L'angolo dei film: La fiamma del peccato

venerdì, maggio 16, 2025

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Ho rimandato per tanto tempo questo articolo, e non certo perché La fiamma del peccato non lo meritasse — anzi. È uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema, che continuo ad amare, studiare, citare... ma di cui, incredibilmente, non vi avevo ancora parlato. Un po’ come è successo con Il buio oltre la siepe, c’era un motivo preciso dietro l’attesa: questi film non passano quasi mai in TV. E mi dispiaceva parlarvi di qualcosa che non aveste la possibilità di vedere facilmente. Purtroppo, La fiamma del peccato continua a non essere trasmesso, ma oggi possiamo (e dobbiamo) contare sulle piattaforme. E se vi state chiedendo dove trovarlo, la risposta è semplice: è disponibile a noleggio su Prime Video, al costo di un cappuccino. Fidatevi, ne vale assolutamente la pena.
Quindi eccomi qui, finalmente, a raccontarvi uno dei capolavori assoluti di Billy Wilder, perchè di fronte a questo genio dobbiamo solo prendere il cappello e levarcelo. 

La fiamma del peccato è freddo, brutale, altamente stilizzato e intriso di un umorismo nero. È uno dei punti più alti del cinema americano degli anni '40, e ancora oggi rimane un riferimento imprescindibile per estetica, tono e costruzione narrativa. I critici continuano a interrogarsi: è davvero il primo film noir della storia? Forse. Ma di sicuro ha stabilito il modello. Ombre, inganni, notti urbane, dialoghi taglienti, personaggi corrotti, e lei — la femme fatale per eccellenza — che usa fascino e ambiguità per attirare l’uomo comune dentro a un gioco pericoloso fatto di sesso e soldi facili.
E ora che finalmente ci siamo, direi che è il momento giusto per andare a scoprire insieme cosa c’è dietro questa storia. Perché, come sempre, è lì che iniziano le cose più interessanti.

La fiamma del peccato

Il titolo originale è Double indemnity ed è un film del 1944 diretto da Billy Wilder con Fred MacMurray e Barbara Stanwyck.

La trama in breve: Negli anni ’30, a Los Angeles, l’assicuratore Walter Neff viene sedotto da Phyllis Dietrichson, donna affascinante e ambigua. Insieme pianificano l’omicidio del marito di lei per incassare un’assicurazione sulla vita. Ma l’indagine del sospettoso Barton Keyes mette a rischio il loro piano. 

Alcune scene del film

Foto promozionali

Nel 1944, l’America — e il mondo intero — è ancora nel pieno della Seconda guerra mondiale. Hollywood, come ogni altro settore, ha dovuto fare i conti con la realtà del conflitto: dalla scarsità di pellicola agli attori arruolati, fino alla funzione, quasi pedagogica, che il cinema ha assunto in quegli anni. Intrattenere, certo, ma anche ispirare, rafforzare lo spirito patriottico e consolidare il legame con gli alleati.
La produzione cinematografica si è fatta più consapevole, più orientata verso un messaggio. Film come La Mrs. Miniver di William Wyler — un omaggio eroico al popolo britannico — o Le bianche scogliere di Dover e La commedia umana con Mickey Rooney, sono stati pensati per sensibilizzare il pubblico, per dare speranza, e per rafforzare idealmente quel ponte transatlantico tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Questo spirito di collaborazione e solidarietà internazionale veniva spesso riassunto nell’espressione "Hands Across the Sea" (le mani attraverso l'oceano), un richiamo simbolico e culturale all’unione tra le due sponde dell’Atlantico durante il conflitto.
È in questo contesto che appare tutt’altro che scontato l’arrivo di un’opera cupa, disillusa, dove l’eroe non è affatto un eroe, e dove l’America non è quella dei valori condivisi, ma quella dei vicoli oscuri, dei desideri repressi e delle scelte sbagliate. È un film che, mentre tutti gli altri puntano a costruire speranza, si permette di raccontare la parte in ombra del sogno americano.

L’idea dietro a La fiamma del peccato è, come spesso accade nei grandi noir, quella di un crimine che nasce dal desiderio e dalla banalità del quotidiano. Un uomo qualunque, una donna irresistibile, un piano perfetto che, naturalmente, non andrà come previsto. A scriverla è James M. Cain, autore anche de Il postino suona sempre due volte, ma qui con uno stile ancora più cupo, essenziale, spietato.
Giornalista prima che romanziere, Cain ha seguito da vicino la cronaca nera per anni, e si è ispirato a un caso reale: l’omicidio del 1927 in cui Ruth Snyder e il suo amante Judd Gray uccidono il marito di lei per incassare l’assicurazione sulla vita, con tanto di clausola di doppia indennità. Cain assiste al processo e ne rimane colpito a tal punto da riprenderne il tema due volte: prima nel Postino suona sempre due volte, poi in La morte paga doppio, raccontato dalla prospettiva di chi il crimine lo compie.
Rispetto ad altri autori noir come Chandler o Hammett, Cain scrive con una voce più viscerale, meno cerebrale. I suoi protagonisti agiscono spinti da passioni immediate, e la sua scrittura è costruita per far emergere quella tensione sottile che si insinua fin dalle prime pagine.
Pubblicato a puntate su Liberty Magazine nel 1936, La morte paga doppio attira subito l’interesse degli studi hollywoodiani, ma viene bloccato dalla censura del Codice Hays. Joseph Breen, capo del Production Code, definisce il racconto “sordido e inaccettabile per il pubblico, soprattutto di quello giovane e impressionabile” e invita gli studios a lasciar perdere. Solo nel 1943, con la ripubblicazione del testo nella raccolta Three of a Kind, la Paramount riesce ad acquistare i diritti per 15.000 dollari. Alla regia viene chiamato Billy Wilder, ma anche questa volta il testo viene approvato solo dopo una serie di limature imposte dalla censura: tra cui l’esecuzione finale va edulcorata e l’asciugamano indossato da Phyllis che deve coprire di più.
C’è infine un ultimo dettaglio curioso: nel romanzo, il protagonista si chiama Walter Huff, e il marito della vittima Nirdlinger. In sceneggiatura, Huff diventa Walter Ness, finché Wilder scopre che esiste davvero un assicuratore con quel nome a Beverly Hills. Per evitare rogne legali, nasce così Walter Neff, l’uomo qualunque che da una porta qualsiasi entra nella leggenda del noir

Non è certo la prima volta in cui parlo di Billy Wilder qui sul blog. È uno dei registi più versatili della Hollywood classica, capace di fondere ironia e disincanto come pochi altri. Ma visto il ruolo centrale che ha in La fiamma del peccato, un minimo del suo background è d’obbligo metterlo. Perciò facciamo un passo indietro.
Dopo aver iniziato la carriera come giornalista e sceneggiatore nella Berlino degli anni ’20, Wilder lascia l’Europa e si stabilisce negli Stati Uniti. A Hollywood lavora come sceneggiatore per altri, finché non decide di fare il grande salto e passare dietro la macchina da presa. Il debutto alla regia arriva nel 1942 con Frutto proibito, una commedia brillante con Ginger Rogers e Ray Milland, che mostra subito il suo stile: dialoghi affilati, dinamiche ambigue, ritmo perfetto.
Il suo punto di riferimento è Ernst Lubitsch, maestro della commedia sofisticata, con cui stringe un rapporto molto stretto. Wilder ne ammira la leggerezza solo apparente, la capacità di suggerire più che mostrare, e cerca a modo suo di portare quello spirito anche in territori più scuri e cinici.
Ed eccoci tornati al momento in cui il produttore Joseph Sistrom affida a Billy Wilder la regia di La fiamma del peccato. 

Per la sceneggiatura, Billy fa quello che gli viene naturale: chiama il suo complice di sempre, Charles Brackett, con cui ha già scritto film di grande successo come Ninotchka e Colpo di fulmine. I due lavorano spesso in tandem, con un equilibrio perfetto tra l’ironia sofisticata di Brackett e il cinismo affilato di Wilder.
Ma stavolta le cose non funzionano. Brackett si ritira presto dal progetto: trova la storia troppo cupa, disturbante, e non riesce ad accettare l’idea di un assassino come protagonista. “Il 1944 è stato l’anno delle infedeltà,” dirà più tardi Wilder, con la sua consueta ironia, riferendosi a quella rottura professionale che, di fatto, segna una svolta anche nel suo stile.

Il primo pensiero è coinvolgere direttamente James M. Cain, autore del romanzo, ma è sotto contratto con la 20th Century Fox, quindi irraggiungibile. Sistrom allora propone un nome inaspettato: Raymond Chandler, noto per i suoi romanzi noir, ma completamente estraneo al mondo del cinema. Chandler accetta, chiedendo mille dollari e “una settimana” per scrivere la sceneggiatura. Non sa che il lavoro durerà quattordici settimane e che sarà pagato 750 dollari a settimana.
La collaborazione tra Wilder e Chandler è leggendaria… per quanto complicata. Chandler è moralista, introverso, irritato dalle abitudini di Wilder (“Indossa il cappello in ufficio, sembra sempre pronto ad andarsene”), e a un certo punto minaccia di abbandonare il progetto se non riceve delle scuse. Wilder, caso rarissimo, si scusa davvero. “È stata la prima — e forse unica — volta in cui un regista ha chiesto scusa a uno sceneggiatore”, dirà con il suo solito sarcasmo.


Wilder ricorda che la prima bozza scritta da Chandler era “piena di istruzioni per la macchina da presa, totalmente inutilizzabile”. Per insegnargli come si scrive per il cinema, gli passa la sceneggiatura di La porta d’oro del 1941. Nel frattempo, Chandler — ex alcolista in recupero — ricade nel bere. “Era negli Alcolisti Anonimi… e io l’ho fatto ricadere,” confesserà Wilder. Chandler, amareggiato, scriverà anni dopo su The Atlantic Monthly che La fiamma del peccato è stato il suo primo film candidato all’Oscar, ma che nessuno lo ha invitato alla proiezione stampa. Wilder risponde secco: “Come potevamo? Era ubriaco sotto il tavolo del Lucy’s El Adobe Café, il locale frequentato dai dipendenti della Paramount.”
Eppure, da quella collaborazione difficile nasce qualcosa di unico. Anche James M. Cain, con grande onestà, ammetterà più tardi:  «Se avessi pensato ad alcune delle soluzioni trovate da Wilder e Chandler per la sceneggiatura, le avrei usate anch’io nel romanzo».

Il ruolo di Walter Neff non è arrivato facilmente. Anzi, è stato uno di quei casi in cui la parte ha rischiato di non trovare il suo volto. Billy Wilder racconta con il suo solito sarcasmo che, durante la preparazione del film, prese in rassegna tutta la lista degli attori disponibili... fino a “grattare il fondo del barile”, come dice lui stesso. Quel fondo, per la cronaca, si chiamava George Raft (che qualche anno più tardi chiamerà per interpretare il gangster Ghette in  A qualcuno piace caldo ).
Raft gli chiede: «Quand’è che mostro il risvolto della giacca... per far vedere che sono un agente dell’FBI, no?»
Wilder lo guarda e risponde: «Non c’è nessun risvolto. Neff è davvero un assassino».
Raft inorridisce: «Allora non se ne parla, nel modo più assoluto!»

Prima di lui erano già stati contattati — e avevano declinato — nomi del calibro di Alan Ladd, James Cagney, Spencer Tracy, Gregory Peck e Fredric March. 


È a questo punto che Wilder ha un’illuminazione: alla Paramount c’è Fred MacMurray, volto rassicurante e attore brillante, noto per le commedie leggere accanto a Carole Lombard. Nel 1943, è l’attore più pagato di Hollywood, ed è perfettamente inserito in un’immagine pubblica di “bravo ragazzo”. Quando Wilder gli propone la parte, MacMurray risponde:
«Lei sta facendo l’errore della sua vita! Io sono un sassofonista, faccio commedie… Non sono un vero attore.»
Wilder lo incalza: «Allora vuole continuare a vivere di rendita o provare qualcosa di nuovo? E se recita da cane, glielo dico, promesso.»

MacMurray accetta, convinto a metà, e con l’idea che la Paramount non lo avrebbe mai lasciato interpretare un ruolo così “sporco”. Lo studio, invece, dà il via libera — forse sperando di punirlo durante le trattative per il rinnovo del contratto. Alla fine, ironia della sorte, sarà proprio La fiamma del peccato a regalargli il ruolo della vita.
Anni dopo, MacMurray ammetterà:
«Non avrei mai immaginato che sarebbe stato il miglior film che avessi mai fatto.»

Per il ruolo di Phyllis Dietrichson, Billy Wilder e il produttore Joseph Sistrom vogliono solo un nome: Barbara Stanwyck. All’epoca è la donna più pagata d’America, una delle attrici più amate e rispettate del cinema. Eppure, la sua prima reazione è stata di esitazione.


Stanwyck ha già interpretato donne forti, determinate, anche moralmente ambigue. Ma questa è tutta un’altra storia.
 «Dopo tutti questi anni a fare l’eroina, mi faceva un po’ paura interpretare un’assassina vera e propria», ha confessato.
 Wilder la incalza con una frase tagliente:  «Allora, sei un topo spaurito o un’attrice?»
 Ed è proprio lo stimolo che le serve. Stanwyck ha accettato e ha trasformato quel ruolo rischioso in una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera.
Wilder ha scritto il personaggio pensando a lei, e la scelta si è rivelata perfetta. Stanwyck ha colto subito la forza della sceneggiatura e si è buttata nel progetto con la professionalità che tutti le riconoscono. Sul set è scrupolosa, precisa, sempre pronta. Conosce il copione a memoria — letteralmente tutto, perfino le battute degli altri. «Potevi convocarla in piena notte ed era pronta», dirà Wilder. 

Eppure, c’è un dettaglio che ancora oggi divide: la parrucca bionda. È stata un’idea di Wilder, che solo dopo un mese di riprese si è reso conto di quanto fosse brutta — troppo posticcia, troppo finta. Ma ormai è troppo tardi per rigirare le scene iniziali. Così, in puro stile Wilder, razionalizza tutto a posteriori: sostiene che sia una scelta voluta, pensata per sottolineare il carattere artificioso e manipolatore di Phyllis.
Non tutti ci credono. Buddy DeSylva, capo della produzione Paramount, commenta dopo aver visto i giornalieri:
 «Abbiamo assunto Barbara Stanwyck e ci ritroviamo George Washington.»
Eppure, parrucca compresa, Phyllis Dietrichson è diventata un’icona. Una maschera perfetta per un personaggio che non è mai davvero quello che sembra.

Il terzo personaggio fondamentale della storia è Barton Keyes: collega, amico e quasi figura paterna per Walter Neff. È l’unico personaggio del film a rappresentare una bussola morale stabile, l’uomo che intuisce tutto ma arriva troppo tardi. A interpretarlo è Edward G. Robinson, attore monumentale che in quel momento della sua carriera sta cercando di liberarsi dal peso — e dalla gloria — dei ruoli da gangster che l’hanno reso celebre.


Anche qui, serve riavvolgere il nastro e raccontare chi fosse l’attore immenso che è stato Edward G. Robinson. Prima di diventare Barton Keyes, il più ostinato investigatore delle assicurazioni che il noir abbia mai conosciuto, Robinson ha già attraversato intere epoche del cinema americano.
Nasce a Bucarest, in Romania, nel 1893, con il nome di Emanuel Goldenberg. È figlio di una famiglia ebrea e, nel 1903, a soli nove anni, emigra con i genitori negli Stati Uniti per sfuggire all’antisemitismo crescente. A New York studia recitazione e si avvicina al teatro. Quando inizia la carriera cinematografica, sceglie il nome d’arte Edward G. Robinson, mantenendo le sue iniziali ma anglicizzando tutto il resto.
Diventa celebre negli anni ’30 grazie al ruolo del gangster Rico in Piccolo Cesare (1930), e da lì in avanti diventa il volto di riferimento per i film di crimine e malavita: autoritario, minaccioso, carismatico. Per anni lotta contro questa immagine, cercando ruoli più sfumati, meno monocordi. Proprio La fiamma del peccato arriva in un momento cruciale della sua carriera: Robinson accetta di scendere al terzo posto nei titoli di testa, una decisione non scontata per una star del suo calibro, ma lo fa anche perché la Paramount gli ha garantito lo stesso cachet degli altri due protagonisti, per molti meno giorni di riprese.
 «Alla mia età», osserva, «è tempo di iniziare a pensare a ruoli di carattere. Scivolare verso la mezza età con la stessa grazia di Lewis Stone.»
Il suo Barton Keyes è tutt’altro che una figura secondaria. È l’anima razionale del film, l’unico personaggio che resta moralmente integro fino alla fine. Robinson interpreta l’investigatore con l’intelligenza tagliente che lo contraddistingue, ma anche con una profondità emotiva inattesa. È lui l’unico che si preoccupa davvero di Neff, e che lo ama — nel senso più ampio e umano del termine.

La scena finale, in cui Keyes si inginocchia accanto a Neff morente per accendergli un’ultima sigaretta, è diventata iconica. Lo studioso Bernard F. Dick, nel suo libro Billy Wilder, la definisce “una delle immagini più potenti dell’amore maschile mai rappresentate sullo schermo: una pietà sotto forma di padre surrogato che accende la sigaretta del figlio morente.”
Dopo La fiamma del peccato, questo nuovo volto di Robinson — meno gangster, più interiore — gli apre altre porte. Fritz Lang lo dirige in due ruoli memorabili: La donna del ritratto e La strada scarlatta. Segue L’isola di corallo accanto a Humphrey Bogart e Lauren Bacall.
Ma proprio mentre la sua carriera prende nuove strade, arriva il colpo più duro: sul finire degli anni ’40, il Comitato per le attività anti-americane lo prende di mira. Robinson finisce nella lista nera, sospettato di simpatie comuniste, e per qualche anno fatica a trovare ruoli.
Riuscirà a tornare grazie a Cecil B. DeMille, che lo vuole in I dieci comandamenti, e a Frank Capra, che lo sceglie per Un uomo da vendere accanto a Frank Sinatra. Ma è con Barton Keyes che il pubblico inizia a vedere in lui non solo un “duro”, ma anche un attore capace di tenerezza, ironia e profonda umanità.
Anche i ruoli secondari di La fiamma del peccato riservano scelte interessanti.
Tom Powers, attore affermato a Broadway, è stato invitato a Hollywood proprio per interpretare il signor Dietrichson, marito ignaro e destinato. Era il suo primo ruolo cinematografico dai tempi del muto: non recitava in un film dal 1917. Questo ritorno sul grande schermo segna per lui l’inizio di una seconda carriera nel cinema, che lo porterà a interpretare numerosi ruoli di supporto fino alla sua morte nel 1955. Tra i titoli più noti in cui appare ci sono Sinceramente tua, La moglie celebre, Nessuno mi crederà, fino a Giulio Cesare di Joseph L. Mankiewicz, dove interpreta il senatore Metello Cimbro, uno dei congiurati che conducono Cesare verso il suo destino.

Per il personaggio di Lola Dietrichson, la giovane figlia del primo matrimonio, in un primo momento erano state considerate Susan Hayward e Mona Freeman. Alla fine, il ruolo va a Jean Heather, attrice emergente della Paramount, che riesce a restituire quella fragilità tormentata e rabbiosa che bilancia alla perfezione la freddezza di Phyllis.


E poi c’è una piccola comparsa per niente banale: Raymond Chandler, co-sceneggiatore del film, appare in un cammeo intorno al sedicesimo minuto. È l’uomo seduto fuori dall’ufficio di Barton Keyes, che sta leggendo una rivista e alza lo sguardo mentre Neff passa. Un’apparizione rapidissima, ma piena di significato: uno scrittore che osserva il proprio personaggio scivolare nell’abisso.

Il primo ciak viene battuto il 27 settembre del 1943, e da subito il set di La fiamma del peccato si carica di una tensione elettrica (si concluderanno il 24 novembre). Billy Wilder ha in mente un film duro, lucido, senza scorciatoie. E ogni dettaglio contribuisce a costruire quell’atmosfera tagliente.
Ed è anche da qui che nasce uno degli elementi più memorabili del film: la sua estetica visiva.La fotografia è firmata da John F. Seitz, veterano della Paramount e già nominato all’Oscar per I cinque segreti del deserto, sempre diretto da Wilder. I due collaborano con grande libertà, e Seitz si dimostra disposto a spingersi al limite pur di ottenere l’effetto desiderato. Wilder ricorda che in alcune giornate i giornalieri erano talmente scuri da risultare quasi invisibili, ma Seitz non si ferma: cerca la giusta atmosfera anche a costo di rischiare.
Gli interni cupi, saturi di ombra, si contrappongono agli esterni luminosi della California per evocare una doppia realtà — quella in superficie e quella nascosta. I set vengono “sporcati” appositamente: portacenere rovesciati, particelle d’alluminio nell’aria per simulare polvere, luce che filtra tra le veneziane tagliando le stanze e i volti come se fossero prigioni visive.

Nasce così il linguaggio visivo del noir, che questo film contribuisce a canonizzare. Barbara Stanwyck, in seguito, ha raccontato quanto quell’atmosfera, costruita con cura quasi maniacale, l’abbia aiutata a entrare nel personaggio: la casa, l’appartamento di Neff, quelle luci taglienti e quei chiaroscuri acidi, tutto sembrava urlare il crimine prima ancora che venisse commesso.
Dentro questa cornice visiva così studiata, però, continuano a nascere intuizioni spontanee, figlie di quel particolare equilibrio tra rigore e istinto che caratterizza la regia di Wilder.
Una delle scene più forti, ad esempio, è quella in cui Phyllis resta al volante, immobile, mentre nel sedile posteriore l’amante uccide suo marito. Non ha battute, non si muove. Eppure, negli occhi si legge qualcosa di disturbante, quasi un piacere malcelato.
Wilder ha sempre detto che non le ha dato indicazioni particolari: la scena è venuta da sola, in una o due prove al massimo. Stanwyck aveva già tutto dentro.

Poco dopo, un’altra sequenza nasce per puro caso: l’auto che non parte. Nella versione originale, Phyllis e Neff avrebbero dovuto semplicemente allontanarsi dopo il delitto. Ma alla fine di una giornata di riprese, l’auto di Wilder si rifiuta di partire. È lì che gli viene l’idea. Richiama la troupe e rigira la scena: vuole che la macchina fatichi ad accendersi, che l’attesa diventi tensione. Chiede a MacMurray di girare lentamente la chiave. L’attore si lamenta — gli sembra poco credibile — ma Wilder insiste. E alla fine, ha ragione lui: quel rallentamento meccanico si trasforma in suspense pura.


C’è anche spazio per qualche aneddoto più leggero. In una scena girata in un negozio di alimentari, il cibo utilizzato è autentico. Ma siamo in pieno conflitto mondiale, e il razionamento è severo. Per evitare che qualche membro della troupe venga tentato di “fare la spesa”, la produzione chiama quattro veri poliziotti a sorvegliare il set. La Paramount sfrutta l’occasione per scattare alcune foto promozionali con Stanwyck e MacMurray sorridenti tra gli scaffali, sorvegliati dagli agenti.


E poi c’è il finale perduto. Wilder ha effettivamente girato una sequenza conclusiva in cui Walter Neff viene condotto nella camera a gas, mentre Keyes lo osserva. La scena è stata ricostruita con cura estrema: una replica perfetta della vera struttura, due sedie — una delle quali lasciata vuota, nel caso di complici —, la pastiglia acida che cade nel secchio, il tubo collegato al cuore del condannato, lo stetoscopio del medico pronto a registrare l’ultimo battito.

Neff e Keyes si scambiano uno sguardo intenso, denso di ciò che non è mai stato detto. Poi Keyes esce dalla stanza, si unisce agli altri testimoni, prende un sigaro dal portasigari, accende un fiammifero.
Wilder però si rende conto, mentre monta la scena precedente, che è lì che il film deve finire. Non serve altro. Lo dice lui stesso, in una delle sue frasi più lucide:
«Era già tutto detto. Perché mostrare la morte, se avevamo già mostrato tutto il resto?»
La sequenza è costata cinquemila dollari ma viene tagliata. Vista solo da un pubblico ristretto durante alcune anteprime, non è mai stata reinserita nei laserdisc o nei DVD successivi. Quando a Wilder viene chiesto il perché, spiega che ormai non ha più rapporti con la Paramount, che i diritti del film sono passati alla Universal e che, le rare volte in cui ha provato a informarsi, nessuno sembrava sapere nemmeno di cosa stesse parlando.
Un finale che esiste ma non si vede. E che, proprio per questo, conferma la forza di un film in cui anche l’omissione diventa racconto.

Scenografie

Billy Wilder non si limita a raccontare: vuole far vedere. E in La fiamma del peccato, ogni ambiente — reale o ricostruito — è scelto per amplificare quel senso di tensione, ambiguità e decadenza che attraversa tutto il film. Fin dall’inizio, ha le idee chiarissime: vuole una casa che racconti qualcosa del suo abitante, prima ancora che quest’ultimo appaia in scena. «Il tipo di casa in cui vive un uomo come Dietrichson», dirà più tardi.

La location scelta per il villino dei Dietrichson non è solo una trovata scenica: esiste davvero. Si trova al 6301 di Quebec Drive, sulle colline di Hollywood, ed è una villa in stile Spanish Colonial Revival — lo stesso stile che Wilder cercava per evocare quella rispettabilità borghese un po’ decadente. Ancora oggi, la casa appare pressoché identica a com’era nel film. Con una superficie di oltre 280 metri quadrati, è diventata un piccolo luogo di pellegrinaggio per gli appassionati, e secondo il sito Zillow, il suo valore attuale supera 1,5 milioni di dollari.

Wilder, insieme al set designer Hal Pereira, ne ha studiato ogni dettaglio: l’ingresso angusto, la scala su cui far scendere Stanwyck per mostrare la cavigliera, e quella porta che si apre su un pomeriggio sospeso — letteralmente impolverato. Già, perché quella polvere non è un caso. Wilder voleva che si vedesse la polvere nell’aria, colpita dalla luce, a suggerire la stasi, la noia, la vita addormentata di quella casa. Per ottenerla, fece spruzzare polvere di magnesio sul set, girando in fretta prima che si depositasse.
Molte location esterne vengono trovate a Los Feliz, quartiere residenziale di Los Angeles. Wilder cerca un angolo preciso: vuole un tratto di marciapiede dove i bambini possano giocare a palla, uno spazio vivo ma anche un po’ dimesso, con libertà di movimento per macchina da presa e attori.

Anche negli interni più neutri, come l’appartamento di Neff, nulla è lasciato al caso. In una delle scene più famose, Barbara Stanwyck si nasconde dietro una porta proprio mentre Robinson esce da una stanza. Quella porta si apre verso l’esterno, cosa insolita per un appartamento, e per anni molti l’hanno considerata un errore. In realtà è una scelta studiata da Wilder: vuole che il pubblico capisca esattamente dove si è nascosta Phyllis, che veda che non c’è altro posto nel corridoio in cui rifugiarsi. Quando lei afferra il pomello e lo tira — mentre Neff cerca di tenere la porta chiusa — lo spettatore deve rendersi conto che dall’altra parte c’è lei, a pochi centimetri da Keyes. È una tensione visiva costruita in modo chirurgico, che funziona proprio grazie a quella decisione “sbagliata” ma necessaria.
Il realismo, per Wilder, non significa perfezione formale, ma credibilità emotiva. È per questo che insiste per girare in bianco e nero, con una luce molto cruda, quasi da cinegiornale.

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Infine, trattandosi di Wilder, non può mancare il tocco ironico. Per l’ufficio della Pacific All Risk, dove lavora Neff, Wilder e Pereira decidono di inserire un piccolo scherzo interno. Quando Neff esce dall’ascensore e attraversa la grande sala grigia, vuota, la macchina da presa si sofferma su un mare di scrivanie tutte uguali, un purgatorio aziendale senza colore né umanità. Quel set è ispirato — parola di Pereira — agli uffici reali della Paramount a New York: un autoritratto involontario e grottesco dello stesso studio che sta producendo il film.

Costumi

È impossibile parlare di La fiamma del peccato senza soffermarsi su Edith Head, la costumista leggendaria che ha contribuito a definire il volto – e soprattutto la silhouette – del cinema classico americano. Il suo lavoro nel film non è mai esibito, mai gridato: è sottilmente perfetto. Ed è proprio questa perfezione silenziosa che lo rende tanto efficace da passare quasi inosservata.
Con La fiamma del peccato, Head affronta una sfida affascinante: vestire un personaggio che a sua volta sta recitando un ruolo, e farlo senza mai rivelare esplicitamente l’inganno.
Il rapporto con Barbara Stanwyck è stato fondamentale. Le due donne si conoscevano bene e avevano già lavorato insieme anni prima, in Lady Eva, quando Head era riuscita a trasformare la Stanwyck – fino ad allora percepita come una “ragazza qualunque” – in un vero sex symbol. La costumista aveva trovato il modo di valorizzare la sua fisicità, ridisegnando proporzioni, manipolando tagli e volumi con precisione chirurgica. Da quel momento in poi, Stanwyck volle che il nome di Edith Head comparisse in ogni suo contratto, a prescindere dallo studio per cui stava lavorando. Una fiducia assoluta, rara a Hollywood.
In La fiamma del peccato, Head costruisce l’immagine di Phyllis Dietrichson come una matrioska: una donna che interpreta il ruolo della donna perfetta.
L’idea della parrucca biondo platino è di Wilder – voleva renderla squallida, sfrontata, quasi volgare – ma è Head a trovare l’equilibrio, a evitare che quella bionda appariscente diventi troppo esplicita.
Phyllis non può sembrare un’assassina: deve ingannare tutti, compreso il pubblico. Così, accanto al trucco pesante e ai gioielli vistosi, Edith Head cuce addosso al personaggio abiti apparentemente classici, da signora perbene.
È proprio questo contrasto – tra l’immagine elegante e l’intento omicida – a renderla così inquietante.

Già al suo primo ingresso in scena, in cima alla scala e con indosso solo un asciugamano annodato con nonchalance, Phyllis impone una distanza precisa. È sfacciata ma sfuggente, sensuale ma inaccessibile. Wilder la inquadra dall’alto verso il basso, creando uno scarto fisico e simbolico con lo spettatore — una distanza che, per tutto il film, non verrà mai davvero colmata. E così, con un solo sguardo, Phyllis Dietrichson diventa l’enigma su cui si regge l’intera tensione narrativa.

Poco dopo, la rivediamo in un chemisier bianco con volant, apparentemente romantico, fragile, innocente. Ma basta un dettaglio per spostare l’equilibrio: la cavigliera. Un semplice gioiello che diventa ossessione. Neff non riesce a toglierla dalla testa. Il contrasto tra l’abito candido e quell’ornamento così carico di sensualità suggerisce già tutto: Phyllis si presenta come una donna da proteggere, ma porta dentro di sé qualcosa di profondamente pericoloso. E nel noir, il bianco è spesso solo un’altra forma di inganno — come gli abiti immacolati di Lana Turner ne Il postino suona sempre due volte.

Quando Neff la rivede nel pomeriggio successivo, Phyllis indossa un abito a fiori da giorno. Troppo elegante per essere solo una mise da casa. E infatti, mentre i fiori ondeggiano leggeri, lei parla di omicidio. Ancora una volta, l’apparenza femminile e rassicurante è solo una maschera.

Nel suo guardaroba, Edith Head inserisce anche una versione più “pulita” della dark lady: cappotto con cintura, maglioncino semplice e gonna a tubino. È la Phyllis apparentemente rispettabile, quella che si mostra fragile, bisognosa d’aiuto, come se non potesse liberarsi da sola e avesse bisogno di un uomo. Ma anche qui, nulla è lasciato al caso: i capi sono aderenti, le linee morbide, il taglio studiato per suggerire femminilità contenuta ma efficace. Il fascino non è mai esplicito, ma promesso. E in quell’aria composta si nasconde una carica sessuale sotterranea, perfettamente in linea con l’icona della sweater girl lanciata da Lana Turner nel 1937.

Quando il marito firma la fatidica polizza, Phyllis indossa un tubino nero con scollo a V, classico e sobrio. Ma una spilla vistosa luccica proprio sotto i suoi occhi. Il dettaglio è cruciale: non è solo vanità, è una dichiarazione d’intenti. Phyllis ama i gioielli, sì, ma soprattutto ama quello che possono comprarle.

In alcune scene ambientate al supermercato, la ritroviamo con un completo maschile in tweed e camicia bianca: un’estetica dimessa, quasi banale. Eppure, è proprio lì che attira di più lo sguardo. Il rossetto impeccabile, i capelli biondi perfettamente sistemati, parlano chiaro: Phyllis non è mai quello che sembra. Più cerca di mimetizzarsi, più si fa notare.


La scena della cospirazione è caratterizzata da un cappotto lungo annodato in vita. 

La sua performance più teatrale arriva al funerale: veletta nera, tailleur grigio, guanti e borsa sobria. La vedova perfetta, con le lacrime al momento giusto. Troppo giusto. Nella foto di scena si intravede ancora la cavigliera sotto la gonna — un piccolo errore o un ulteriore indizio del suo doppio gioco?

Anche nei tailleur più rigorosi, spesso in tweed o in lana pesante, Phyllis continua a oscillare tra femminilità e controllo. In quelle scene in cui il piano inizia a sgretolarsi, il suo look diventa più severo, quasi aziendale, come se volesse trasformare l’omicidio in una transazione fredda e razionale. La femmina fatale in versione “business”.

C’è un momento, in un altro incontro segreto, in cui indossa una camicetta di seta bianca con piegoline sottili e pantaloni ampi con cintura alta. È un perfetto equilibrio tra maschile e femminile. Ma sono gli occhiali da sole, che le nascondono lo sguardo, a suggerire l’ambiguità: è preoccupata per la riuscita del piano… o per se stessa?

Il suo look più glamour, e forse più disarmante, arriva solo alla fine: una tuta bianca in seta, elegante e minimale. Evoca la raffinatezza dell’abito a volant del primo incontro, ma con un’intenzione diversa. Qui la femminilità è più matura, più triste. Forse è la prima volta in cui i suoi vestiti sembrano riflettere un’emozione autentica. Forse. Perché con Phyllis non si può mai essere certi. Nemmeno i suoi abiti — perfetti, calibrati, costruiti come armature — riescono davvero a raccontare tutta la verità.

Colonna sonora

Per accompagnare La fiamma del peccato, Billy Wilder si affida a Miklós Rózsa, un compositore che conosce già bene per aver lavorato con lui in I cinque segreti del deserto. La loro è una collaborazione destinata a lasciare il segno. Wilder ha un’idea chiara in mente: vuole una musica che non si limiti ad accompagnare le immagini, ma che sappia scavarne le ombre, amplificarne la tensione, guidare i sottotesti.


E qui ci vuole un flashback.
Budapest, 1907.
(Lo so, sembra l’inizio di un racconto di Sophia Petrillo nelle Golden Girls, e forse lo è.)

Dicevo, in un’Ungheria di inizio Novecento nasce Miklós Rózsa, nome che all’epoca dice poco, ma che diventerà una delle firme più autorevoli della Hollywood classica. Cresce in un ambiente musicale colto e progressista: la madre è una pianista che si è formata nella scuola di Liszt, il padre un industriale dai forti ideali socialisti.
La musica entra nella sua vita come linguaggio naturale, prima ancora che come mestiere. Studia a Lipsia, poi si trasferisce a Parigi, dove si dedica alla musica da camera. Ed è lì che incontra Arthur Honegger, compositore svizzero e amico personale, che lo introduce al cinema. Nel 1937 l’ungherese Alexander Korda lo ingaggia per Knight Without Armour, e da lì inizia tutto: Londra, poi Hollywood, dove firma Il ladro di Bagdad (1940), una partitura che gli regala la sua prima nomination all’Oscar.
Nel 1943 comincia la collaborazione con la Paramount, che apre un periodo d’oro: nella sua carriera riceverà 17 nomination e vincerà 3 Oscar, per Io ti salverò (1945), Doppia vita (1947) e Ben-Hur (1959).
Con La fiamma del peccato, Rózsa dimostra ancora una volta che la musica può essere parte integrante della narrazione. Il suo contributo non è illustrativo, ma concettuale: accompagna le scelte sbagliate, insinua il dubbio, rafforza le crepe morali dei personaggi.
In un film dove tutto è maschera, tutto è illusione, la musica è forse l’unico elemento che dice la verità.
Wilder gli propone un’intuizione: una figura inquieta per archi, ispirata all’Incompiuta di Schubert – il brano che si sente anche nella celebre scena all’Hollywood Bowl, quando Walter e Lola camminano nell’arena vuota.
Rózsa accoglie l’idea, ma costruisce qualcosa di più ampio: una partitura fondata su tre temi principali, ciascuno con un’identità chiara e un ruolo narrativo preciso.
Un tema della cospirazione nervoso e trattenuto, che accompagna l’azione ma anche il sottile piacere dei protagonisti nel pianificare il delitto; un tema dell’omicidio brutale e inesorabile, che anticipa la morte e ne commenta il peso; e infine un tema d’amore lirico e malinconico, che non esprime reale tenerezza ma il desiderio distorto di essere amati dentro una spirale di colpa e attrazione.

Il preludio: Il film si apre con una delle sequenze sonore più potenti del noir. I titoli scorrono mentre Walter Neff – con le stampelle – avanza verso la camera, finché la sua ombra oscura lo schermo.
Rózsa introduce il tema dell’omicidio in forma solenne e tragica: timpani, violini affannati, corni cupi. È una marcia verso la dannazione.
Subito dopo, gli archi furiosi accompagnano un’auto che corre nella notte. La tensione cresce, poi si dissolve quando arriva alla compagnia assicurativa.
Walter entra, ferito, si siede e comincia la confessione. Il tema dell’omicidio ritorna, più intimo, come un rimorso che scava dentro.

La cospirazione: Rózsa intreccia il tema della cospirazione con quello dell’omicidio. La musica diventa compatta, cupa, carica di tensione. Violini tremolanti, fiati profondi, accenti minacciosi costruiscono un senso d’ansia in crescendo. La musica sottolinea ciò che i personaggi non dicono: sguardi, esitazioni, intese silenziose.

Finale: Walter si presenta da Phyllis deciso a ucciderla, ma lei lo precede, sparandogli alla spalla. Ferito, lui si avvicina e le chiede di finirla. Violoncello cupo e archi dolenti lo accompagnano. Phyllis abbassa la pistola e gli confessa il suo amore. Il tema dell’amore si solleva in un’ascesa intensa, ma si spezza quando sente la pistola contro le costole. Poi gli spari. Il tema dell’omicidio, ora più spettrale che mai, accompagna la fuga di Walter. Incontra Nino, lo esorta a pensare a Lola. Un oboe malinconico accompagna l’addio. Torniamo al principio: Walter, esausto, detta la confessione. La musica è una marcia funebre. Un’ascesa degli archi segna l’ingresso di Keyes, che ha ascoltato tutto. Walter tenta di andarsene ma crolla, mentre gli archi precipitano e l’oboe preannuncia la fine. E allora, come ultimo respiro del film, gli archi salgono in un’ascesa lirica, che culmina nel climax finale.

La fiamma del peccato esce nelle sale americane nel 1944, lo stesso anno in cui David O. Selznick lancia con grande clamore Da quando te ne andasti. La sua campagna promozionale è mastodontica, e punta tutto su uno slogan che campeggia a caratteri cubitali:
«Since You Went Away» sono le quattro parole più importanti del cinema dai tempi di Gone with the Wind! (Del resto, anche Via col vento era una sua produzione).
Billy Wilder non la prende bene. Per tutta risposta, decide di pagare di tasca propria un'inserzione sulle riviste di settore:
«Double Indemnity» sono le due parole più importanti del cinema dai tempi di Broken Blossoms (Giglio infranto)! Un riferimento sottile e beffardo al capolavoro di D.W. Griffith del 1919.
Selznick si infuria. Pare abbia perfino valutato azioni legali contro Wilder.
Ma a difendere il regista arriva Alfred Hitchcock (che con Selznick aveva i suoi motivi per essere solidale): Le due parole più importanti del cinema oggi sono: Billy Wilder.
Dietro le quinte, intanto, il film sorprende anche per come è stato prodotto.
Wilder riesce a portare a termine la lavorazione con un budget inferiore al milione di dollari – precisamente $927.262 – nonostante ben $370.000 fossero destinati solo a quattro figure chiave: $100.000 ciascuno a MacMurray, Stanwyck e Robinson, più $70.000 per Wilder stesso, tra sceneggiatura e regia.
Sarà proprio Wilder a definire La fiamma del peccato il suo miglior film, perché – parole sue – «aveva pochissimi errori, sia in sceneggiatura che in fase di riprese».
Riceverà sette nomination agli Oscar, ma uscirà a mani vuote, battuto da La mia via di Leo McCarey.
Wilder ne rimarrà così irritato che, quando McCarey viene chiamato sul palco per il premio alla regia, gli mette lo sgambetto facendolo inciampare nel corridoio.
La rivincita arriverà l’anno successivo, con Giorni perduti, che conquisterà quattro Oscar, mentre Le campane di Santa Maria dello stesso McCarey si dovrà accontentare di uno solo.
Ci sono film che si consumano con il tempo, e altri che continuano a bruciare. La fiamma del peccato appartiene a questi ultimi. Un’opera che, con il coraggio e la genialità di Billy Wilder, ha infranto le regole del racconto morale, portando sullo schermo una storia senza redenzione, fatta di inganni, desiderio e condanna. Un noir che, ancora oggi, ci guarda dritto negli occhi.

QUOTES: 

Neff: Credevi d'avere in pugno la faccenda, come si trattasse di un piccolo giocattolo a sorpresa. Era perfetto, o quasi, perché hai commesso uno sbaglio, un leggero sbaglio: al momento di prendere l'assassino hai fatto cilecca. Sai chi ha ucciso Dietrichson? Tieniti aggrappato al tuo sigaro, Keyes: io ho ucciso! Massì, Neff: assicuratore, ed a trentacinque anni, scapolo, salute buona, almeno fino a poco fa. L'ho ucciso io. L'ho ucciso per denaro e per una donna. E non ho preso il denaro... e non ho preso la donna. Bell'affare.

Neff: Era un pomeriggio caldissimo e io ricordo ancora il profumo del caprifoglio lungo tutta la strada. Come potevo sapere che il delitto ha qualche volta il profumo del caprifoglio?

Neff: Sei tanto pignolo che finirai per perder la testa. Non giureresti che oggi è martedì senza guardare il calendario! E poi indagheresti se il calendario è proprio di quest'anno, e poi cercheresti chi l'ha stampato e se è d'accordo con l'Almanacco universale!

Neff: In questa professione tu pensi sempre ai trucchi che ti possono fare. Sei come il biscazziere alla roulette che sorvegli i giocatori, che non barino. Ma una sera ti viene in mente che potresti tu stesso barare, ma con sicurezza, perché conosci tutti i trucchi. Nessuno lo saprebbe. Tutto quello che occorre è la decisione per fare un colpo maestro.

Neff: Senti, bella. C'è una clausola in ogni polizza infortuni chiamata "doppia indennità". Le compagnie ce la inseriscono più per pubblicità che per altro. Pagano doppio per certi infortuni... quelli che non succedono quasi mai. Ecco, per esempio, se uno è ucciso da un treno pagano centomila invece di cinquantamila.
Phyllis: Ah, sì?
Neff: Dobbiamo giocare forte, bella. Ecco perché deve essere il treno!
Phyllis: Sarà il treno, sarà come tu vuoi. Fino in fondo!

Keyes: Ah, è quello che credi: solo una sedia da scaldare dalla mattina alla sera – eh? – solo una pila di pratiche da sfogliare, qualche matita per disegnare pupazzi e magari un sonnellino ogni tanto. Bene, toglitelo dalla testa! Il mio è il mestiere del chirurgo: è un tavolo operatorio, il mio, e le penne sono scalpelli e bisturi. E quelle pratiche non sono pezzi di carta e fredde statistiche, o reclami d'indennità: sono vive, cariche di drammi, di sogni, di speranze malvagie. Un investigatore, Walter, è un dottore, un poliziotto, un cane da caccia, un giudice, un confessore... tutto insieme!  

Keyes: Solo ventisei anni di esperienza e tutto quello che ci ricavo è un blocco di cemento sullo stomaco! 

Keyes: Hanno commesso un omicidio, e non è come salire su un tram dal quale ognuno può scendere a piacimento, sono legati l'un l'altro, odio o amore non importa, dovranno fare l'intero viaggio insieme, fino al capolinea. E il loro capolinea sarà il cimitero. 

Phyllis: Abbiamo cominciato insieme, insieme finiremo, insieme fino in fondo.

 

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