Scrivimi fermo posta: l’amore a distanza prima di Internet (e Nora Ephron)

lunedì, dicembre 15, 2025

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C’è un film del 1998, C’è posta per te, che ha conquistato milioni di spettatori. Io l’ho visto da ragazzina, senza sapere ancora che dietro quella storia dolce e modernissima, due persone che nella vita reale si punzecchiano e nelle lettere si amano, c’era l’eco di un’altra opera, molto più antica. Solo col tempo ho scoperto che Nora Ephron, la regista, era figlia di Henry e Phoebe Ephron, due grandi sceneggiatori della Hollywood d’oro che hanno firmato titoli come Una segretaria quasi privata, Follie dell’anno e Prendila è mia. Cresciuta in quella tradizione, non sorprende che Nora abbia voluto rendere omaggio a un classico raffinato e spesso dimenticato.
Il film in questione è Scrivimi fermo posta di Ernst Lubitsch del 1940. Una commedia romantica natalizia, sì, ma di quelle che vanno maneggiate con cura: elegante, ironica, costruita su dettagli minimi che oggi rischiano di passare inosservati.


E qui devo fare una piccola confessione personale. Da appassionata di doppiaggio, Scrivimi fermo posta per me è stato, almeno all’inizio, anche una lieve sofferenza “acustica”. Il film appartiene infatti a quella particolare serie di titoli — come La mia via, Le fanciulle delle follie o L’ombra del dubbio — doppiati nel 1944 negli Stati Uniti da doppiatori italo-americani. Le voci principali sono quelle di Augusto Galli, per James Stewart, e di sua moglie Rosina Galli, per Margaret Sullavan. Il risultato è un doppiaggio ibrido, con cadenze e intonazioni insolite, a tratti innaturali per l’orecchio italiano contemporaneo. Un piccolo ostacolo, all’inizio. Ma è un ostacolo che la storia spazza via senza troppa fatica.

Perché più ci si addentra nel film, più ci si accorge che dietro quel negozio di Budapest c’è un mondo straordinario: un testo ungherese acquistato da Lubitsch con un escamotage degno di un romanzo, un vestito pagato 1,98 dollari e scolorito apposta al sole, una scena ripetuta quarantotto volte per colpa di un paio di pantaloni recalcitranti, e soprattutto la tragedia dell’Athenia, che ha coinvolto la figlia del regista e ha cambiato per sempre il passo emotivo del film.

È una commedia che sembra lieve, ma pesa. È un film minuscolo nei mezzi e gigantesco nell’effetto. Ed è ora di raccontarlo come merita.

Il titolo originale è The shop around the corner ed è un film del 1940 diretto da Ernst Lubitsch con protagonisti James Stewart e Margaret Sullavan.

 

La trama in breve: In un piccolo negozio di pelletteria a Budapest, il burbero ma umano signor Matuschek dirige un gruppo di commessi legati da equilibri fragili e rivalità sottili. Tra loro c’è Alfred Kralik, riservato e preciso, che vive un amore segreto attraverso una corrispondenza anonima. L’arrivo di Klara Novak, giovane e intraprendente, rompe immediatamente la routine del negozio: brillante, determinata, tutt’altro che accomodante. Mentre le tensioni tra i dipendenti crescono, Matuschek scopre che sua moglie ha una relazione con uno dei suoi stessi impiegati, e l’atmosfera si incrina. Tra lettere, malintesi e piccoli gesti quotidiani, il negozio diventa il teatro di una storia in cui l’amore e la verità trovano strade impreviste.

Alcune scene del film

Foto promozionali

Siamo alla fine degli anni Trenta, a dieci anni dal crollo di Wall Street che ha segnato un’intera generazione. L’America sta ancora ricostruendo le proprie certezze: il New Deal di Roosevelt ha rimesso in moto cantieri, uffici e fabbriche, e la vita quotidiana riprende a organizzarsi in un ritmo più stabile. I negozi tornano a essere punti fermi dei quartieri, gli impiegati entrano ed escono dagli uffici con una regolarità che negli anni più difficili sembrava impossibile, e la classe media urbana prova a riprendersi spazio, ambizioni, routine.
Nel 1938 l’Europa non è ancora in guerra, ma ha smesso di fingere che nulla stia accadendo. Hitler ha già fatto il suo ingresso sulla scena in modo irreversibile: l’Austria è stata annessa, i discorsi non sono più ambigui, le direzioni sono chiare anche a chi non vuole guardare. È un tempo strano, in cui la vita continua ma con una tensione nuova sotto la pelle.
Ed è proprio in questi anni che un regista europeo, appartenente alla generazione arrivata in America in cerca di nuove opportunità, si avvicina a una storia semplice e molto vicina alla propria esperienza. Una storia che, come dicono negli Stati Uniti, è “too close to home”: talmente familiare da richiedere quasi un’urgenza di essere raccontata.

L’origine della storia

Ernst Lubitsch nasce a Berlino nel 1892, figlio di un sarto. La bottega di famiglia è il suo primo orizzonte: clienti che entrano e escono, discussioni rapide, caratteri che si scontrano per sciocchezze e poi si ricompongono. Non è ancora cinema, ma è un’ottima scuola per capire come funzionano le persone.

Da ragazzo segue un apprendistato come commerciante di tessuti, la strada più logica per uno come lui, finché non scopre che il teatro lo attira molto più dei conti e dei campionari. Entra nella scuola di Max Reinhardt, il direttore del Deutsches Theater, e lì trova davvero la sua voce. Comincia come attore, poi passa alla regia teatrale e infine al cinema tedesco, dove diventa uno dei nomi più interessanti della sua generazione.
Nel 1922 Mary Pickford lo invita a Hollywood. Lubitsch accetta e si trasferisce negli Stati Uniti: in pochi anni si specializza in quella che diventerebbe la sua firma, la commedia sofisticata. Re, principi, coppie brillanti, allusioni, porte che si aprono e si chiudono al momento giusto: il “Lubitsch touch” nasce qui, in un ambiente che vuole leggerezza ma anche intelligenza.
Che arrivi da Berlino non lo dimentica nessuno, tanto meno lui. Nel suo lavoro resta sempre una curiosità concreta per le relazioni quotidiane, per le dinamiche minime tra colleghi, amici, innamorati.
È forse anche per questo che, quando nel 1936 legge Illatszertár (Parfumerie), la commedia ungherese di Miklós László ambientata in una profumeria di Budapest, qualcosa gli scatta. La storia è semplice: due impiegati che si sopportano a fatica e che, senza saperlo, sono gli anonimi corrispondenti delle lettere d’amore che li sostengono nei momenti più difficili. Intorno a loro, il piccolo mondo del negozio: colleghi, clienti abituali, piccoli dissapori, gesti di gentilezza inattesi.
È una storia senza effetti speciali e senza mondi glamour, ma proprio per questo gli parla in modo diretto. Lubitsch riconosce subito quell’umanità, quel passo quotidiano, quella delicatezza nelle reazioni. La sente vicina alla sua esperienza, e capisce che lì dentro c’è un film che vuole fare.
Quando decide di portare la commedia ungherese al cinema, Lubitsch si muove con cautela. Sa che il suo nome farebbe lievitare il prezzo, così affida la trattativa all’agente Charles Feldman. È lui a comprare Parfumerie nel luglio del 1938, per circa 7.500 dollari: un acquisto rapido, silenzioso e sorprendentemente conveniente.

Nicola e Ninotchka

Con i diritti in mano, Lubitsch prova a far decollare il film come produzione indipendente insieme a Myron Selznick. Immagina un progetto dal tono europeo, più intimo dei suoi ultimi successi hollywoodiani, e sceglie come protagonista Dolly Haas, amatissima in Germania ma quasi sconosciuta in America. I provini, però, non convincono: Dolly appare tesa, e Lubitsch capisce che il pubblico americano non la seguirebbe. Intanto Selznick tenta di piazzare il film agli studi, ma da Paramount, RKO e United Artists arrivano risposte simili: storia troppo europea, progetto rischioso, e i recenti insuccessi di Angel e Bluebeard’s Eighth Wife non aiutano.
Il progetto si ferma. In ottobre, però, nasce la piccola Nicola, e per Lubitsch è una gioia che illumina un momento professionalmente incerto.




Poi il destino cambia direzione, portando nella sua vita un’altra “N”: Ninotchka, il nuovo film MGM con Greta Garbo (di cui vi ho parlato qui). 

Il progetto ha perso il regista, George Cukor, richiamato su Via col vento. Garbo indica due nomi: Edmund Goulding o Ernst Lubitsch. La MGM è prudente, The Merry Widow era stato un flop costoso, ma fra i due Lubitsch è la scelta naturale.
Il 30 dicembre 1938 le trattative si chiudono. La MGM rileva Parfumerie per 62.500 dollari, ribattezzandola The Shop Around the Corner, e promette a Lubitsch di affidargliela dopo Ninotchka, con il cast che desidera.
Il 3 settembre 1939, due mesi prima dell’uscita di Ninotchka, Vivian Lubitsch è a Londra con la piccola Nicola. Non trovando posto anche per sé sul viaggio di ritorno, decide di imbarcare solo la bambina e la governante sulla nave SS Athenia. Lei le seguirà più tardi.


A circa duecento miglia dalla costa irlandese, l’Athenia viene colpita da un siluro tedesco. È il primo attacco a un obiettivo civile poche ore dopo la dichiarazione di guerra di Gran Bretagna e Francia alla Germania.
Negli Stati Uniti è Labor Day. Le radio interrompono la programmazione per bollettini d’emergenza. La voce più ascoltata del Paese, Walter Winchell, legge l’elenco dei passeggeri e pronuncia un nome che fa gelare il sangue: “Nicola Lubitsch.”
Sam Katz, dirigente MGM, lo sente in diretta. Corre subito a casa del regista, portandosi dietro Walter Reisch, amico e sceneggiatore. Lubitsch ascolta la notizia appoggiato al pianoforte, la foto della figlia stretta tra le mani. Katz telefona ovunque, attivando tutta la rete MGM: il nome dello studio apre linee, accelera passaggi, permette di ottenere informazioni che altrimenti richiederebbero giorni. Ernst resta immobile, come se il silenzio potesse proteggerlo.
La conferma arriva da New York. Katz gli porge il telefono, ma, ricorderà Reisch, Lubitsch non riesce a sollevarlo. È suo fratello Otto a prendere la chiamata. Le informazioni arrivano tramite Lord Beaverbrook: subito dopo l’esplosione, la governante ha preso Nicola, un salvagente, e le ha portate su una scialuppa. Per dodici ore hanno vagato in mare, arrangiandosi con ciò che trovavano: niente latte, solo zuppa di pesce, ginger ale e patate.
Quando lo yacht Southern Cross le avvista, l’elica rovescia la scialuppa, ma entrambe vengono salvate.
Il 18 settembre 1939, Nicola è a casa. 

 

Lubitsch, sconvolto e sollevato insieme, dice solo: «D’ora in poi la bambina resta qui. Niente più scherzi. Resta in America, dove sarà al sicuro.»
Da quel momento passa con lei ogni minuto libero; gli amici ricordano che spesso pranzava nella nursery. 
Quanto a Vivian, il ritorno non porta pace. Chi li conosceva bene dirà, anni dopo, che quel viaggio non era nato dal caso, e che il naufragio ha incrinato equilibri già fragili.
Superato lo shock, Lubitsch può finalmente tornare al film che ha inseguito così a lungo. E lo fa affiancandosi al suo collaboratore più fidato: Samson Raphaelson

Scrivono insieme da anni, e quando si chiudono in una stanza funzionano come un’unica macchina: Lubitsch detta ritmo e intenzioni, Raphaelson dà loro forma. Lo sceneggiatore racconterà poi che The Shop Around the Corner non è stato un semplice adattamento: della pièce ungherese è rimasta la premessa, poco altro. Tutto è stato reinventato. László aveva costruito un elegante gioco teatrale; Lubitsch e Raphaelson lo trasformano in un piccolo mondo coerente, pieno di dettagli quotidiani, scaffali, colleghi, scatole musicali che ripetono la stessa melodia fino allo sfinimento.
Molti elementi nascono da ricordi personali. Lubitsch conosce il respiro di un negozio: le aperture mattutine, le tensioni fra colleghi, i riti ripetuti. Raphaelson attinge alle sue estati da studente in un grande magazzino di Chicago. Da queste memorie condivise nasce la naturalezza del film: la vetrina sistemata con cura, i commenti sottovoce, la ritualità del lavoro.
E anche il negozio cambia: da profumeria diventa un negozio di articoli da regalo e pelletteria, più visivo, più cinematografico, più adatto alle invenzioni comiche e alla malinconia lieve che Lubitsch porta sempre con sé quando racconta l’amore.

I protagonisti

Quando Lubitsch pensa a chi potrebbe dare vita ad Alfred Kralik, non ha dubbi. Non fa liste, non valuta alternative: vuole James Stewart. Lo dice apertamente, quasi con ostinazione. Nel giovane attore vede qualcosa che sfugge ai divi dal fascino impeccabile: una naturalezza disarmante, quel modo di essere presente senza mai imporsi, di occupare la scena con una sincerità che non si può recitare.


Nel 1939 Stewart è nel pieno della sua ascesa. È reduce dalla nomination per Mr. Smith va a Washington, un film che lo ha trasformato da promessa a certezza, e si sta preparando a interpretare Scandalo a Filadelfia, che gli porterà l’Oscar. Ma dietro al successo rimane sempre quel ragazzo di Indiana, Pennsylvania, alto, magro, con un sorriso un po’ sghembo e una timidezza che diventa, paradossalmente, il suo magnetismo.
Lubitsch, che conosce gli esseri umani quanto conosce il cinema, capisce una cosa semplice: per raccontare un commesso di Budapest, non gli serve un principe europeo, ma qualcuno che sappia far vibrare la gentilezza, il pudore, la piccola dignità del quotidiano. E Stewart, proprio perché non è “suave” come gli attori aristocratici che dominavano il decennio, diventa perfetto. «Tiene il pubblico con ciò che non ha» disse Lubitsch. Ed era vero: l’assenza di vanità, l’aria un po’ goffa, la voce languida che sembrava uscire da un ragazzo di provincia, sono proprio queste qualità a renderlo irresistibile.
Rivedendo il film anni dopo, Stewart dirà che Kralik è stato uno dei suoi ruoli preferiti. Non sorprende. È uno dei personaggi più intimi della sua carriera: niente eroismi, niente discorsi epici, niente pose. Solo un uomo che lavora, che scrive lettere per consolarsi, che si innamora senza saperlo.


C’è un’attrice che Lubitsch conosce già di fama, che ha lavorato più volte con James Stewart e che porta con sé un percorso personale complesso e sorprendentemente adatto a The Shop Around the Corner: Margaret Sullavan.


Nata nel 1909 a Norfolk, Virginia, cresce in un ambiente agiato segnato però da una fragile salute: una debolezza muscolare alle gambe la isola dagli altri bambini fino ai sei anni. Quando guarisce, diventa energica, ribelle, più a suo agio nei cortili popolari che nei salotti familiari, una tensione fra mondi opposti che la accompagnerà sempre.
Da adolescente frequenta un collegio femminile, ma il percorso “previsto” non le basta. Si trasferisce a Boston con la sorellastra Weedie, studia danza al Denishawn e recitazione al Copley Theatre, sfidando apertamente la famiglia. Quando le tagliano l’assegno, lavora: diventa commessa alla Harvard Cooperative Bookstore. Un dettaglio che più tardi farà sorridere Lubitsch, perché in quella giovane donna dietro un bancone c’è già un’anticipazione di Klara Novak.
La svolta arriva nel 1928 con gli University Players di Cape Cod, accanto a futuri nomi illustri, tra cui Henry Fonda, che sposa nel 1931 in un matrimonio brevissimo. Ma l’esperienza teatrale è ciò che conta davvero: disciplina, metodo, una presenza scenica magnetica.
Hollywood se ne accorge subito. Paramount e Columbia le offrono contratti lunghi, ma lei li rifiuta: non vuole appartenere a nessuno. Accetta invece la più flessibile Universal, con una clausola rarissima per l’epoca: poter tornare a teatro quando vuole. È il segno di una carriera costruita secondo le proprie regole.
Nel 1934 sposa William Wyler, poi nel 1936 l’agente Leland Hayward, da cui avrà due figlie. Il cinema la ama, ma lei resta selettiva: pochi film, scelte ponderate, preferenza per collaboratori fidati.
Tra questi, James Stewart. Si conoscono agli University Players: lei è già un talento, lui un ragazzo timido che non sa ancora “occupare” il palco. Margaret gli insegna ritmo, sicurezza, ascolto. Diventano amici profondi, un legame che Stewart custodirà sempre. Nei film girati insieme, Next Time We Love (1936) e The Shopworn Angel (1938), la loro intesa è palpabile.
Ed è proprio questo che colpisce Lubitsch. Margaret ha tutto ciò che serve per Klara: una bellezza non intimidatoria, intelligenza rapida, brio, vulnerabilità e una lieve ostinazione che dà verità a ogni gesto. Deve saper duellare con Stewart e sostenerlo nei momenti più teneri: e nessuna, quanto Sullavan, riesce a farlo con tale naturalezza.

Chi guarda Scrivimi fermo posta per la prima volta si concentra su Stewart e Sullavan, è inevitabile. Ma, scena dopo scena, un’altra figura avanza con passo silenzioso: il signor Hugo Matuschek. E gran parte del merito è dell’attore che gli dà vita. Frank Morgan non era una star nel senso tradizionale, ma era uno di quei volti che il pubblico riconosceva al volo. 

 

Alla MGM lo consideravano un tesoro: versatile, elegante, sempre affidabile, capace di trovare la sfumatura giusta in qualunque ruolo. La sua carriera nasce a New York, passa per teatro, vaudeville e musical, dove affina il tempismo comico e quella dizione impeccabile che Hollywood adorava.
Poi arriva il 1939 e Il mago di Oz. Morgan interpreta non uno ma cinque personaggi: il Mago, il Professor Meraviglia, la guardia, il portiere, il cocchiere. Una prova strepitosa, sufficiente a convincere la MGM a offrirgli un contratto a vita.
Quando Lubitsch prepara il cast, non ha dubbi: per Matuschek vuole Morgan. Sa che dietro l’aria bonaria c’è un attore capace di rendere un personaggio complesso, rigido, buffo, irritabile, ma anche improvvisamente fragile. E Morgan, come sempre, risponde con precisione.
Inizia con toni comici, il capo che controlla tutto e diffida di tutti; poi, quando la storia si fa più seria, Morgan cambia registro con una naturalezza sorprendente. La sua performance colpisce così tanto che la MGM decide di riunire il trio Morgan–Stewart–Sullavan anche in The Mortal Storm (1940).
Negli anni successivi interpreterà re, padri autorevoli e uomini di grande umanità, fino alla sua morte improvvisa nel 1949, mentre si preparava a Anna prendi il fucile. Ma in Scrivimi fermo posta lascia qualcosa di unico: la sensazione che, dietro lettere d’amore e malintesi, il vero cuore del negozio, e forse del film, sia lui.

Nel negozio Matuschek c’è un uomo che non alza mai la voce ma che, scena dopo scena, conquista tutti: Pirovitch. Il merito è di Felix Bressart, uno degli attori europei più amati della Hollywood anni Trenta.


Nato nella Prussia Orientale, Bressart costruisce la sua carriera tra teatro e cinema tedesco fino al 1933, quando l’avvento del nazismo lo costringe a fuggire. Dopo Svizzera e Austria arriva negli Stati Uniti, accolto dalla comunità di artisti tedeschi. Porta con sé un umorismo lieve, attraversato da una malinconia dolce: un tratto che Lubitsch riconosce immediatamente come “suo”.
Lo dirige per la prima volta in Ninotchka, dove Bressart è Bulianoff, parte del trio comico con Iranoff e Kopalski (Sig Ruman e Alexander Granach), tre emissari sovietici rapiti dal fascino dell’Occidente. Lubitsch capisce subito che ha trovato un caratterista capace di dare verità anche alle sfumature più leggere. Così, quando prepara Scrivimi fermo posta, lo richiama senza esitazione. 
In Pirovitch Bressart trova il ruolo ideale: il collega affidabile, prudente, l’unico a cui Kralik confida i propri segreti. Porta sullo schermo una tenerezza quieta, fatta di piccoli gesti e ascolto, che arricchisce ogni scena senza sottrarre spazio ai protagonisti.
Ed emerge anche il tocco Lubitsch, in una delle gag più raffinate del film: ogni volta che Matuschek chiede un “parere onesto”, Pirovitch svanisce all’istante. Scivola fuori campo, si rifugia dietro una porta, sparisce con un lampo di panico negli occhi. Una micro-gag perfetta, costruita sulla sottrazione e sulla precisione millimetrica di Bressart.
Il pubblico dell’epoca lo adorò, e molte recensioni lo citarono tra i punti di forza del film. Bressart lavorerà ancora con Lubitsch, fino al memorabile ruolo in Vogliamo vivere (1942), prima che la sua carriera si interrompa troppo presto, nel 1949, a soli 57 anni. 

A fare da contraltare all’umile Pirovitch c’è Ferenc Vadas, l’esatto opposto: vanesio, compiaciuto, maestro nell’arte del ruffianarsi il capo e del pavoneggiarsi al momento giusto. È quel collega impeccabile nel sistemarsi il fazzoletto nel taschino… e altrettanto impeccabile nello scansare ogni responsabilità. Per dargli sfumature credibili, Lubitsch sceglie Joseph Schildkraut, un attore che quell’eleganza un po’ artefatta ce l’ha nel sangue. 

 

Figlio del celebre Rudolph Schildkraut, cresce tra Vienna e Berlino, impara il portamento aristocratico e la voce morbida del “continental gentleman”, qualità che Hollywood nota subito. Negli anni ’30 è già tra gli europei più rispettati del cinema americano.
Nel 1938 vince l’Oscar per Emilio Zola, interpretando Alfred Dreyfus, l’ufficiale francese ingiustamente condannato nel celebre Affaire Dreyfus, uno dei più clamorosi scandali giudiziari della storia europea. È una prova intensa che consacra definitivamente la sua reputazione.
La sua carriera è però tutt’altro che monotematica: è Erode nel Cleopatra di Cecil B. DeMille (1934), il Duca d’Orléans in Maria Antonietta (1938), e più avanti sarà Otto Frank, il padre di Anna, nel film del 1959.
Con questo bagaglio arriva nel negozio Matuschek. Lubitsch lo vuole proprio per questo equilibrio raro: elegante quanto basta per essere credibile come commesso dallo stile impeccabile, ma capace di far filtrare, dietro un sorriso appena troppo lucido, la vanità, l’ambizione e la mancanza di scrupoli di Vadas. È il “dandy di Budapest” perfetto: tanto ben vestito quanto moralmente scivoloso.

Ultimo ma non per importanza c’è Pepi, il fattorino interpretato da William Tracy: sveglio, rapido, sempre pronto a cavarsela con un espediente.

 

Nel 1940 Tracy è uno dei giovani caratteristi più promettenti della MGM. Nato nel 1917 a New York, passa dal teatro scolastico al vaudeville e approda presto al cinema: a 19 anni è già sotto contratto Fox e poi RKO, specializzato in ruoli brillanti e nervosi. Compare anche nel gangster-movie Gli angeli con la faccia sporca (1938), dove interpreta il giovane ladruncolo che da adulto diventerà il sacerdote interpretato da Pat O’Brien.
La svolta arriva nel 1939, quando la MGM lo assume colpita dalla sua precisione comica. In Scrivimi fermo posta sembra inizialmente solo la nota buffa del negozio: inventa scuse improbabili, sfugge al telefono, arriva perfino a fingersi commessa con una vocina ridicola. Ma Pepi è molto più di così.
È lui che, quando accade qualcosa di serio, capisce per primo che deve intervenire ed evita una tragedia. Da lì il suo rapporto con Matuschek cambia: non più semplice fattorino, ma presenza vigile e protettiva. Lo mostra anche nella celebre telefonata alla signora Matuschek, quando le dice senza mezzi termini ciò che pensa di lei per proteggere il suo capo da altro dolore.
Lubitsch chiude il suo arco con una trovata irresistibile: quando arriva il nuovo fattorino Rudy, Pepi, l’eterno “ultimo arrivato”, diventa improvvisamente supervisore. Si sistema la giacca, si dà un tono, impartisce ordini con un’aria serissima che è pura comicità.

Le riprese di The Shop Around the Corner si sono svolte in modo sorprendentemente rapido: appena 28 giorni, tra settembre e novembre del 1939. Una velocità possibile grazie alla meticolosa preparazione di Ernst Lubitsch, che arriva sul set sapendo già ogni movimento, ogni battuta, ogni pausa respirata dai suoi attori.
Una particolarità, molto rara a Hollywood, è che Lubitsch ha deciso di girare quasi tutto il film in ordine cronologico, dall’inizio alla fine. Stewart, che viene dal teatro, considera questa scelta un lusso: gli permette di “entrare” in Alfred Kralik un giorno dopo l’altro, proprio come se stesse vivendo la storia.
Sul set, Lubitsch mantiene il suo metodo famoso: dirige recitando personalmente ogni ruolo davanti agli attori. James Stewart ricorda che Lubitsch “interpretava tutte le parti”, dal capo burbero al fattorino, con un’energia instancabile. Era il suo modo per garantire un tono uniforme, elegante, preciso, il famoso Lubitsch touch in azione.
Proprio mentre lavora in questo modo, nasce uno degli episodi più citati dagli attori. Durante una scena romantica, Margaret Sullavan la interpreta con una passione un po’ troppo carica. Lubitsch la ferma, prende il suo posto e rifà tutta la scena… in modo esageratamente melodrammatico, quasi caricaturale.
Tutti ridono, lei per prima. E capisce immediatamente che deve alleggerire il registro.
È un esempio perfetto del suo stile: severo nel risultato, mai nella forma.
Fra tutti gli episodi della lavorazione, quello più ricordato, e più divertente, riguarda la scena in cui Klara deve verificare se Alfred ha le “gambe storte”. Sembra un momento leggero, ma dietro le quinte è stato un piccolo tormento. Stewart, da sempre molto insicuro delle sue gambe magre, deve tirarsi su i pantaloni per mostrare che sono dritte. Ma non c’è verso: i pantaloni non salgono mai insieme, si impuntano, perdono la piega. Ogni tentativo finisce storto. Dopo un numero interminabile di ciak, Stewart perde la pazienza: «Ci rinuncio! Trovate un tizio con gambe decenti e fate mostrare le sue.»
Sullavan, senza scomporsi, replica con la sua ironia: «Allora io mi rifiuto assolutamente di essere nel film.» Lubitsch, divertito, li lascia sbollire e poi li rimette al lavoro.
La scena è stata completata dopo 48 take, e Stewart ammetterà più tardi che proprio quel suo nervosismo “vero” ha reso il momento autentico.



Costumi

Una delle scelte più sorprendenti di The Shop Around the Corner riguarda proprio i vestiti. Lubitsch, che altrove aveva giocato con glamour e satin scintillanti, qui fa l’opposto: vuole abiti umili, credibili, vissuti. Niente passerelle, niente sogni da sartoria MGM, qui contano le persone, non ciò che indossano.
Il reparto costumi, allora sotto la supervisione di Irene e Vally Selig, lavora con un obiettivo netto: far sembrare i personaggi veri impiegati di Budapest negli anni Trenta, non star hollywoodiane travestite da commessi. Il risultato è una piccola lezione di verità: stoffe opache, cappotti consumati, dettagli che rivelano il ceto sociale più di qualsiasi battuta.
Fin dal suo primo ingresso, Klara non ha nulla della protagonista costruita per piacere allo spettatore: si veste come può, come farebbe davvero una ragazza in cerca di lavoro. I suoi abiti hanno una grazia timida che anticipa il suo carattere. Lubitsch non vuole una diva; vuole una giovane donna brillante che ogni spettatrice possa riconoscere.
Klara entra con un vestito scuro e semplice, un colletto chiaro e un cappellino modesto. È il famoso abito da $1,98 che Margaret Sullavan aveva comprato da sé e che Lubitsch ha fatto scolorire al sole per dargli vita vissuta: il modo perfetto per raccontare una ragazza concreta, determinata, tutt’altro che una star camuffata da commessa.
La rivediamo poi all’ingresso del negozio, in inverno: una corta pelliccia economica, guanti neri, cappello scuro. Un look che suggerisce un piccolo tentativo di elevarsi, pur restando nei limiti di ciò che può permettersi.


Nel lavoro quotidiano emerge la sua versione più autentica: camicetta chiara, cardigan corto, gonna scura con sottili righe orizzontali. L’abbigliamento funzionale di una commessa sempre in movimento, che vuole essere ordinata senza ostentare nulla.
Per la sera dell’appuntamento al caffè sceglie una gonna nera con bretelle incrociate e una blusa a pois: abbastanza ricercata da farla sentire bella, ma coerente con il suo ceto. Le bretelle incorniciano la figura, la camicetta aggiunge un tocco quasi adolescenziale.
Nel finale torna alla stessa gonna, abbinata però a una camicetta bianca più morbida e romantica: una variazione sottile che racconta il suo lasciarsi andare, finalmente.

Alfred, invece, entra in scena con un completo grigio lineare e camicia bianca: è l’abito che dice tutto di lui, preciso e affidabile, senza alcun desiderio di apparire. È la sua uniforme della normalità.
Con l’inverno arriva il cappotto nero lungo, pesante, essenziale, un capo pratico che in certi momenti sembra un vero scudo. 

 

Sotto, un completo doppiopetto scuro più strutturato del solito, che scolpisce la sua figura e suggerisce un Alfred un po’ più adulto, come se qualcosa stesse già cambiando.
Il cambiamento diventa esplicito con la promozione. Alfred indossa il suo abito migliore, sempre sobrio, ma più rifinito. La cravatta a righe diagonali, più seria, è il dettaglio che fa la differenza: non vanità, ma rispetto per il nuovo ruolo.
Nel finale torna al suo completo scuro, quello che gli appartiene. Cambia solo la cravatta, ora più chiara, quasi il riflesso della serenità ritrovata. Sotto il solito cappotto nero c’è sempre lui, ma con una sicurezza nuova.

Vadas è l’esatto opposto di Kralik: vanesio, compiaciuto, sopra le righe. E i suoi costumi lo rivelano prima ancora che parli. Lubitsch gli costruisce addosso un guardaroba che starebbe bene in un caffè elegante di Vienna, molto meno in un negozio di pelletteria. Vadas si veste per essere guardato, non per lavorare.
La sua prima apparizione è già uno spettacolo: giacca gessata, cappello rigido di paglia, fiore all’occhiello, bastone, guanti portati con naturalezza quasi teatrale. È l’ingresso di un uomo convinto di meritare platee migliori.
Con l’inverno arriva un cappotto doppiopetto con collo e polsini di pelliccia, cappello e guanti coordinati. Mentre gli altri pensano a scaldarsi, lui sembra uscito da un editoriale di moda. È un modo elegante di dire: “non appartengo davvero a questo posto”.


Sotto, un abito grigio impeccabile, camicia bianca e papillon nero a pois: elegante, sì, ma sempre un po’ troppo. Ogni dettaglio certifica la sua volontà di apparire superiore. Accanto alla naturalezza di Alfred, Vadas è una nota acuta che non si armonizza.
Il suo momento più “pavone” è un completo nero perfetto, arricchito da fiore all’occhiello, pochette bianca, guanti, cappello rigido e soprattutto un’ascot, dettaglio da vero dandy europeo. Proprio mentre si veste al meglio, la trama inizia a sgretolargli il terreno sotto i piedi.
E poi arriva il “benservito”: si presenta in tight, con giacca a falde e pantaloni grigi. Un abito da cerimonia totalmente fuori luogo, tanto da diventare comico. È la metafora visiva del personaggio: un uomo che insiste nel recitare l’aristocratico proprio mentre il mondo gli comunica che la sua maschera non funziona più.

Location

Per chi guarda Scrivimi fermo posta oggi, sembra quasi di respirare l’aria di Budapest, e invece non si è mai usciti dalla California. Lubitsch ci tiene moltissimo all’illusione e affronta la produzione con la sua consueta miscela di rigore e leggerezza: vuole autenticità, ma la raggiunge con piccoli tocchi sottili.
Uno di questi nasce da un dettaglio insospettabile: Henry Noerdlinger, incaricato delle ricerche, recupera l’inventario di un vero negozio di pelletteria di Budapest. Scopre che gran parte della pelle usata in Ungheria arriva dagli Stati Uniti e che le valigie color cuoio vanno per la maggiore. Lubitsch adora questo tipo di informazioni: gli danno consistenza, odore, materialità per costruire il suo piccolo mondo.
Tutto in studio, ma senza che lo spettatore lo percepisca. La MGM allestisce un intero soundstage per il negozio “Matuschek és Tsa.”: scaffali, banconi, insegne in ungherese, oggetti di pelletteria autentici. L’effetto è così convincente che sembra davvero di varcare la porta del negozio, con la luce filtrata e il brusio dei commessi.


L’esterno è un angolo d’Europa costruito nel backlot. La MGM ricrea una strada con marciapiede, negozi adiacenti, insegna del tram e neve finta che cade lenta e perfetta. La fotografia di William Daniels, filtri morbidi, luci diffuse, dona a questo microcosmo un inverno credibile, anche nel sole californiano. È qui che si svolgono momenti iconici: l’arrivo di Klara, le uscite serali, la corsa di Pepi, gli acquisti della vigilia.


Il Café Nizza è l’unico vero “viaggio” fuori dal negozio. Costruito apposta, richiama i caffè mitteleuropei: lampade soffuse, tocchi Art Nouveau, specchi che amplificano emozioni più che spazio. Lubitsch lo pensa come una piccola coreografia: il tavolino di Klara è accanto alla finestra, così Alfred può sbirciare da fuori; un’orchestrina tzigana accompagna la scena; un albero di Natale illumina l’angolo. Esiste solo per pochi minuti, ma racchiude tutta la magia romantica del film.

Colonna sonora

La musica in The Shop Around the Corner è quasi invisibile, e proprio per questo funziona. Lubitsch affida la partitura a Werner R. Heymann, altro europeo arrivato a Hollywood come lui. Heymann compone poche pagine essenziali: un tema romantico che accompagna le lettere tra Alfred e Klara, qualche nota più leggera per Pepi, e poco altro. Il resto è silenzio, scelto con cura.
L’unico motivo davvero ricorrente non è neppure della colonna sonora: è Ochi Chërnye, la melodia che esce dalle scatolette musicali del negozio. All’inizio fa ridere, poi – ascoltata in versione più lenta e malinconica – diventa quasi un’eco dell’umore dei personaggi. È un dettaglio piccolo, tipicamente lubitschiano: un oggetto di scena che diventa sentimento.
Heymann interviene solo quando serve, lasciando parlare il film. Al Café Nizza, per esempio, non c’è musica di commento: solo la piccola orchestrina in sala, poi il silenzio che precede la rivelazione finale. Il tema romantico entra soltanto nell’ultimo istante, quando Klara capisce tutto.

The Shop Around the Corner debutta al Radio City Music Hall il 12 gennaio 1940, dove Lubitsch lo presenta di persona. Al pubblico racconta di aver conosciuto davvero un negozietto come quello di Budapest, e che i rapporti tra capo e impiegati “sono gli stessi in tutto il mondo… se il capo ha un po’ di dispepsia, meglio non pestargli i piedi”. Una battuta che riassume perfettamente il tono del film.
La critica lo accoglie con entusiasmo: molti parlano di una delle commedie più raffinate dell’anno, lodano la coppia Stewart–Sullavan e vedono in Lubitsch un ritorno alla forma migliore. Il pubblico, invece, arriva più lentamente: è gennaio 1940, l’Europa è in guerra, Via col vento domina ancora le sale e l’ambientazione ungherese sembra “troppo europea” a qualcuno.
Nonostante ciò, il film si difende: chiude con circa 1,3 milioni di dollari e un profitto di 380.000, persino più di Ninotchka, considerato un titolo più commerciale. Il passaparola lo aiuta, soprattutto a Natale, quando molti cinema lo ripropongono per la sua atmosfera malinconica e romantica.
La crescente popolarità si vede anche alla radio: il 29 settembre 1940 The Screen Guild Theater trasmette una versione condensata con Stewart, Sullavan e Morgan. Un privilegio riservato solo ai film più amati.

Col tempo The Shop Around the Corner si è guadagnato un posto speciale: è uno di quei film che ritornano, soprattutto a Natale, e che finiscono per intrecciarsi ai ricordi di chi li guarda. È un destino molto “alla Lubitsch”: non cercare il clamore immediato, ma la tenuta nel tempo.
Il primo remake arriva nel 1949 con I fidanzati sconosciuti, un musical con Judy Garland e Van Johnson (e il mio adorato S. K. Sakall) ambientato nella Chicago di inizio ’900. Più luminoso e canterino, certo, ma fedele al nucleo emotivo dell’originale. E, come piccola curiosità, segna il debutto sullo schermo di Liza Minnelli.
Quasi cinquant’anni dopo, nel 1998, la storia rinasce nell’era delle email con C’è posta per te. Nora Ephron conosce Lubitsch a menadito e gli rende omaggio ovunque, a partire dal nome della libreria di Meg Ryan: “The Shop Around the Corner”. 

 

Cambiano il mezzo, dalle lettere alle email, e la città, da Budapest a New York, ma il cuore rimane impeccabile: due persone che si scontrano nella vita reale e si innamorano senza saperlo attraverso le parole. 

Che si tratti dell’Europa del ’40, della Chicago d’inizio secolo o della Manhattan digitale degli anni ’90, questa struttura continua a funzionare. È la prova definitiva della solidità della storia di Miklós László, e della grazia con cui Lubitsch l’ha trasformata in qualcosa di davvero immortale. E una gioia per gli occhi e per il cuore a Natale.

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