SHAKERATO NON MESCOLATO - I cocktail dei film classici pt. 7

venerdì, maggio 30, 2025

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Lo so, lo so: sono astemia. Eppure, eccomi qui a scrivere (ancora!) di cocktail. Ma lasciatemi spiegare. Non è per il gusto – che non ho mai provato – ma per la storia che ogni drink porta con sé. C'è qualcosa di irresistibile nell'idea che un semplice bicchiere possa raccontare epoche, mode, e persino amori cinematografici (in fondo alla pagina vi metto i link ai precedenti articoli).

E poi, diciamolo: adoro fare la detective. Mentre molti si accontentano di ripetere che in Le nevi del Kilimangiaro si beve un certo cocktail, io non mi fido. Recupero il film, lo guardo attentamente... e sorpresa! Quel cocktail non c'è. Ma non mi arrendo. Scopro che quel drink è menzionato in un racconto di Hemingway. Mi chiedo: ne avranno fatto un film? La risposta è sì, anche se poco noto. Lo cerco, lo trovo, lo guardo... e voilà! Il cocktail non solo appare, ma viene nominato ben due volte.

Questo è il mio metodo: paziente, a volte un po' ossessivo, ma sempre gratificante. Perché amo l'accuratezza e voglio condividere solo ciò che ho verificato personalmente. Quindi, se siete pronti a scoprire i cocktail più iconici del cinema classico, serviti con una spruzzata di storia e una fetta di curiosità, siete nel posto giusto. Cin cin!

1) Horse’s neck


La storia:

Lo avreste mai immaginato che uno dei cocktail più longevi della miscelazione moderna sia nato… senz’alcol? Già, l’Horse’s Neck — letteralmente “collo di cavallo” — ha fatto il suo debutto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento come semplice bevanda rinfrescante: ginger ale, ghiaccio e una spirale di scorza di limone. Tutto qui. Eppure, anche in questa versione soft, il drink aveva già un suo carattere distintivo, tanto da comparire per la prima volta su carta nel Fort Wayne Journal del 1895. Lì si racconta di un bicchiere lungo e sottile, riempito di ghiaccio tritato, ginger ale ghiacciato e una decorazione inconfondibile: una lunga spirale di limone che correva lungo il bordo del bicchiere. (Vi spiegherò meglio da dove arriva questo nome nell’apposita sezione, perché sì, è interessante anche quello!)
Ma che cos’era il ginger ale in quel periodo? Dobbiamo fare un salto nella metà del XIX secolo, quando questa bevanda gassata, dal sapore speziato e pungente, cominciava a diffondersi nelle farmacie americane come tonico digestivo. Le prime versioni erano artigianali, fermentate, più simili alla ginger beer, ma già verso la fine del secolo si iniziò a produrre una versione più chiara, dolce e delicata: la ginger ale. E se vi state chiedendo la differenza tra le due, eccola in breve: la ginger beer è fermentata, più intensa e speziata; la ginger ale è gassata artificialmente, più dolce e leggera. Proprio per questo, è lei la protagonista dell’Horse’s Neck, perfetta per esaltare la freschezza del drink.

A cavallo tra gli anni 1890 e 1910, l’Horse’s Neck evolve. Entra in scena il brandy – o, secondo alcune fonti, anche il bourbon – che trasforma il drink in qualcosa di più audace. Un twist alcolico che non ne compromette la freschezza, anzi: la esalta. È in questo periodo che nasce il soprannome “Horse’s Neck with a Kick”, dove quel “kick” – letteralmente “calcio” – indica proprio la spinta in più data dalla componente alcolica.


Ma perché il brandy, e non un altro distillato? La risposta potrebbe trovarsi nel gusto dell’epoca, ancora profondamente influenzato dalla tradizione europea: il brandy, e in particolare il cognac, erano simbolo di raffinatezza e status. L’uso dell’angostura, invece, si inserisce più tardi ma con naturalezza: qualche goccia di bitter aiuta a equilibrare la dolcezza del ginger ale e a conferire complessità e profondità aromatica al drink. È quel tocco in più che fa la differenza.
Tra chi ne apprezzava la delicatezza, anche il Presidente Franklin D. Roosevelt, che la sorseggiava nella sua versione analcolica durante gli eventi pubblici. “Horse’s neck, per favore”, diceva, mentre attorno a lui scorrevano fiumi di cocktail ben più forti. Ma lui sapeva come restare sobrio… con stile.

E infine, un ultimo salto negli anni ‘60, dove l’Horse’s Neck diventa il drink simbolo degli ufficiali della Marina britannica, nei saloni degli Officer’s Ward Room. Sostituì il Pink Gin, mantenendo però quell’eleganza sobria e decisa che ne aveva fatto un classico.

Il nome:

È impossibile parlare di questo cocktail senza partire dalla sua decorazione. Quel nastro giallo che si avvolge nel bicchiere come una spirale – lungo, affusolato e sinuoso – ha conquistato i barman del tempo al punto da diventare non solo la firma estetica del drink, ma anche la sua identità. Horse’s Neck, cioè “collo di cavallo”, fa proprio riferimento a questa scorza di limone che, ricordando le curve eleganti del collo dell’animale, ha ispirato il nome con cui il cocktail è entrato nella storia.
Ma c’è anche chi ipotizza un’altra origine: secondo un articolo pubblicato nel 1906 dal The Evening Times, la bevanda sarebbe nata nei Bohemian Club di Londra e prende il nome non dalla scorza, ma dal bicchiere stesso, alto e sottile, simile – per alcuni – proprio al collo di un cavallo. Una suggestione affascinante, che aggiunge un tocco aristocratico al drink.
E quando, all’inizio del Novecento, si è cominciato ad aggiungere brandy o whisky alla versione analcolica, è comparso anche un nuovo soprannome: Horse’s Neck with a Kick. Letteralmente: “collo di cavallo con un calcio”. Quel “kick” è il colpo inaspettato dell’alcol che, improvvisamente, cambia le regole del gioco. 

La ricetta:
4 cl di cognac
12 cl di ginger ale
Qualche goccia di Angostura bitters (facoltativo)

Come viene servito:

L’Horse’s Neck si serve rigorosamente in un bicchiere highball, colmo di ghiaccio, e decorata con una lunga spirale di scorza di limone. Questa non è una guarnizione qualsiasi: è parte integrante del drink. La spirale deve partire dalla cima del limone e scendere in un’unica striscia continua, abbracciando l’interno del bicchiere come un’elica elegante.

In quale film lo abbiamo visto:

Il Capitano odia il mare del 1934 con Alison Skipworth e Fred Keating

In una scena a bordo del transatlantico, la signora Spalding esprime il bruciante desiderio di un Horse’s Neck. Quando il personaggio di Fred Keating tenta di dissuaderla, lei risponde con decisione: “Sono un lupo solitario ed è la mia notte per ululare.” Poco dopo, si rivolge al cameriere e dice: “...e assicurati che ci sia un bel cavallo dentro, Charley.” 


Il cameriere va dal barista, che piuttosto infastidito gli indica di afferrare un limone e gli dice come deve tagliarlo: “...gira, e gira, e gira, per quel maledetto Horse’s Neck.” 


Cappello a cilindro del 1935 con Fred Astaire e Ginger Rogers

Durante una scena ambientata in un albergo veneziano, Madge (Helen Broderick) tenta di ordinare un drink in italiano per l’amica Dale. 


Dopo qualche esitazione e un tentativo di traduzione fallito, si arrende con stile e dice: “Horse’s Neck.” La battuta, pronunciata con ironia e classe, strappa un sorriso e offre un piccolo assaggio dell’eleganza spensierata del film. 

Fuoco sullo Yangtze del 1957 con Richard Todd e William Hartnell

Il tenente Weston, seduto in compagnia dei suoi colleghi ufficiali, si concede una pausa per spiegare nel dettaglio la ricetta dell’Horse’s Neck. La scena si svolge nella Ward Room, lo spazio riservato agli ufficiali della Marina britannica, e conferma quanto fosse popolare questo cocktail tra i ranghi alti, soprattutto come alternativa al più noto Pink Gin. Weston ne illustra ingredienti e preparazione con cura, trasformando il momento in un vero e proprio omaggio alla tradizione marinara.

2) Planter’s Punch

La Storia:

Come spesso accade quando si cerca di ricostruire le origini di un cocktail, anche nel caso del Planter’s Punch ci troviamo di fronte a un mosaico di aneddoti, leggende e frammenti storici. Eppure, alcune tracce ci offrono un percorso affascinante da seguire.
Il primo riferimento scritto di questo drink compare nel 1878 sulle pagine di Fun, una rivista satirica londinese, sotto forma di una filastrocca in rima intitolata “Planter’s Punch! A West Indian Recipe”. Il testo descrive con tono giocoso un mix di succo di limone, zucchero, rum e acqua fredda, evidenziando quanto questo cocktail fosse già associato alle isole caraibiche: “Una parte di succo di limone, due di zucchero, tre di rum, quattro d’acqua… così si beve in Giamaica.”

Ma alcune ipotesi portano ancora più indietro nel tempo. Secondo un’antica leggenda, il Planter’s Punch sarebbe nato al Planter’s Hotel di St. Louis, nel Missouri, intorno alla metà dell’Ottocento. Un dettaglio curioso sostiene che possa essere stato creato addirittura da Jerry Thomas, il “professore” della miscelazione americana, che lavorò proprio in quell’hotel prima di pubblicare la sua celebre guida. Tuttavia, non esistono documenti ufficiali che confermino questa versione.
Altri ancora collocano la nascita del drink nell’omonimo Planters Hotel di Charleston, ma anche in questo caso l’associazione sembra derivare solo dal nome.
Un’altra teoria, forse la più suggestiva, ci racconta che questo cocktail veniva preparato nelle piantagioni caraibiche per dissetare gli schiavi durante le giornate di raccolta della canna da zucchero, sotto il sole cocente. In effetti, già nel 1672, il testo The American Physician descrive un “rum-bullion” prodotto a partire dalla distillazione dei residui della melassa, un liquido forte e ruvido che veniva consumato dai piantatori, anche mescolato in forma di punch.
Nel 1699, un altro resoconto racconta di come il succo di lime zuccherato, usato per il punch, fosse esportato dalle piantagioni dell’India Occidentale verso l’Inghilterra, a testimonianza della diffusione di questa abitudine.
Del resto, la parola “punch” deriva dal termine sanscrito “panch”, che significa cinque: tanti quanti sono gli ingredienti base di questa bevanda — spirito, acqua, zucchero, limone e spezie. E non a caso, una filastrocca popolare recitava:
 "One of sour, two of sweet, three of strong, four of weak", ovvero: una parte di acido (lime), due di dolce (sciroppo), tre di forte (rum), quattro di leggero (acqua o ghiaccio).
A consolidarne la fama fu certamente Fred L. Myers, fondatore della Myers's Rum in Giamaica, che nel 1879 celebrò l’apertura della sua distilleria con questo cocktail — o almeno così vuole la leggenda.
Nel corso dell’Ottocento e nei primi del Novecento, il Planter’s Punch ha continuato a evolversi, trovando in ogni isola la sua variazione. Come scrive Trader Vic nella sua Bartender’s Guide del 1972:
“Ogni isola ha un proprio rum e ogni isola ha un proprio Planter’s Punch costruito attorno a quel rum.”

E proprio in questo spirito di continua reinvenzione, già negli anni ’30, anche un certo Donn Beach — sì, lo stesso Don the Beachcomber di cui vi ho parlato raccontandovi la storia del Polynesian Pearl Diver — propose nei suoi tiki bar una personale variante del Planter’s Punch, arricchendolo con spezie esotiche e succhi tropicali. Ho intenzione di raccontarvi presto la sua storia e come si è intrecciata a doppio filo con Hollywood… quindi restate sintonizzati!

Il nome:

Come dicevo prima, il nome Planter’s Punch sembra evocare fin da subito le piantagioni caraibiche, e il planter, il piantatore, figura ricorrente nell'immaginario coloniale. È probabile che il drink fosse associato proprio a quell’ambiente: un mix rinfrescante pensato per affrontare il caldo delle isole, o forse per concedersi una pausa al riparo dalla canna da zucchero.
“Punch” invece è un termine che arriva da molto lontano, dall’India, e significa semplicemente “cinque”: cinque come gli ingredienti che tradizionalmente compongono questa tipologia di drink — alcol, zucchero, succo di agrumi, acqua e spezie. Una struttura semplice, che ha dato vita a innumerevoli varianti nel tempo.

La Ricetta:
4,5 cl di rum giamaicano
1,5 cl di succo di lime fresco
3 cl di succo di zucchero di canna

Come viene servito:

Il Planter’s Punch si prepara versando direttamente tutti gli ingredienti in un tumbler piccolo oppure in un tradizionale bicchiere di terracotta. Si può aggiungere ghiaccio a cubetti o tritato a seconda del gusto, oppure una leggera diluizione con acqua o succo fresco per bilanciare l’intensità alcolica del rum. Il drink si completa con una scorza d’arancia come guarnizione, che ne esalta la freschezza tropicale e aggiunge un tocco aromatico agrumato.


In quale film lo abbiamo visto:
Agguato ai tropici (Across the Pacific) del 1942 con Humphrey Bogart e Mary Astor

In questo thriller di spionaggio diretto da John Huston, ambientato alla vigilia dell'ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, il Planter’s Punch fa una comparsa significativa. Il protagonista Rick Leland (Humphrey Bogart), un ex ufficiale dell'esercito americano radiato per insubordinazione, si imbarca su una nave giapponese diretta verso il Pacifico. A bordo incontra la misteriosa Alberta Marlow (Mary Astor), con la quale intreccia un rapporto ambiguo. In una scena ambientata in un bar panamense, Rick ordina un Planter’s Punch, sottolineando il suo desiderio di lasciarsi alle spalle il passato e abbracciare una nuova identità. 

 Il cocktail, con il suo mix esotico e avvolgente, diventa così simbolo di evasione e di un mondo in bilico tra guerra e passione.


3) Gimlet

La storia:

Per raccontare la storia di questo cocktail dobbiamo salpare a bordo di una nave britannica del XIX secolo, quando il vero pericolo non arrivava dai cannoni nemici ma da una malattia silenziosa e devastante: lo scorbuto. Più di qualsiasi battaglia, è stato proprio questo disturbo a mietere vittime tra i marinai, causato da una grave carenza di vitamina C.

Già nel 1747 il medico scozzese James Lind aveva scoperto che agrumi come limoni e lime potevano prevenirlo, ma solo nel 1867 la Marina Mercantile di Sua Maestà ha preso provvedimenti ufficiali. In quell’anno è stato introdotto l’obbligo di fornire a bordo succo di lime o limone, ma con una condizione ben precisa: doveva essere miscelato ad almeno il 15% di alcol, per garantirne la conservazione durante i lunghi viaggi. (Ve ne avevo parlato anche quando vi ho raccontato la storia del Daiquiri…)
Proprio in quell’anno, un certo Lauchlin Rose, commerciante scozzese con una solida esperienza nell’ambiente navale, ha brevettato un metodo rivoluzionario per conservare il succo di lime senza usare alcol. Nasce così il Rose’s Lime Juice Cordial, un ingrediente che avrebbe fatto il giro del mondo – e dei bicchieri – grazie alla sua capacità di restare fresco e stabile, anche in condizioni proibitive. Il termine cordiale indicava inizialmente una preparazione tonificante e medicinale, spesso destinata a "ristorare il cuore"; col tempo ha finito per indicare anche quei liquori da gustare in piccole dosi, capaci di ritemprare corpo e spirito.

Sulle navi, il rum era il compagno quotidiano dei marinai semplici, che lo bevevano allungato con acqua calda e succo di lime in quella mistura nota come grog, creata per renderlo più bevibile e aiutare nella prevenzione dello scorbuto. Gli ufficiali, però, avevano a disposizione il gin. E se per gli uni nacque il grog, per gli altri la strada portava dritta al Gimlet. Bastava mescolare gin e succo di lime, ed ecco pronta una bevanda semplice, efficace, e con quel giusto equilibrio tra acidità e alcol che aiutava ad affrontare le lunghe giornate in mare aperto.
La prima versione scritta di un cocktail simile al Gimlet compare nel 1917, nel ricettario The Ideal Bartender di Tom Bullock, anche se con un nome diverso. Ma sarà Harry Craddock, nel celebre Savoy Cocktail Book, a fissare due versioni con lo stesso nome: una con succo di limone e soda (vicina al Gin Rickey), e l’altra con gin e Rose’s Lime Juice in parti uguali, quella che oggi riconosciamo come la formula classica. Una combinazione nata per necessità, ma destinata a diventare leggenda.

Il nome:

Come spesso accade con i cocktail nati in ambito navale, anche il nome del Gimlet ha origini incerte e due teorie principali che si contendono la paternità. La prima attribuisce l’invenzione al chirurgo di bordo della Royal Navy Sir Thomas D. Gimlette, che avrebbe cominciato a mescolare gin e succo di lime per rendere più piacevole l’assunzione della “medicina” agli ufficiali. L’altra teoria è più tecnica e meno romantica: il nome deriverebbe dallo strumento chiamato gimlet, una sorta di cavatappi/trapano utilizzato per aprire le botti di lime juice nelle stive delle navi. In entrambi i casi, il riferimento alla vita in mare è inevitabile — e inequivocabile.

La Ricetta:

6 cl di gin
3 cl di lime cordial 

(oppure, in alternativa: 1,5 cl di succo di lime fresco, 2 cl di sciroppo di zucchero e lime)

Come viene servito:

Il Gimlet si prepara con la tecnica dello shake and strain. Si versano gli ingredienti nel Boston shaker insieme a ghiaccio cristallino e si shakerano energicamente. Il bicchiere da cocktail va raffreddato in anticipo e l’acqua in eccesso eliminata prima di servire. Una volta filtrato con lo strainer, il drink si versa nella coppa e si guarnisce con una fetta o una ruota di lime.


In quale film lo abbiamo visto:

Passione selvaggia (The Macomber Affair) del 1947 con Gregory Peck, Joan Bennett e Robert Preston

Nel cuore dell’Africa coloniale, dove si consuma una delle più celebri storie di tensione e ambiguità tratte da Hemingway, il Gimlet compare in due momenti chiave del film. La prima volta, durante l’incontro iniziale tra Robert Wilson, il cacciatore professionista interpretato da Gregory Peck, e il ricco americano Francis Macomber. I due si conoscono nella hall del Norfolk Hotel di Nairobi e, dopo un breve scambio, Wilson ordina un Gimlet. Macomber, con fare amichevole, si rivolge al barista: “Fanne due”, suggellando così un primo segno di intesa tra i due uomini.


Il cocktail torna più avanti, sotto la tenda del campo dopo una battuta di caccia al leone. Wilson, Macomber e Margot (Joan Bennett), visibilmente provati dall’intensità dell’azione appena vissuta, si ritrovano per un momento di calma. Con un brindisi “al leone”, i tre sollevano i loro bicchieri di Gimlet. È un gesto semplice, ma carico di sottintesi: un tributo a ciò che è accaduto… o forse a ciò che ognuno di loro avrebbe voluto fosse andato diversamente.

4) Crème de Menthe


La Storia:

E ora, per concludere, qualcosa di un po’ diverso. Non un cocktail nel senso classico, ma un liquore che ha saputo conquistarsi un posto tutto suo nella storia del cinema… e del dopocena.
 Preparatevi, perché la storia che sto per raccontarvi è quella di un liquore che ha attraversato secoli di trasformazioni, restando sempre fedele alla sua anima rinfrescante: la Crème de Menthe.
Siamo in Francia, alla fine del Settecento. Nel 1775, il farmacista Jacques-François Demachy pubblica una ricetta per un liquore alla menta, dichiarando di esserne l’inventore. 

Poco dopo, nel 1796, un distillatore di nome François Pons, attivo nella cittadina di Revel, crea un altro celebre liquore alla menta: il Pippermint Get, uno dei primi esempi commerciali di questo genere. È da queste basi che nasceranno i digestivi alla menta come li conosciamo oggi.

Ma la vera svolta arriva nel 1885 ad Angers, nella Valle della Loira, dove il farmacista Émile Giffard decide di mettere la sua scienza al servizio della freschezza. Mentre studia le proprietà digestive della menta piperita, inventa una ricetta semplice ed efficace: alcol neutro, zucchero e foglie di menta. In un’estate particolarmente calda, Giffard la offre ai clienti del Grand Hôtel d’Angers per alleviare l’afa. Il successo è immediato, tanto da convincerlo a lasciare la farmacia per fondare la distilleria Giffard & Cie, che produce ancora oggi la celebre Menthe-Pastille.
La Crème de Menthe, il cui nome richiama la consistenza dolce e vellutata (ma attenzione: è un liquore, non una crema!), è realizzata mediante infusione di menta piperita o menta corsa in alcol neutro. Dopo la filtrazione, viene addolcita con zucchero. Le versioni più comuni sono due: la verde, dal colore brillante ottenuto con pigmenti naturali o artificiali, e la bianca, completamente trasparente ma identica nel gusto. Le due varianti sono spesso intercambiabili, tranne nei casi in cui l’impatto visivo faccia parte della ricetta.
Con il suo profilo aromatico deciso ma gentile, la Crème de Menthe ha trovato il suo posto nel mondo dei cocktail e oltre. È l’anima dolce e rinfrescante del Grasshopper e dello Stinger, ma compare anche in miscele meno note come il Shamrock, il Flying Grasshopper o il Mint Condition. In alcuni ambienti, è ancora servita da sola, ghiacciata, come digestivo o come “correttivo” per caffè e cioccolata calda.
E se pensate che sia solo una reliquia da liquori della nonna, ricredetevi: la Crème de Menthe è sopravvissuta alle mode e ai decenni, mantenendo il suo fascino discreto e la sua versatilità. Ad esempio, sapevate che è il preferito di Hercule Poirot nei romanzi di Agatha Christie? 

 

 Il nome:

“Crème de Menthe”: una denominazione che racchiude eleganza e precisione terminologica. Il termine crème non si riferisce alla presenza di panna, bensì alla consistenza ricca e alla dolcezza marcata del liquore, secondo una convenzione propria della liquoristica francese. Allo stesso modo, menthe identifica senza ambiguità la protagonista botanica della miscela: la menta, pianta dalle innumerevoli virtù, qui esaltata nella sua espressione più aromatica e digestiva. È un nome che ha resistito alle mode, conservando la sua allure da salotto europeo e il suo profilo raffinato.

La Ricetta:

5 cl di Crème de Menthe verde
Ghiaccio tritato finemente o ghiaccio pilé

Come viene servito:

Il Crème de Menthe Frappé viene tradizionalmente servito in un bicchiere flute o in un bicchiere da cocktail tipo California. Il bicchiere viene riempito con ghiaccio tritato finemente, su cui si versa delicatamente la Crème de Menthe verde. Il drink è completato con una foglia di menta fresca come guarnizione, che ne esalta l'aroma e l'estetica.

In quale film lo abbiamo visto:
Lettera a tre mogli del 1949 di Joseph L. Mankiewicz, con Linda Darnell e Jeanne Crain

La Crème de Menthe si ritaglia un piccolo spazio d’onore in questo sofisticato intreccio di relazioni e rimpianti. In una delle storie raccontate, quella di Lora Mae e Porter Hollingsway, i due si trovano in un locale elegante quando il cameriere arriva con i cocktail. “Che bellissima sfumatura di verde smeraldo… come si chiama?” chiede lei, affascinata. 

 “Crema alla menta,” le risponde lui, rassicurandola: “Sa di menta, e non farebbe male nemmeno a un bambino.” Lei sorride e, accettando il bicchiere, dice: “Mi fido di te.”

È un momento che gioca sulla leggerezza e l’intesa, dove il colore vivido del liquore fa da contrappunto al sottile gioco di seduzione tra i due.

Ma questo drink ritorna anche nel finale, stavolta con un sapore amarognolo. Lora Mae, impaziente per il ritardo del marito, propone qualcosa da bere a sua madre: “Vuoi qualcosa da bere?” – “Un po’ di quella roba verde alla menta.” – “Crème de Menthe.” 


Lora Mae  scuote la testa: “Non l’ho mai sopportata. Mai.” La madre invece sorride: “Io l’amo!”
Un semplice sorso non servito che però riporta alla memoria un intero passato, fatto di legami, promesse e contraddizioni.


Funny Girl del 1968 con Barbra Streisand e Omar Sharif

Fanny Brice e Nick Arnstein entrano in un locale e si trovano a confrontarsi – tra battute e tenerezze – sulle loro differenze di origine: “Tu hai frequentato le migliori scuole, io il Lower East Side… tu Park Avenue, io Henry Street”. Lei cerca di spiegare che da dove viene lei, quando due si amano... lo fanno, non lo dicono.
Nick la incalza con lo sguardo, e a quel punto Fanny sbotta, quasi impulsivamente: “Perché non ci sposiamo?” – poi si ferma, imbarazzata, e aggiunge: “Qualche volta è l’uomo a farlo, sai?”. Ma subito si ritrae con ironia: “Dimentica tutto quello che ho detto”.


È in quel momento che il cameriere porta i cocktail ordinati da Nick. Lui le porge il bicchiere e, con un sorriso e tutta la calma del mondo, mentre lei inizia a bere dalla cannuccia il suo Crème de Menthe Frappè, le dice semplicemente: “Perché non ci sposiamo?”

Spero che queste storie vi abbiano inebriato quanto affascinato, come un buon cocktail sorseggiato al tramonto. E chissà, magari alla prossima serata tra amici potrete stupirli con una di queste chicche da veri intenditori del cinema… e della miscelazione! 

Ah, e se pensate che questo sia l'ultimo della serie... sbagliate! In cantiere ho ancora qualche cocktail di cui parlarvi!

LINK UTILI:

SHAKERATO NON MESCOLATO - I cocktail dei film classici pt. 1, pt. 2, pt. 3, pt. 4, pt. 5 e pt. 6 Special Martini

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