ACCADEVA A HOLLYWOOD: Glorie spezzate - Dorothy Dandridge pt. 4 L'ultimo atto
venerdì, maggio 09, 2025Era il 7 marzo 2023 quando ho deciso di raccontare la storia di Dorothy Dandridge. Una scelta naturale, quasi obbligata. Tra le grandi dive dimenticate di Hollywood, lei è una di quelle figure che senti il dovere — anzi, il privilegio — di riportare alla luce. Talento, bellezza, tragedia, ambizione, censura, lotta: c’era tutto. Eppure di Dorothy si parla ancora troppo poco.
Non avrei immaginato che questa storia mi avrebbe accompagnato così a lungo: la seconda parte è arrivata nel febbraio 2024, la terza in piena estate. E ora, a due anni esatti dal primo, eccoci qui con l’ultimo capitolo. No, non è stato per creare attesa. È che alcune biografie sono veri e propri vortici. Ci entri dentro e non ne esci con leggerezza. Come mi era già successo con Gene Tierney, Natalie Wood, Frances Farmer. Ci sono vite talmente complesse, contraddittorie, emozionanti, che ti chiedono tempo.
Quella di Dorothy Dandridge è una di queste. Una storia pazzesca, densa di passaggi vertiginosi, svolte inattese, dolori privati e conquiste pubbliche. Una storia che vale ogni parola.
Spero che anche per voi — alla fine di questo lungo viaggio — rimanga la stessa cosa che è rimasta a me: il senso di aver incontrato una donna irripetibile. E la voglia di non lasciarla più andare.
Gli articoli precedenti sono qui: Parte 1, Parte 2 e Parte 3.
Il prezzo della celebrità
La sera del 30 marzo 1955, sotto i riflettori della notte degli Oscar, Dorothy sorride. Non ha vinto la statuetta, ma in cuor suo sa che la vittoria più importante l’ha già ottenuta. Quella era arrivata il mese prima, il 15 febbraio, quando la 20th Century Fox le aveva proposto un contratto triennale: un film all’anno, compenso crescente, e — per la prima volta — il suo nome sopra il titolo.
È un traguardo senza precedenti per un’attrice afroamericana. Ma i sogni di gloria si scontrano presto con la realtà. Il contratto resta una promessa su carta. Nessuna chiamata, nessuna sceneggiatura. Solo silenzio.
Ma più si avvicina la data delle riprese, più il ruolo le appare problematico. Tuptim non è altro che una figura sottomessa, quasi una schiava. Dorothy ha già interpretato domestiche e cameriere all’inizio della carriera, quando non aveva scelta. Ora non se la sente più. Il contesto è esotico, lontano dalla realtà afroamericana. “Non ha nulla a che vedere con la storia dei neri in America”, dirà in seguito. Otto Preminger, ancora una figura centrale nella sua vita professionale e personale, la esorta a rinunciare. Dopo Carmen Jones, dice, deve accettare solo ruoli da protagonista. Altrimenti rischia di rimanere intrappolata in parti marginali, oscurata da attrici bianche in ruoli centrali.
Alla fine, Dorothy si tira indietro. La Fox non la prende bene. Quando la notizia trapela, lo studio parla di “conflitti di programmazione” legati a un suo impegno al Riviera Hotel di Las Vegas. La parte di Tuptim viene assegnata a Rita Moreno. Il film, una volta uscito, si rivela un successo mondiale e ottiene nove nomination agli Oscar. Dorothy viene pagata per l’annullamento, ma per la stampa — e per l’industria — ha appena rinunciato a una delle poche occasioni reali che Hollywood fosse disposta a darle.
Intanto, Carmen Jones non può essere distribuito in Francia per via delle leggi sul copyright musicale. Ma il 5 maggio del 1955 il Festival di Cannes decide comunque di proiettarlo fuori concorso. Per evitare problemi legali con gli eredi di Bizet, la direzione pensa perfino di proiettare il film su una portaerei americana ancorata al largo. Alla fine, il compromesso viene trovato. Dorothy vola in Francia per partecipare all’evento. Quando arriva al festival, l’accoglienza è trionfale.
La stampa francese la adora. Jet scrive che ha ricevuto applausi persino più calorosi di quelli destinati a Grace Kelly. La giornalista di cronaca mondana Sheilah Graham commenta che Dorothy “sembra avere esattamente quello che i francesi cercano”.
Ma al ritorno negli Stati Uniti, l’atmosfera è diversa. Dorothy riprende le esibizioni all’Empire Room, e intorno a lei si torna a parlare più di night club che di cinema. Quel che sembrava l’inizio di una nuova era, rischia di diventare solo un’illusione.
Baci proibiti
Nel 1957 arriva un nuovo progetto: L'isola nel sole. Dorothy interpreta Margot Seaton, una commessa nera che vive su un’isola dei Caraibi sotto dominio coloniale britannico. È uno dei suoi ruoli più importanti dopo Carmen Jones, e dovrebbe raccontare una storia d’amore interrazziale con un uomo bianco, l’assistente del governatore, interpretato da John Justin.
Sulla carta sembra un passo avanti. Il film affronta apertamente temi razziali e sociali. Nel cast ci sono anche Joan Fontaine, James Mason, Joan Collins e Harry Belafonte. Dorothy riceve il terzo nome nei titoli di testa, subito dopo Mason e Fontaine. Ma qualcosa non torna.
Il personaggio di Belafonte — un sindacalista nero coinvolto sentimentalmente con una donna bianca — viene completamente riscritto prima delle riprese. Non ci sarà alcun bacio. Non ci sarà nemmeno una vera dichiarazione d’amore. Dorothy si aspetta che almeno la sua storia d’amore con Justin venga trattata con onestà. Ma anche lì, tutto viene filtrato, annacquato, ridotto.
Quando legge il copione definitivo, resta scioccata. Margot e il suo innamorato non si baciano. Non si dicono nemmeno di amarsi. La loro relazione si consuma nello sguardo, nel sottinteso, nell’ambiguità. “Ho odiato quel ruolo”, dirà più tardi. “Due persone che dovrebbero amarsi, ma non si toccano mai. Nemmeno una parola. Nemmeno un bacio. Come se una donna nera potesse essere desiderabile, ma non degna d’amore.”
Per Dorothy è una ferita profonda. Aveva accettato il film nella speranza che potesse aprire una breccia nel tabù delle relazioni interrazziali sullo schermo. Invece si ritrova ancora una volta a interpretare una donna silenziata, privata dell’amore, resa simbolo più che persona.
Dietro le quinte, le tensioni non mancano. La stampa inizia a speculare su una possibile relazione tra lei e Belafonte, che nel frattempo ha lasciato la moglie. C’è anche chi parla di una liason tra lui e Joan Collins. Ma Dorothy resta al margine di tutto. Quando prova a proporre modifiche al copione, si sente dire che ormai è troppo tardi. Che tutto è stato deciso.
Il risentimento cresce. Dopo mesi passati ad allenarsi per apparire impeccabile, a studiare il ruolo, a prepararsi fisicamente con il trainer svizzero Walter Saxer, Dorothy si trova davanti a un personaggio svuotato. Bellissimo, ma muto. Sensuale, ma sterile.
Anche dal punto di vista mediatico, la situazione è ambigua. La Fox usa la sua immagine per promuovere il film, ma evita di mostrare scene in cui Dorothy appare accanto a personaggi bianchi. Nei manifesti pubblicitari, i bianchi da una parte, i neri dall’altra. La segregazione continua, anche nella stampa.
Poi arriva il colpo finale. Il Breen Office, l’ufficio che vigila sulla moralità nei film, chiede spiegazioni sulla “condotta” dei personaggi. Per giustificare la gravidanza di Joan Collins nel film, si scrive che il suo personaggio è scioccato nel sapere di avere sangue nero. Come se quella scoperta giustificasse la sua "caduta". È un insulto. E per Dorothy, è intollerabile.
Alla fine delle riprese, Dorothy è esausta. E più sola che mai.
Sotto accusa
È una fredda mattina di gennaio del 1957. Dorothy è seduta nel suo salotto, avvolta nella sua vestaglia a bere il caffè. Sfoglia distrattamente l’ultimo numero della rivista Hep, ma ad un certo punto si blocca.
Il titolo, enorme, le salta agli occhi: “Dorothy Dandridge — I suoi 1.000 amanti”.
Una scossa le attraversa il corpo. Il respiro si fa corto. Una valanga di illazioni gratuite, insinuazioni velenose, pettegolezzi senza fondamento. Tutto quello che ha costruito — con disciplina, eleganza, fatica — ridotto a una fantasia sessuale da tabloid.
Con l’avvocato Leo Branton al suo fianco, Dorothy decide di reagire. Non per vendetta, ma per rispetto verso se stessa. Deposita una causa da 2 milioni di dollari contro la Good Publishing Company, editrice di Hep. È una mossa rara, rischiosa per una donna afroamericana in quegli anni, ma non ha intenzione di lasciar correre.
Pochi mesi dopo, un altro colpo. Stavolta è la rivista Confidential, la più famigerata tra le pubblicazioni scandalistiche americane, a prenderla di mira.
In un articolo interno dal titolo "Quello che Dorothy Dandridge ha fatto nel bosco", si racconta di una presunta avventura sessuale con un uomo bianco, nei boschi del Lago Tahoe, nel 1950.
È tutto falso. Ma il veleno razzista è evidente: la donna nera come oggetto sessuale selvaggio, disponibile, trasgressivo. L’implicazione è chiara e infame. Dorothy, che ha passato una vita a combattere stereotipi, si ritrova marchiata con il peggiore.
Ancora una volta si affida a Branton e sporge una seconda denuncia da 2 milioni di dollari, stavolta contro Confidential. Ma non è sola: si inserisce in un contesto più ampio. È in corso il cosiddetto “processo delle 100 star”, un’azione legale collettiva in cui celebrità come Maureen O’Hara, Liberace, Anthony Quinn, Kim Novak e altri si difendono in tribunale dagli attacchi infondati del giornale.
Anche Dorothy si presenta in aula. È impeccabile: occhiali scuri, portamento regale, sorriso composto. Ma quando prende la parola, non è più solo una diva — è una donna ferita, decisa a riprendersi il controllo della propria narrazione.
“È impossibile,” dice. “All’epoca, una donna nera non poteva essere vista nei boschi con un uomo bianco. Non solo per convenzione, ma per la propria sicurezza.” La sua testimonianza è limpida, potente. Per molti, è il momento in cui Dorothy si solleva non solo per sé, ma per tutte le donne nere trattate come oggetti di desiderio e mai come soggetti di rispetto.
Il caso contro Hep viene archiviato fuori dal tribunale, in silenzio. Nessun risarcimento ufficiale. Ma la rivista smette di nominarla, come se volesse cancellare lo scandalo che ha generato.
Invece il caso Confidential arriva a una conclusione storica. Nel maggio del 1957, la rivista accetta un accordo extragiudiziale: pagamento di 10.000 dollari a Dorothy, più la pubblicazione di una rettifica ufficiale. È la prima volta che Confidential si scusa pubblicamente con una star afroamericana. La stampa nera parla di vittoria simbolica. Hollywood applaude. Dorothy è la prima attrice nera a vincere una causa contro Confidential.
Ma se fuori è festa, dentro è un'altra storia. Dorothy non esulta. Non rilascia dichiarazioni. Resta a casa, in silenzio. Ha vinto, sì. Ma il prezzo è stato altissimo. La stampa l’ha infangata, Hollywood ha iniziato a evitarla. I ruoli importanti cominciano a scarseggiare. E se anche la sua immagine pubblica resta intatta — guanti bianchi, perle, sguardo elegante —, chi le è vicino capisce che qualcosa in lei si è incrinato.
La battaglia per la dignità è stata vinta. Ma quella per la sopravvivenza è appena cominciata.
Sotto le ceneri di Porgy e Bess
Nell’estate del 1957, Samuel Goldwyn annuncia di aver acquistato i diritti per portare sul grande schermo Porgy and Bess, l’opera lirica composta da George Gershwin nel 1935. È una scommessa ambiziosa: il musical racconta la storia d’amore tra un mendicante disabile e una donna perduta, sullo sfondo di una comunità afroamericana marginalizzata nella fittizia Catfish Row, a Charleston. Con le sue arie celebri e il taglio tragico, è un’opera potente ma controversa, spesso criticata per la rappresentazione stereotipata dei neri del Sud.
Goldwyn promette un film in grande stile e annuncia che Dorothy Dandridge sarà la protagonista. Ma Harry Belafonte, contattato per il ruolo di Porgy, rifiuta categoricamente. Considera la storia offensiva, e suggerisce a Dorothy di fare lo stesso. Ma lei è combattuta, e alla fine ascolta un’altra voce: quella di Otto Preminger. Le dice che sarà come Carmen Jones, un altro ruolo indimenticabile. E Dorothy, che dopo l’Oscar sfiorato fatica a trovare parti all’altezza, accetta.
Ma proprio mentre si prepara a interpretare il personaggio, la sua vita personale si intreccia in modo drammatico con il lavoro. La relazione con Otto Preminger, iniziata durante Carmen Jones e proseguita tra alti e bassi, non è mai stata semplice. Negli ultimi mesi si è fatta più distante, carica di ambiguità e disillusione, ma non era del tutto conclusa. È in quel clima teso e incerto che Dorothy scopre di essere incinta.
La notizia della gravidanza la scuote profondamente. Non è una ragazza alle prime armi, né una star protetta dal sistema. Sa bene cosa comporterebbe avere un figlio da un uomo bianco, sposato, in un momento in cui l’America è ancora ostile perfino all’idea di una coppia interrazziale sullo schermo. Per un attimo, spera che la gravidanza possa cambiare il corso delle cose, che Otto faccia un passo avanti. Ma quel passo non arriva. Preminger non lascia la moglie, non offre alcuna prospettiva, e soprattutto non si espone. Per lui, tutto deve restare nel privato. Per Dorothy, invece, è la fine di un’illusione. La scelta che si trova davanti è devastante, anche perché in quel bambino intravede un’occasione di riscatto intimo, la possibilità di vivere finalmente una maternità consapevole, piena, che con Lynn non aveva mai potuto attraversare davvero. Ma non c’è spazio per questo sogno.
L’aborto, per quanto doloroso, diventa inevitabile. È il suo manager Earl Mills a occuparsi di ogni dettaglio, con la massima discrezione. L’intervento avviene in una clinica di Beverly Hills. Nei giorni successivi, Dorothy si chiude nel suo appartamento, senza ricevere nessuno, immersa in un silenzio che pesa più delle parole. Non parla, non lavora, non si mostra. È un passaggio invisibile ma cruciale: da quel momento in poi, qualcosa dentro di lei comincia a incrinarsi in modo irreparabile.
La regia di Porgy and Bess è affidata a Rouben Mamoulian, che però dopo poco viene licenziato. Il timone passa proprio a Otto Preminger. Per Dorothy, il ritorno sotto la direzione dell’uomo con cui ha avuto una lunga relazione – ormai finita – è emotivamente destabilizzante. Preminger non le risparmia nulla. La tratta con durezza, la mette sotto pressione, e lei spesso scoppia in lacrime sul set. Non riesce a difendersi, non trova alleati. Sidney Poitier, che pure recita accanto a lei, racconterà più tardi che Dorothy sembrava una preda smarrita.
A metà delle riprese, un incendio divampa negli studi e devasta completamente i set: costumi, scenografie, oggetti di scena, tutto va in fumo. La produzione si ferma per settimane. Goldwyn raduna il cast e giura che il film si farà comunque. Le riprese riprendono, ma l’atmosfera sul set si fa ancora più tesa.
Dorothy interpreta una Bess elegante e complessa. Per darle movimento, grazia e credibilità, si affida all’istruttore svizzero Walter Saxer, lo stesso che aveva lavorato con Jennifer Jones. Ogni mattina, alle sei, si allena con esercizi di respirazione, bastoni, anelli, posture da cigno. Non vuole interpretare una prostituta da melodramma, ma una donna ferita che cerca una nuova possibilità.
A peggiorare tutto, c’è la censura del codice Hays. Il legame tra Porgy e Bess resta sottinteso, asciugato da ogni passione. Nessun bacio, nessuna dichiarazione d’amore. Solo ombre. Solo distanze. Dorothy avverte tutta la frustrazione di una donna che, ancora una volta, può essere desiderata, ma non veramente amata — almeno non sullo schermo.
L'ennesimo affronto arriva quando Dorothy scopre che, come era già accaduto per Carmen Jones, anche qui la sua voce nelle parti cantate del film verrà doppiata. Tuttavia c'è una scena molto toccante in cui finzione e realtà si uniscono. Bess culla il figlio di Clara, rimasto orfano dopo la tempesta, cantandogli la ninna nanna Summertime. E c’è una foto rubata sul set a renderla ancora più vera: Dorothy che tiene in braccio il bambino, e accanto a lei Otto Preminger. È come se il set, inconsapevolmente, avesse messo in scena la maternità che la vita le stava negando.
Quando il film si chiude, Dorothy è esausta. Il ruolo che avrebbe dovuto consacrarla le ha lasciato solo cicatrici. Quel set è diventato il teatro di tutte le sue fragilità: la fine della relazione con Preminger, l’aborto, la durezza della regia, l’incendio, l’isolamento. Porgy and Bess esce nel 1959.
Il film debutta ufficialmente il 24 giugno 1959 al Rivoli Theatre di New York. Dorothy riceve una nomination ai Golden Globes, ma il film divide la
critica. La comunità nera lo giudica freddamente: troppo ripulito,
troppo filtrato, troppo bianco nello sguardo. Negli anni successivi, gli eredi di Gershwin ritireranno i diritti, impedendone la distribuzione e ogni possibilità di restauro o conservazione. Una delle produzioni più ambiziose del cinema afroamericano finisce così quasi cancellata dalla memoria collettiva.
Il secondo sì
«C’è chi si uccide con l’alcol, chi con un’overdose, chi con una pistola; qualcuno si getta sotto un treno o un’auto. Io mi sono gettata fra le braccia di un altro uomo bianco.»
Così Dorothy avrebbe descritto, anni dopo, il suo matrimonio con Jack Denison. Una frase che suona come una triste profezia. Non un gesto impulsivo, ma un lento e inconsapevole precipitare.
È una sera calda a Las Vegas, e Dorothy è nel pieno della sua esibizione al Riviera Hotel. Jack Denison, maître d’ elegante dai capelli d’argento, la osserva da dietro le quinte. Ogni sera le fa recapitare un mazzo di fiori bianchi in camerino. Dorothy, inizialmente indifferente, finisce col cedere alla sua insistenza. Poco a poco, Jack entra nella sua vita. Non è famoso, non fa parte del mondo del cinema, e forse è proprio questo che la rassicura. Dopo anni accanto a uomini egocentrici e carichi di aspettative, un volto nuovo e apparentemente privo di ambizioni artistiche sembra offrirle pace.
Si sposano a Los Angeles il 23 giugno 1959, nella cattedrale ortodossa di St. Sophia. Per il suo matrimonio Dorothy indossa un abito bianco di mousseline de soie e pizzo chantilly, disegnato a Londra. La cerimonia è sobria, elegante, lontana dai riflettori. Ma chi la conosce bene nota che qualcosa non va. Dorothy appare affaticata, distaccata, quasi assente: è sotto sedativi da ore.
La luna di miele si svolge al Fairmont Hotel di San Francisco. Ed è lì, nella suite nuziale, che la promessa d’amore comincia già a incrinarsi. Jack, visibilmente agitato, le confessa che il suo ristorante, il Plymouth House, è sull’orlo del fallimento. Le chiede aiuto finanziario. Poi, nel cuore della notte, sopraffatto dal panico, si avvicina alla finestra e minaccia di buttarsi giù. Dorothy lo guarda, paralizzata. Non è certo così che immaginava la sua prima notte di nozze.
I segnali erano già tutti lì. Ma quella scena segna l’inizio di una discesa. Jack si rivela impulsivo, instabile, e soprattutto pericolosamente impreparato alla vita che Dorothy conduce. È geloso, imprevedibile, pieno di fragilità e — come presto scoprirà — anche di debiti. Pochi giorni dopo il matrimonio, insiste ancora: per salvare il locale servono fondi. Dorothy, mossa da un misto di senso del dovere e illusione romantica, investe 150.000 dollari, coinvolgendo anche Sammy Davis Jr. come socio finanziatore. Ma l’impresa è gestita malissimo e, nel giro di pochi mesi, comincia a colare a picco.
In quei mesi, Dorothy prova comunque a restare attiva. Il produttore teatrale Herb Rogers la cerca con insistenza per un nuovo progetto: una versione dal vivo di West Side Story, in cui le propone di interpretare Anita — lo stesso ruolo con cui Rita Moreno aveva vinto l’Oscar l’anno precedente. Rogers sa che con lei nel cast, lo spettacolo avrebbe visibilità garantita. Dorothy è incerta. Il ruolo è forte, pieno di energia, eppure qualcosa la trattiene. Forse il timore del palcoscenico dal vivo, forse la consapevolezza che il suo corpo — come la sua vita — è stanco. Le trattative si fermano prima ancora di cominciare davvero.
Il 5 agosto 1962, una notizia scuote il mondo: Marilyn Monroe è morta. Dorothy legge i titoli e resta immobile. Non erano amiche, ma avevano condiviso un tempo, un’epoca, un linguaggio comune fatto di sogni e dolori. Entrambe avevano studiato con gli stessi insegnanti, cercato rispetto in un’industria che le voleva solo sensuali, sopportato uomini che promettevano amore e offrivano solo vuoti. "Ma se perfino Marilyn — la bionda perfetta, la favorita dell’America bianca — non è sopravvissuta… cosa resta per me?"
Un pensiero che la accompagna nei giorni successivi, mentre cerca di restare in piedi. Ma il corpo la tradisce. Il 14 agosto debutta comunque al Music Theatre di Highland Park, vicino Chicago, ancora nei panni di Anita. È l’unico nome davvero noto. Dopo poche repliche, mentre si dirige verso il parcheggio, le gambe le cedono. Crolla. È come se il suo corpo volesse dirle quello che lei non vuole ancora ammettere: non ce la fa più.
Jack è sempre più irascibile, e le sue esplosioni di rabbia si fanno via via più violente. Secondo i documenti depositati in tribunale, Dorothy subisce veri e propri episodi di aggressione. In una dichiarazione giurata, racconta urla, oggetti lanciati, piatti infranti. Una sera, in preda alla furia, Jack distrugge la preziosa porcellana Wedgewood e i cristalli irlandesi. Inizia anche a venderle di nascosto i gioielli, lasciandole in cambio solo i biglietti del banco dei pegni.
Nel novembre del 1962, Dorothy si rivolge al suo avvocato per chiedere il divorzio. Lo accusa formalmente di “estrema crudeltà”, allegando testimonianze e fotografie. La Corte Superiore di Los Angeles emette un ordine di allontanamento: Jack deve lasciare la casa entro tre giorni. Ma lui, per tutta risposta, devasta l’abitazione. Scardina mobili, taglia lenzuola, non potendo danneggiare l'argenteria decide di rovinarle tutti i servizi portando via pezzi essenziali. Quando finalmente se ne va, il matrimonio è finito da tempo. Tre anni, quattro mesi e un giorno: tanto è durato il loro legame legale. Ma le ferite che lascia dureranno molto più a lungo.
Una vita in frantumi
La primavera è la stagione delle rinascite. Ma per Dorothy Dandridge, nel 1963, segna l’inizio della fine. È infatti nel mese di marzo scopre di essere sul lastrico. Ha perso quasi ogni centesimo in una disastrosa operazione petrolifera in Arizona, convinta a investire da un consulente finanziario di nome Rual Steddiman. Le aveva promesso guadagni sicuri, assicurandole che anche nomi come Doris Day e Kirk Douglas erano coinvolti. Dorothy firma una procura che gli consente di gestire il suo denaro e versa tutto il suo capitale liquido: incassi dai nightclub, compensi cinematografici, risparmi personali. Ma i pozzi non rendono nulla, e l’unico risultato è il fallimento. Presenta istanza di bancarotta per 100.000 dollari.
Non ha neanche il tempo di reagire, che arriva un secondo colpo. Dopo dieci anni in cui ha sempre pagato puntualmente l’assistenza alla figlia disabile, si trova in arretrato di due mesi. Helen Calhoun, che da una decade si occupa di Lynn, la considera ormai inadempiente. Senza preavviso, le riporta la ragazza.
Diciannove anni, fragile, completamente dipendente. Lynn si siede al pianoforte, il vecchio Mason & Hamlin, e inizia a suonare in loop la scala musicale: do-re-mi-fa-sol-la-si-do. Sempre la stessa sequenza, per ore. Ogni tanto si gira, guarda la madre con un sorriso e chiede un applauso. Dorothy glielo dà. Ma dentro è svuotata.
Alcuni amici iniziano a dirle quello che lei non vuole sentire: che non è più in grado di occuparsi di Lynn. Che la ragazza, in alcuni momenti, potrebbe diventare pericolosa anche per lei. E proprio in quei giorni, arriva anche la terza mazzata: deve lasciare la sua casa.
Il mutuo è in forte arretrato, la società creditizia ha dato via libera al pignoramento. Deve abbandonare la villa sulle colline di Hollywood, un’abitazione da 65.000 dollari, elegante, luminosa, con vista su tutta Los Angeles. Di notte guardava le luci della città e aveva l’illusione di possederla. La rivista Ebony che nel giugno del 1962 aveva messo la sua casa sulla copertina, appena un anno dopo ne dedicherò un'altra a Dorothy, decisamente più impietosa: Le Star che finiscono in bancarotta.
Quando arrivano i camion della Bekins Van & Storage Company, Dorothy è circondata da uomini che smontano, impacchettano, portano via. Tutto ciò che le rimane sono appena cinquemila dollari sul conto. Eppure, anche in quel momento, non esita a uscire per comprare hamburger e patatine da offrire agli operai che stanno impacchettando la sua vita.
Vaga per la casa, cercando di imprimersi nella memoria ogni dettaglio. Il salotto con il tappeto beige, le pareti color crema, il lungo divano marrone, i vasi colmi dei fiori che lei stessa coltivava, le librerie, i candelabri, il patio dove faceva colazione con Jack. Le stanze sono ancora piene, ma già sembrano vuote.
I suoi due cani, Cissy — una meticcia di piccola taglia — e Duke, un husky, le girano attorno senza capire. La seguono fedelmente da una stanza all’altra. Lei li accarezza, li rassicura. Sa che anche da loro dovrà separarsi: nell’appartamento in cui si trasferirà non potrà tenerli. Un altro strappo, un’altra perdita.
Quando si gira verso Lynn, la trova ancora lì, seduta al pianoforte. Ripete le stesse note. A un certo punto si volta e chiede un applauso. Dorothy applaude. Anche i traslocatori lo fanno. È una scena surreale, commovente, devastante.
Nei giorni successivi, Dorothy prende una decisione durissima: affidare Lynn a una struttura pubblica. Viene fissata un’udienza, e dopo l’esame dei rapporti medici e delle condizioni familiari, il giudice dichiara Lynn “pericolosa per sé e per gli altri” – requisito necessario per il ricovero. La ragazza viene internata al Camarillo State Hospital, nella contea di Ventura. Dorothy ne esce a pezzi.
Appena un mese dopo, a maggio, un’occasione speciale le permette di sollevare lo sguardo dal proprio dolore. È una causa in cui ha sempre creduto: la lotta per i diritti civili. Sul palco del Wrigley Field di Los Angeles, davanti a 50.000 persone, prende la parola accanto a figure come Dick Gregory, Sammy Davis Jr., Paul Newman e Rita Moreno, per sostenere Martin Luther King Jr. Fin dall’infanzia, Dorothy ha pagato il prezzo del colore della sua pelle — nei ruoli negati, nei contratti revocati, negli sguardi che l’hanno ridotta a una fantasia esotica. Ma quel giorno, sente di poter trasformare il suo dolore in qualcosa di utile. Cinque anni più tardi, nell’aprile del 1968, King sarà assassinato. Ma in quel maggio del 1963, il suo messaggio vibra ancora forte, e Dorothy è lì, presente, a farlo suo.
A luglio, si presenta un’altra occasione per parlare a cuore aperto: ospite del “Mike Douglas Show”, accetta di affrontare pubblicamente il tema della disabilità e racconta, per la prima e unica volta in televisione, la storia di sua figlia Lynn. In studio, oltre a lei, c’è anche il dottor Gunnar Dybwad, consulente del presidente Kennedy per i diritti delle persone con disabilità intellettiva. Parlano della sorella del presidente, Rosemary Kennedy, anch’essa internata.
Dorothy ascolta. Poi prende la parola. Con voce pacata, racconta. «So che molti pensano che la vita degli artisti sia fatta solo di lustrini e luci,» dice. «Ma siamo esseri umani anche noi. Quello che succede a voi, succede anche a noi.»
È la prima e unica volta in cui parla apertamente della figlia. Racconta di quando ha scoperto i danni cerebrali. Racconta del senso di impotenza. Dice: «Non sa che sono sua madre. Sa solo che le piaccio. Che le trasmetto qualcosa di buono. Ma non sa chi sono davvero.»
Il pubblico in studio è commosso. A casa, milioni di spettatori seguono in silenzio.
La rivista Jet definirà quell’apparizione “uno dei momenti più alti della televisione americana”. E stavolta, non era una performance. Era solo la verità.
Per cercare di rimettersi in piedi, Dorothy si affida a ogni possibilità. Accetta di girare una pubblicità per un marchio alimentare — Rice-A-Roni — dove sorride in posa e dice che “qualcosa di bello è successo al riso.” Ma il volto che un tempo illuminava le copertine ora appare stanco, tirato, distante.
Tutto e nulla
Nell’autunno del 1964, Dorothy interpreta Julie LaVerne in una produzione di Show Boat al Hyatt Music Theatre di Burlingame, in California. È il suo ultimo ruolo teatrale. Julie è una donna di sangue misto, cacciata dal teatro perché ritenuta “troppo nera” per il pubblico. Un personaggio tragico, simbolico. Dorothy lo interpreta con la consueta intensità, ma dietro le quinte il peso si fa sentire. La sua salute è fragile, le energie si consumano in fretta. È un’apparizione breve, quasi evanescente, come se sapesse che la fine era vicina.
In cerca di una nuova possibilità, firma un contratto con l’editore Bernard Geis per un’autobiografia senza filtri. A scriverla con lei è il giornalista Earl Conrad. Per la prima volta, Dorothy accetta di raccontare davvero tutto: la sua relazione con Otto Preminger, i successi, le cadute, le ferite ancora aperte. La voce che esce da quelle pagine è intensa, amara, viva. Dorothy sa che è la sua ultima occasione per raccontarsi, prima che siano gli altri a farlo al posto suo.
Ad agosto vola ad Albuquerque per un nuovo ingaggio, ma un incendio nel locale costringe ad annullare le serate. È l’ennesima battuta d’arresto. Eppure, un barlume di speranza sembra riaccendersi. Il suo agente le procura una nuova opportunità: un contratto per esibirsi al Basin Street East di New York — un tempo La Vie en Rose — il club che lei stessa aveva salvato anni prima con le sue performance da tutto esaurito. L’inizio è fissato per il 10 settembre. Dorothy spera che sia lui a salvarla, questa volta.
Nel frattempo, si presenta un’occasione da non perdere: in Messico c’è un produttore interessato a incontrarla. Dorothy ha bisogno di quell’incontro, ha bisogno di credere che ci sia ancora una possibilità. Il 3 settembre, mentre si allena nella palestra vicino casa, scende una rampa di scale, mette male un piede, e sente una fitta acuta alla caviglia destra. Dolore improvviso, lancinante. Rientra a casa zoppicando, sperando che passi. Ha ancora mille preparativi da fare per il viaggio: decide di stringere i denti e andare avanti.
Ma quella notte il dolore non si placa. L’indomani, come previsto, parte comunque per Oaxaca insieme al suo manager Earl Mills. Lì, con la consueta eleganza e forza di volontà, riesce a convincere il produttore Raúl Fernández a offrirle un contratto per due film. È una vera opportunità, concreta, forse l’ultima.
Tornata a Los Angeles il 7 settembre, viene accompagnata subito all’ospedale, dove il suo medico di fiducia e uno specialista ortopedico la sottopongono a una nuova radiografia: conferma di una microfrattura. Le fissano un appuntamento per l’indomani, così da poterle applicare il gesso. Dorothy si preoccupa: e ora? Riuscirà a rispettare l’impegno al Basin Street East? Potrà ancora muoversi, danzare?
Il medico cerca di rassicurarla. «Potrà ballare sui suoi piedi ventiquattr’ore dopo che avrà il gesso,» le dice. Ma l’ansia ormai è lì, ad appesantirle anche il respiro. Non è solo il dolore fisico. È la stanchezza. L’insonnia. La dipendenza dai farmaci — gli stessi che da tempo la aiutano a salire sul palco, a reggere la vita.
La mattina di mercoledì 8 settembre, poco dopo le sette, Dorothy chiama il suo manager, Earl Mills. La voce è fioca, stanca. «Sono stata sveglia tutta la notte,» dice. «Preparavo le valigie per New York, parlavo al telefono. Non ce la faccio ad andare in ospedale così presto. Puoi spostare l’appuntamento per il gesso?» Mills la tranquillizza: lo rimanda alle dieci.
Ma più tardi, quando prova a richiamarla, non ottiene risposta. A mezzogiorno si presenta al suo appartamento a West Hollywood. Bussa. Nessuno apre. La porta è chiusa con la catena. Dopo alcuni minuti d’attesa, la forza.
Dorothy è a terra, riversa sul pavimento. Nuda, tranne per un foulard blu tra i capelli. Accanto a lei, i flaconi dei farmaci. Il corpo è freddo. Mills chiama subito un medico, poi la polizia.
Non c’è più nulla da fare.
Il giorno prima, Dorothy Kilgallen — giornalista di cronaca giudiziaria, esperta di spettacolo e volto noto della televisione — aveva firmato un articolo in cui annunciava il ritorno imminente di Dorothy Dandridge sul grande schermo. Letto oggi, risuona come una triste profezia non compiuta, pensando a quello che sarebbe accaduto di lì a poche ore. E il filo del destino si tende ancora: esattamente due mesi dopo, anche Dorothy Kilgallen morirà improvvisamente, in circostanze mai del tutto chiarite.
La prima ipotesi sulla causa del decesso di Dorothy Dandridge parla di un’embolia, provocata — si disse — dalla frattura al piede. Una particella di midollo osseo avrebbe raggiunto cuore e polmoni. Ma poche settimane dopo, una nuova perizia dell’Armed Forces Institute of Pathology rivela un’altra verità: Dorothy è morta per un’overdose acuta di Tofranil. La medicina legale non stabilirà mai se sia stato suicidio o incidente. Mills è convinto della seconda ipotesi: «Era felice per il contratto messicano. Era pronta a ripartire.»
Il giorno del funerale, una bara in legno lucido attraversa in silenzio la navata del Forest Lawn di Glendale. Nessuna messa, nessun discorso, nessuna celebrazione. Solo pochi amici, pochi fiori, e un silenzio più eloquente di mille parole. Otto Preminger non si fa vedere. Jack Denison nemmeno. Tra i pochi presenti, Peter Lawford. Suo padre, Cyril Dandridge, arriva in ritardo: Ruby gli ha dato di proposito la data sbagliata. Un ultimo, silenzioso dispetto.
Dorothy se n’è andata così. In silenzio. Nessuna standing ovation, nessun applauso. Solo le luci fioche di un crepuscolo qualunque sopra Los Angeles, la città che l’aveva accolta e ferita, amata e respinta.
Ma una donna come lei non svanisce davvero. Rimane nei fotogrammi, nelle note spezzate di una canzone, nel gesto elegante con cui alzava le braccia sotto il riflettore. Rimane soprattutto nelle crepe che ha aperto nel muro, per tutte quelle che sarebbero venute dopo.
Nella sua autobiografia, scriveva:
«Avevo tutto e non avevo nulla. Quante persone vagano nella stratosfera di una fama effimera, con tutto… e niente? Le tragedie, i suicidi, le vite sconvolte che emergono costantemente dal mondo delle celebrità e del jet set suggeriscono che si tratti di una vera e propria legione. Mentirei se dicessi che non c’è stato un cambiamento nella mia natura. Dorothy Dandridge non è rimasta la stessa.»
E forse è proprio in quel cambiamento che ha trovato la sua verità. Fragile, luminosa, irripetibile. Come una diva che brucia troppo in fretta… ma che continua a far luce.
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