1978, Bullock’s Wilshire entra anche nel National Register of Historic Places, confermandosi come uno degli edifici simbolo della modernità americana.
L'età del declino
Negli anni ’80, il panorama del commercio americano cambia rapidamente. I grandi magazzini, un tempo simbolo di status e cultura urbana, cominciano a perdere terreno. Il settore si muove verso una strategia sempre più standardizzata: si riducono i costi, si semplificano le collezioni, si abbandona il servizio su misura che aveva reso celebre Bullock’s Wilshire. L’esperienza cliente non è più centrale. E in un mondo che corre, lo shopping lento e raffinato sembra fuori moda.
Nel febbraio 1988, arriva un colpo durissimo: la R.H. Macy & Co. di New York annuncia l’acquisizione della Federated Department Stores, proprietaria di Bullock’s e I. Magnin, per 6,1 miliardi di dollari. Macy acquisisce le due storiche divisioni californiane per 1,1 miliardi. È un’operazione ambiziosa e costosissima, che però si rivela insostenibile.
Mentre gli Stati Uniti scivolano nella recessione dei primi anni ’90, Macy continua a perdere denaro. I punti vendita registrano cali drastici nelle vendite, e nel gennaio 1992 l’azienda è costretta a dichiarare bancarotta, invocando il Chapter 11, una procedura che consente alle aziende di ristrutturare i debiti continuando a operare sotto supervisione giudiziaria.
Nel luglio dello stesso anno, i disordini di Los Angeles scatenati dall’assoluzione dei poliziotti coinvolti nel pestaggio di Rodney King portano al saccheggio di numerosi edifici nel centro città. Anche Bullock’s Wilshire viene colpito: il piano terra è devastato. È un momento simbolico e doloroso. Non è solo una crisi commerciale. È la fine di un’epoca.
Risorgere dalle ceneri
Ad aprile 1993, Bullock’s Wilshire chiude definitivamente. La meravigliosa torre Art Déco, che per decenni ha celebrato il connubio tra arte e commercio, si ritrova improvvisamente svuotata. Gli arredi storici vengono smontati e spediti in altri negozi della catena. Si teme il peggio: che venga svenduto, frazionato, peggio ancora demolito. Come già successo all’Ambassador Hotel, al Brown Derby e al Perino’s.
A lanciare un salvagente è il preside della Facoltà di Legge Southwestern University, Leigh Taylor: comprende il valore dell’edificio e si muove per acquisirlo. Contatta l’allora sindaco Tom Bradley e propone un’operazione insolita per l’epoca: un riuso adattivo di alto livello, che salvi non solo la struttura, ma anche il suo spirito.
Dopo un anno di trattative, la Southwestern acquista l’immobile per 4,8 milioni di dollari. Inizia così un restauro minuzioso, progettato con rispetto e rigore. Gli arredi originali vengono recuperati — dopo un’iniziale resistenza, Macy’s accetta di restituirli — e il progetto si concentra sulla conservazione delle aree più iconiche come la Sala dei Profumi, la Tea Room, il porte-cochère. Nel 1997, Bullock’s Wilshire rinasce come campus universitario.
Sotto i riflettori
Non erano solo le star a frequentare Bullock’s Wilshire: era il negozio stesso a diventare, di tanto in tanto, una star. La sua prima apparizione cinematografica risale al 1937, nella commedia Topper con Cary Grant e Constance Bennett. Qui il port cochere viene usato come entrata del fittizio hotel seabreeze hotel.
Negli anni seguenti, il palazzo torna più volte sullo schermo, sempre con discrezione ma mai con anonimato. In Viale del tramonto (1950), è proprio qui che Gloria Swanson – nei panni della leggendaria Norma Desmond – porta William Holden a rifarsi il guardaroba.
Nel 1953, Bullock’s Wilshire appare anche in La grande nebbia (The Bigamist) con Joan Fontaine e Ida Lupino.
Nel 1976, Alfred Hitchcock – che da cliente era diventato affezionato estimatore – sceglie di girare una scena del suo ultimo film Complotto di famiglia (Family Plot) proprio nella Hall d’ingresso. Il nome del negozio viene oscurato, ma il reparto cosmetici e quello di lingerie sono perfettamente riconoscibili. E dietro i banconi, alcune delle vere commesse-modelle di Bullock’s, selezionate per la loro eleganza, recitano senza parole ma con stile.
Nel 2004, The Aviator di Martin Scorsese ricostruisce la Hollywood degli anni d’oro: Bullock’s Wilshire torna in scena, compare quando Howard Hughes (Leonardo DiCaprio) e Ava Gardner vengono aggrediti da un’ex fidanzata di lui.
Ed eccoci alla conclusione di un articolo in cui, anche questa volta, non ho potuto fare a meno di immergermi completamente. Bullock’s Wilshire è un frammento vivo della storia di Los Angeles, un luogo dove l’eleganza incontra l’ingegno, dove ogni dettaglio parla di visione, gusto e coraggio imprenditoriale. Un edificio capace di riflettere un’intera epoca, con le sue aspirazioni e le sue contraddizioni.
Spero, nel frattempo, di avervelo fatto visitare almeno con l’immaginazione. E se un giorno vi troverete a camminare lungo Wilshire Boulevard, davanti a quella torre che si staglia come un sogno verticale, potrete dire: “Io, la storia di quel posto, la conosco.”
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