La moglie del vescovo: il Natale in cui Hollywood fece davvero un miracolo
lunedì, dicembre 08, 2025🎧 Questo articolo è disponibile in audio grazie alla funzione “Ascolta la pagina”
📱 iPhone (Safari): clicca AA nella barra degli indirizzi
📱 Android (Google o Chrome): clicca i 3 puntini in alto
Ci sono film che restano legati per sempre a una persona. Per me La moglie del vescovo ha un nome preciso: Roberto Campari, il mio professore di storia e critica del cinema, che purtroppo non c’è più. Ricordo ancora quando ce lo introdusse a lezione. Si fermò un momento, ci guardò uno a uno e disse:
«Riuscite a immaginare qualcosa di più bello di Cary Grant che interpreta un angelo… a Natale?»
Sono passati quattordici anni e sto ancora cercando una risposta che lo smentisca.
Spoiler: non l’ho trovata. Aveva ragione lui.
Prima di entrare davvero nella storia, però, devo togliermi un sassolino dalla scarpa: La moglie del vescovo è stato ridoppiato, e nessuno sa più con certezza perché. Forse la traccia originale è andata perduta, forse era una questione economica. Quel che so è che non poter sentire Cary Grant con la voce di Gualtiero De Angelis, o Loretta Young con quella di Giovanna Scotto, mi dispiace ogni singola volta.
A onor del vero, il ridoppiaggio anni ’70 è di altissimo livello, Pino Locchi, Maria Pia Di Meo, Cesare Barbetti, voci che associamo comunque all’età classica. Ma resta il motivo per cui questo film è il mio terzo preferito, e non il secondo (che, come sapete, è Il sergente e la signora e ve ne ho parlato qui).
Ora che l’unica nota stonata è fuori dal quadro, torniamo al bello. Perché questo film ne contiene in quantità sorprendenti.
Dietro la sua leggerezza natalizia si nasconde una delle lavorazioni più movimentate della Hollywood degli anni ’40: un set ricostruito da capo dopo settimane di riprese, un produttore che nel 1947 brucia 900.000 dollari pur di non rinunciare alla sua visione, un attore — Grant — capace di fermare una scena perché “se fuori fa freddo, perché le finestre non hanno brina?”. E poi uno scambio di ruoli tra i due protagonisti che ribalta completamente la dinamica del film.
E, quando tutto sembrava perduto, arriva il colpo di scena: Billy Wilder, svegliato all’alba da un Goldwyn in preda all’ansia, che in tre giorni riscrive le scene chiave e salva il film.
Sì, proprio Wilder.
C’è molto da raccontare: le soluzioni sartoriali di Irene Sharaff, i piccoli miracoli domestici dell’angelo, i momenti di tensione, le analogie inaspettate con La vita è meravigliosa.
E alla fine dell’articolo troverete anche il film, pronto da vedere. Perché certe magie, ogni dicembre, tornano identiche e nuove.
Il titolo originale è The bishop’s wife ed è un film del 1947 diretto da Henry Koster con Cary Grant, Loretta Young e David Niven.

La trama in breve: Dudley è un angelo custode viene mandato sulla terra nella famiglia del vescovo protestante Henry Brougham, che sta attraversando un momento difficile a causa di un progetto ambizioso per la realizzazione di una cattedrale seguendo gli ordini della dispotica signora Hamilton, che ne è la finanziatrice. Inoltre sta trascurando la moglie Julia e la figlia, pertanto il compito di Dudley sarà quello di mostrare al vescovo quali sono le cose veramente importanti, in primis non dare per scontata la moglie Julia che trascorrerà molto tempo insieme a Dudley facendo ingelosire Henry.
![]() |
| Alcune scene del film |
![]() |
| Foto promozionali |
Trailer originale:
Quando si guarda agli anni immediatamente successivi alla guerra, ci si accorge che Hollywood respira un’aria diversa. Il pubblico torna nelle sale, ma non cerca più soltanto evasione: vuole essere rassicurato, vuole credere che esista ancora una direzione possibile. E quasi naturalmente comincia ad affezionarsi a storie in cui figure luminose scendono sulla Terra per rimettere a posto ciò che gli esseri umani non riescono più ad aggiustare da soli.
È il momento in cui gli angeli tornano a popolare lo schermo. Il successo di L'inafferrabile signor Jordan o Musica sulle nuvole mostra che il pubblico è pronto per un tocco di soprannaturale. Poco dopo arriva anche Clarence, con La vita è meravigliosa, a confermare quanto forte sia il desiderio collettivo di una gentile promessa di redenzione (di quel film vi ho parlato qui).
Dentro questo clima, il produttore Samuel Goldwyn osserva e decide di muoversi. Il 1947 è il suo anno più luminoso: I migliori anni della nostra vita ha conquistato pubblico e critica restituendo dignità ai reduci e rafforzando la sua autorità a Hollywood. Ma un trionfo non gli basta. Goldwyn vuole un nuovo film capace di toccare il cuore del pubblico, e intuisce che questa ondata di racconti angelici è la strada giusta.
Decide di portare sullo schermo non un film religioso, ma una favola morale capace di restituire leggerezza. Una storia che consola senza predicare, guidata da un angelo che non spiega il miracolo: lo fa accadere.
E forse è questo che rende La moglie del vescovo diverso dagli altri film angelici dell’epoca. Mentre il mondo intero cerca il modo di tornare alla normalità, Goldwyn sceglie un approccio sorprendentemente intimo: non guarda all’umanità, ma a un matrimonio che ha perso il suo centro. Perché a volte, per ricostruire un mondo, basta ricostruire una casa.
Quando Goldwyn mette le mani sul romanzo The Bishop’s Wife non sta acquistando solo una storia fantastica con un angelo capace di rimettere ordine nei cuori: sta acquistando un frammento molto particolare della letteratura americana, nato dalla penna di uno scrittore che non ha mai davvero voluto appartenere a Hollywood.
Robert Nathan nasce a New York nel 1894, cresce in una famiglia colta ma fragile dal punto di vista economico, e quando arriva a Harvard non ci resta abbastanza a lungo da laurearsi. Deve lavorare, e in fretta. Trova un impiego in un’agenzia pubblicitaria, di quelle stanze piene di fumo e slogan da inventare, e poi, la sera, quando il mondo tace, scrive.
Poesie, racconti, piccoli romanzi che cercano ancora la loro forma. Il suo primo romanzo, nel 1919, viene accolto malissimo dalla critica, ma negli anni successivi le cose cambiano: alcuni suoi libri iniziano a circolare e Hollywood si interessa subito al suo modo di mescolare tono fiabesco e sentimento.
The Bishop’s Wife, pubblicato nel 1928, è il primo a essere opzionato per il cinema. Più tardi lo seguirà Portrait of Jennie (1940), che diventerà un film di David O. Selznick nel 1948 con Jennifer Jones. In totale, cinque film saranno tratti dai suoi romanzi.
Louis B. Mayer gli offre un contratto come sceneggiatore, ma Nathan rifiuta: non si considera adatto al lavoro negli studios e preferisce restare un autore indipendente.
Pare che F. Scott Fitzgerald lo indicò come uno dei suoi scrittori contemporanei preferiti, segno della considerazione che aveva nel mondo letterario.
Samuel Goldwyn è l’esempio perfetto di quanto lontano possa arrivare qualcuno che non si lascia fermare da niente.
Nato come Szmul Gelbfisz nella Varsavia dell’Impero Russo e sbarcato in America senza nulla, si costruisce da zero una carriera che lo porta prima alla nascita della futura Paramount, poi alla Goldwyn Pictures e infine alla sua casa di produzione. Chi lo conosce lo descrive allo stesso modo: appassionato, emotivo, convinto che ogni dettaglio conti. E soprattutto, instancabile.
Nel 1947 è all’apice. I migliori anni della nostra vita ha conquistato Hollywood e Goldwyn vuole mantenere quello slancio. The Bishop’s Wife gli sembra il progetto perfetto: una storia con una vena fantastica e sentimentale e, magari, l’occasione per ritrovare parte della squadra che aveva funzionato così bene. Immagina subito la coppia Dana Andrews–Teresa Wright, continuità naturale con il film precedente.
Poi arriva la prima deviazione: Teresa Wright è incinta e deve lasciare il film. Goldwyn pensa allora a Loretta Young. La RKO la concede in prestito, ma chiede in cambio Dana Andrews. Goldwyn ottiene la sua protagonista, ma perde il protagonista maschile.
Ed è in quel vuoto che riaffiora il desiderio che ha da mesi: Cary Grant. È il nome che vede ovunque mentre immagina il film, la sua grazia naturale, la capacità di illuminare una scena senza sforzo. Nessun altro gli sembra capace di dare al progetto quella leggerezza scintillante che insegue.
Il problema è ottenerlo. L’agente di Grant, Jules C. Stein — fondatore della MCA e ormai potentissimo — gli comunica che l’attore ha quattro film in agenda e non c’è modo di inserirne un altro. Non è questione di soldi, è questione di tempo. A Goldwyn basta per rilanciare la sfida: ricomincia a chiamare, con quell’ostinazione che spesso gli apre porte considerate blindate.
E infatti, a sorpresa, una di queste si apre. Il film successivo di Grant salta, lasciando libero uno spiraglio. Goldwyn interviene immediatamente: gli offre quasi mezzo milione di dollari, il compenso più alto mai visto fino a quel momento. Hollywood ne parla per settimane. Grant accetta: sarà lui il vescovo.
Prima ancora di risolvere il cast, Goldwyn mette mano alla struttura del film. Affida la prima stesura a Leonardo Bercovici, sceneggiatore solido e veloce. L’adattamento è fedele al romanzo, ma quando Goldwyn lo legge sente che manca qualcosa: non c’è la grazia, la leggerezza emotiva che immaginava dopo il trionfo de I migliori anni della nostra vita. Allora torna ai talenti che gli hanno appena cambiato la carriera: vuole Robert Sherwood a riscrivere l’anima della storia e William Wyler alla regia, per ricomporre la stessa alchimia. Sherwood accetta, Wyler invece no. Dopo anni di collaborazione intensa, ha deciso di prendere un’altra strada e unirsi alla Liberty Films di Capra.
Sherwood comincia subito e la sua diagnosi è tagliente. In un telegramma ormai famoso scrive che il vescovo “non è un essere umano, ma un noioso imbalsamato”, e che la storia richiede un approccio completamente nuovo. Goldwyn, pur colpito, sa che ha ragione. Quando però deve trovare un regista, la scelta ricade su William Seiter: non un nome prestigioso, ma un professionista affidabile, abituato a commedie con attori difficili quanto i Marx, Laurel & Hardy o Astaire & Rogers. Con il tempo che stringe, è una soluzione pratica.
Le riprese iniziano. Per dieci giorni tutto sembra procedere normalmente, ma quando Goldwyn guarda i giornalieri il suo entusiasmo crolla. La regia è piatta, le scenografie non funzionano, il ritmo manca. Nemmeno Cary Grant gli piace: troppo rigido, estraneo al ruolo del vescovo. Dopo appena due settimane Goldwyn ferma tutto, licenzia Seiter e prende una decisione drastica: rigirare il film da zero. Set demoliti e ricostruiti, pellicola cestinata. L’operazione gli costerà quasi 900.000 dollari — una cifra enorme nel 1947 — ma è disposto a tutto pur di salvare il progetto.
E come se non bastasse, arriva un altro problema: Cary Grant vuole abbandonare il film. Non sente il ruolo nelle sue corde, lo trova distante e impenetrabile, e ciò che ha visto nelle prime riprese lo conferma. È pronto persino a restituire i 300.000 dollari già ricevuti. Per Goldwyn è un disastro: senza regista, senza riprese e ora senza star, il film rischia di crollare. E la distribuzione natalizia incombe.
Così tenta l’ultima carta: gli offre un bonus di 100.000 dollari per restare. Grant accetta, ma pone una condizione precisa: vuole scambiare il ruolo con David Niven. Sarà lui l’angelo Dudley, e Niven diventerà il vescovo. Goldwyn all’inizio si oppone, ma non ha alternative. Se vuole tenere Grant, deve accettare.
Niven incassa il colpo con eleganza, ma non è felice. Avrebbe dovuto interpretare il ruolo più brillante, quello dell’angelo. Ritrovarsi improvvisamente a fare il vescovo non è una promozione, è un sacrificio alla logica delle star. Accetta comunque di ingrigire i capelli per dare più autorevolezza al personaggio, ma quando gli chiedono di tagliare i baffi — la sua firma, il suo tratto distintivo — rifiuta senza tentennare. I baffi restano.
Ora manca solo un nuovo regista. Qualcuno capace di prendere in mano il caos e ricostruire il film da zero. La soluzione arriva quasi per caso: la produzione The Time of Your Life viene rinviata e il suo regista, Henry Koster, diventa improvvisamente disponibile. Conosciuto per i film con Deanna Durbin, ha un tocco leggero, una sensibilità affettuosa, esattamente ciò che Goldwyn sente mancare.
L’incontro tra i due inizia con un classico “Goldwynismo”. Per metterlo a suo agio, Goldwyn gli chiede se gli piacerebbe lavorare con Laurette Taylor. Koster, imbarazzato, gli fa notare che l’attrice è morta l’anno prima. Goldwyn insiste, chiama la segretaria e chiede chi fosse seduta lì due ore prima. “Loretta Young,” risponde lei. “Vede? Non è morta,” replica trionfante Goldwyn. È un momento surreale, ma Koster capisce perfettamente il tipo di produttore che ha davanti: caotico, appassionato, visionario.
Accetta. E The Bishop’s Wife può finalmente rinascere, anche grazie ad un cast di comprimari fatto di piccole gemme.
Monty Woolley è uno di quei volti che il cinema sembra aver scolpito apposta per la saggezza un po’ burbera. Ma dietro quell’immagine c’è un uomo di una cultura vastissima: laureato a Yale, due master, ex professore di inglese e drama coach nello stesso ateneo dove studiava accanto a Cole Porter, che gli affibbiò per affetto il soprannome “The Beard”.
Nel 1941 è diventato famoso con uno dei burberi più irresistibili dello schermo, lo Sheridan Whiteside di Il signore resta a pranzo (di cui vi parlerò presto). È quella miscela di sarcasmo, cultura e cuore nascosto che lo rende perfetto anche per La moglie del vescovo.
Qui interpreta il professor Wutheridge, un intellettuale brillante che Dudley aiuta a ritrovare l’ispirazione che credeva perduta. Le sue scene con Julia e l’angelo sono tra le più delicate del film: non rumorose, non spettacolari, ma capaci di mostrare come la grazia di Dudley agisca nei dettagli, nelle conversazioni che cambiano il corso di una vita.
Elsa Lanchester è una di quelle attrici che portano un mondo intero negli occhi. Cresciuta in una famiglia bohemien londinese, comincia con la danza alla scuola di Isadora Duncan e arriva al cinema passando per i music-hall, con un misto di ironia, sensualità e stranezza che la rende immediatamente riconoscibile.

Debutta sul grande schermo in Le sei mogli di Enrico VIII di Alexander Korda, dove interpreta Anne of Cleves accanto al marito Charles Laughton. Da lì costruisce una carriera fatta di ruoli indimenticabili: la Creatura in La moglie di Frankenstein, la governante Tata Katie in Mary Poppins, e soprattutto Miss Plimsoll, l’infermiera pedante di Testimone d’accusa, che le vale una nomination all’Oscar.
Qui, con i suoi occhi che si spalancano e quella comicità fisica così leggera, trasforma la domestica Matilda in una presenza teneramente spaesata, una nota buffa che illumina la casa del vescovo a ogni ingresso.
Non sono in molti a poter dire di aver recitato, a soli sette anni, nei due più grandi classici natalizi della storia del cinema, accanto a due giganti come James Stewart e Cary Grant. Lei può.
Karolyn Grimes è la piccola Zuzu di La vita è meravigliosa, quella che ci ricorda che “ogni volta che suona una campanella, un angelo mette le ali”. Un anno dopo, in La moglie del vescovo, porta la stessa luce spontanea, la naturalezza dei bambini che non recitano: vivono.
Debby Brougham è una presenza piccola ma preziosa, e la sua dolcezza crea un ponte involontario – e irresistibile – tra le due favole natalizie più amate del cinema americano.
Gladys Cooper è eleganza allo stato puro. A Londra era già una star del teatro edoardiano, una delle pin-up più amate dai soldati della Prima Guerra Mondiale, protagonista di cartoline e ritratti che circolavano ovunque.

Quando arriva a Hollywood negli anni Quaranta, trova subito la sua cifra: donne aristocratiche, fredde, impeccabili… e irresistibili.
È la madre cinica di Dennis Morgan in Kitty Foyle, la madre terribile di Bette Davis in Perdutamente tua, un’interpretazione che le regala la sua prima nomination all’Oscar. La sua capacità di dominare una scena anche con poche battute è uno dei tratti più ammirati della sua carriera.
In La moglie del vescovo interpreta Mrs. Hamilton, la benefattrice che tiene il vescovo sotto pressione con il peso della sua generosità. Cooper la rende maestosa e tagliente, ma con una sottile crepa di umanità che affiora solo nel finale. È un ruolo breve, ma lascia un’impronta precisa, scolpita con la sua consueta grazia severa.
James Gleason porta nel film uno dei suoi momenti più felici: Sylvester, il tassista dal cuore grande che accompagna Dudley e Julia nella loro serata più magica.
È un ruolo breve, ma Gleason — caratterista amatissimo, con alle spalle Broadway, una nomination all’Oscar per L’inafferrabile signor Jordan e ruoli iconici come Arsenico e vecchi merletti — riesce a renderlo indimenticabile. Con la sua voce roca, il volto scavato e quell’umanità un po’ burbera ma affettuosa, trasforma un semplice autista in una presenza calda, uno di quei dettagli che fanno respirare la favola di Goldwyn.
Dopo il licenziamento di Seiter, la produzione si ferma completamente. Sei settimane di pausa, sei settimane in cui il film rimane sospeso come in apnea. Solo nell’aprile del 1947, con Koster pronto a ricominciare, La moglie del vescovo può finalmente ripartire.
I set sono stati ricostruiti, la sceneggiatura è in piena evoluzione e gli attori arrivano sul nuovo set con un misto di cautela, stanchezza e aspettative confuse. In questo clima già complicato, Goldwyn aggiunge un tocco tutto suo: continua a chiamare Loretta Young nei modi più improbabili. Miss Yeng, Miss Yong, Miss Yon. Ogni giorno una nuova variante. Koster capisce subito che, oltre alla produzione, dovrà imparare a gestire anche l’energia imprevedibile del suo produttore.
Il regista comincia a rimettere ordine, scena dopo scena. Cary Grant è cordiale ma distante, David Niven ancora segnato dagli ultimi mesi difficili, Loretta Young concentrata e prudente.
Il film ritrova lentamente un suo respiro, ma la prima vera scintilla nasce durante una scena romantica. Grant e Young tengono moltissimo al loro “profilo buono”, e sfortunatamente è lo stesso lato, il sinistro. Nessuno vuole cedere. Koster prova tutte le soluzioni possibili finché trova un compromesso bizzarro ma efficace: li filma entrambi di spalle, rivolti verso una finestra, mentre Dudley posa le mani sulle spalle di Julia. È una scena che oggi appare poetica, ma allora poteva essere la sola via praticabile.
Quando Goldwyn vede i giornalieri resta interdetto. “Dov’è la scena d’amore?” chiede, esasperato. “Non voglio gente che guarda fuori dalla finestra. Voglio che si guardino tra loro.” Koster spiega la situazione con pazienza, e Goldwyn risponde con uno dei suoi lampi taglienti destinati a circolare per anni: “Benissimo. Se posso usare solo metà del suo viso, Miss Young riceverà metà del suo stipendio.” È ironia, certo, ma anche un modo molto chiaro per dire che il film deve venire prima di tutto.
Le tensioni non finiscono qui. Grant è impeccabile sullo schermo, ma emotivamente altrove. Secondo la biografia Loretta Young: An Extraordinary Life, un giorno Cary si blocca nel mezzo di una scena per dire: “Se fuori dovrebbe fare freddo, e la casa dentro è bella calda, perché non c’è brina sulle finestre?” È il genere di dettaglio che gli studi Goldwyn di solito non trascurano. E infatti tutto si ferma finché i tecnici non ricreano la brina perfetta sui vetri, ma fa anche capire il livello di perfezionismo di Grant.
Koster percepisce il malessere dell’attore e ne parla con Goldwyn. Quando il produttore scende sul set Goldwyn prova a scrollarlo: “Non importa se sei felice. Tu resterai qui solo per qualche settimana. Questo film durerà molto più a lungo. Preferisco che tu sia infelice ora, così potremo essere tutti felici più avanti.” È una frase dura, sì, ma rappresenta perfettamente la sua filosofia di lavoro.

Nonostante tutto, pare che il film abbia finalmente preso forma. Finché arriva la prima proiezione di prova. Il pubblico reagisce bene all’inizio, ma il film è troppo debole nella parte centrale e non si riprende più nemmeno nel finale. Goldwyn, che ha costruito la sua carriera sul fiuto, capisce subito che è un segnale gravissimo. E quando entra nel panico fa l’unica cosa che per lui ha senso: chiama Billy Wilder all’alba. Wilder non c’entra niente con la produzione, ma è il primo nome che Goldwyn pronuncia quando ha paura che un film gli sfugga di mano.
Insieme a lui c’è il suo storico collaboratore Charles Brackett, e da quello che annota nei suoi appunti di allora possiamo sapere esattamente com’è andata: “Sam Goldwyn era da Billy, pregandoci di scrivere alcune scene per The Bishop’s Wife. Non aveva dormito tutta la notte.” I due vedono il montaggio provvisorio e Brackett è lucidissimo: il film è grazioso ma debole, con belle interpretazioni di Niven e Gladys Cooper, mentre Cary Grant risulta “selvaggiamente fuori parte”. Individuano subito il problema: il tono si affloscia, il ritmo si spegne proprio quando dovrebbe prendere quota, e la figura di Dudley manca di quella scintilla che lo renda memorabile.
In tre giorni scrivono nuove scene. Non si limitano a “correggere” dei passaggi: ripensano l’ossatura emotiva del film, introducendo idee che cambiano il ritmo, lo humour e perfino il sottotesto sentimentale della storia. Uno degli interventi più brillanti, documentato da Brackett, è la scena della sedia che rimane incollata al vescovo. Nel film, il vescovo Henry durante una visita all’imperiosa Mrs. Hamilton, si ritrova letteralmente attaccato alla sedia della nobildonna. Il maggiordomo ipotizza sia per la vernice fresca, Henry è costretto a telefonare a casa per chiedere un paio di pantaloni di ricambio: un contrattempo comico, quasi slapstick, costruito con precisione chirurgica. Perché la gag non è un semplice sfogo umoristico: serve a togliere Henry di scena proprio nel momento in cui Dudley e Julia vivono uno dei loro passaggi più intensi, il coro dei bambini nella chiesa di St. Timothy e il successivo pomeriggio sul ghiaccio. È un gesto di drammaturgia perfetto: l’ostacolo è lì per amplificare la distanza emotiva tra Henry e la moglie, e per far crescere, davanti ai nostri occhi, il fascino dell’angelo.
A Wilder si attribuisce anche un momento che sembra minuscolo e invece è uno dei più delicati del film: la visita di Dudley al Professore, interpretato da Monty Woolley. L’uomo, brillante ma intrappolato nella sua stessa routine, sta per versarsi l’ennesimo bicchiere di sherry quando accade qualcosa di impercettibile: il bicchiere è già pieno. È Dudley, naturalmente. Una magia lieve, quasi un soffio, che interrompe un gesto automatico e apre una piccola crepa nel torpore del Professore.
Quel semplice istante basta a rimetterlo in moto. Lo sherry sembra non finire mai, la conversazione si scalda, e il libro di storia che aveva abbandonato torna a chiamarlo. È una scena assente nel romanzo di Robert Nathan, e ha tutta la grazia delle invenzioni di Wilder: miracoli domestici, minuscoli ma decisivi, capaci di cambiare la direzione di una vita senza bisogno di alzare la voce.
Ma il cambiamento più profondo riguarda il cuore del film: la relazione tra Dudley, Julia e Henry. Con l’arrivo di Wilder, l’angelo perde un po’ della sua purezza eterea e acquista una sfumatura terrena, quasi pericolosa. L’Irish Times ha scritto che in Dudley si percepisce “qualcosa di pericoloso sotto la superficie”, e ha ragione: non è seduzione, non è ambiguità spinta, ma un’emozione trattenuta che vibra appena e rende improvvisamente credibile la gelosia del vescovo. Se Dudley non provasse nulla, Henry non avrebbe nulla da temere, e il film resterebbe piatto. Wilder capisce che la favola ha bisogno proprio di questo piccolo rischio per vivere.
Il confronto finale tra i due uomini porta in modo evidente la sua firma. I dialoghi sono asciutti, rapidissimi, affilati, e dicono molto più di quanto mostrino. Henry affronta Dudley, gli rinfaccia di essersi insinuato nella sua casa, nel suo ruolo, nel suo matrimonio. Dudley ascolta, comprende, e lo provoca con quella calma che spiazza. È qui che Wilder inserisce la battuta che definisce non solo il personaggio, ma l’intera architettura morale del film:
«Finché non farai un’altra preghiera dicendo che non hai più bisogno di me. Allora me ne andrò, e vi dimenticherete di me.»
In queste parole c’è tutto: il miracolo, la malinconia, la logica segreta della favola. Un angelo resta finché serve. Solo quando l’uomo ritrova fede e amore, lui può svanire. È un modo elegantissimo per chiudere un triangolo emotivo senza forzare nulla: Julia è lusingata, Dudley è tentato, Henry è vulnerabile… e proprio per questo può ritrovarla davvero.
Il finale appartiene allo stesso respiro. Il sermone della Vigilia, che nel film pronuncia Henry ma è scritto da Dudley, è uno dei passaggi che Wilder e Brackett limano con più cura. Brackett nel suo diario lo definisce una preghiera resa “meno angelica”, più umana. E infatti parla di ciò che conta davvero: non costruire cattedrali grandiose, ma costruire bontà, cura, compassione. È il vero miracolo del film.
Quando l’angelo scompare — e tutti dimenticano di averlo incontrato — resta solo una famiglia ricomposta e un mondo un po’ più luminoso.
È forse questa la traccia più preziosa che Wilder e Brackett lasciano nel film: avergli dato non solo ritmo e brillantezza, ma una verità emotiva che possa continuare a commuovere con il passare del tempo.
Koster riceve le nuove pagine la domenica sera e rigira tutto il lunedì mattina. La proiezione successiva cambia completamente la percezione del film: ora funziona davvero.
Goldwyn, soddisfatto e sollevato, offre a Wilder e Brackett venticinquemila dollari per il lavoro. Ma i due, durante il tragitto per incontrarlo, decidono che non vogliono il compenso: tanto avrebbero pagato in tasse quasi tutto. Quando lo comunicano al produttore, Goldwyn sorride e risponde: “Buffo. Anch’io sono giunto alla stessa conclusione.”
Costumi
Quando Samuel Goldwyn chiama Irene Sharaff, sta scegliendo una delle costumiste più tecniche e immaginative di Hollywood.
Sharaff non si limita a vestire Loretta Young: la ricostruisce, letteralmente.
Young le confida una sua insicurezza: non ha mai amato il proprio collo, lo vorrebbe visivamente più corto. Ma rifiuta colletti arricciati, foulard, soluzioni palesi. Sharaff allora cambia le proporzioni del corpo. Fa realizzare un piccolo corpetto in gommapiuma che solleva le spalle di circa 5 cm, progettando abiti con scolli alti e giromanica molto bassa. È una micro-architettura nascosta che nessuno nota ma che definisce subito la silhouette: composta, elegante, perfettamente in linea con Julia.
La prima volta che incontriamo Julia in città, mentre sceglie l’albero di Natale, Irene Sharaff la veste con un cappotto ampio in lana spessa, quasi architettonico nella linea. Il cappello tondeggiante completa la silhouette con un tocco quieto e protettivo: Julia appare subito come una donna che attraversa l’inverno con grazia, senza ostentazione.
Poco dopo la ritroviamo nell’ingresso di casa, con un completo scuro che unisce una camicetta chiusa da un piccolo cordino e una gonna morbida appena sotto il ginocchio. La cintura sottile stringe la vita senza rigidità, mentre le spalle restano sollevate grazie al busto di gommapiuma nascosto sotto ogni abito. È un look domestico ma composto, perfetto per restituire quella tensione trattenuta che Julia vive mentre cerca di tenere insieme una famiglia, un ruolo sociale e un marito sempre più distratto.
Quando esce con Dudley, l’angelo che sembra capire ogni sfumatura che le sfugge con Henry, il suo abbigliamento si fa più caldo e cittadino. Non è una pelliccia, come spesso si è creduto, ma un cappotto di velluto pesante, lucidissimo e uniforme, uno di quei materiali che Sharaff amava perché davano eleganza senza ricchezza appariscente. Il cappello a tesa larga riequilibra le proporzioni del busto e incornicia il viso con una morbidezza quasi cinematografica. È l’abito con cui Julia cammina per le strade innevate con una naturalezza che precede, senza dirlo, il piccolo risveglio emotivo che Dudley le porterà.
Nella casa del Professore il tono cambia ancora. Julia indossa una blusa bianca con un colletto più rigido, in tessuto diverso dal resto, studiato per dare pulizia al volto senza scoprire troppo il collo. Dentro lo scollo è inserito un foulard di seta, triangolare, quasi un piccolo tocco di calore che interrompe la compostezza dell’insieme. La gonna grigia, morbida ma lineare, accompagna i movimenti con discrezione. È il look più “respirato”: siamo nella stanza di un amico, in un ambiente in cui la rigidità sociale scivola via, e Sharaff lo suggerisce senza mai dirlo.
C’è poi un completo dall’aria quasi scolastica: gonna grigia, corpino abbottonato e un colletto di camicia che emerge netto sotto il fiocchetto. È l’immagine di Julia nel pieno della sua funzione familiare, la più vicina alla donna che tenta di mantenere l’armonia domestica mentre tutto le scivola tra le mani. La silhouette resta sempre calibrata sul busto interno di gommapiuma, che solleva le spalle e accorcia il collo con una naturalezza sorprendente.
Infine, l’abito più femminile dell’intero film. Un modello scuro, con scollo a V leggerissimo rifinito da un inserto in pizzo nero, maniche scoperte e un corpetto con arricciature che seguono il busto più da vicino. È la prima volta che Julia appare davvero “donna” e non solo moglie o madre. Non è un abito seducente nel senso tradizionale, ma la linea è più morbida, la figura più definita, come se Sharaff avesse deciso che per un istante, almeno uno, Julia potesse mostrarsi senza filtri. È l’abito giusto per la sera in cui Dudley e Henry arrivano finalmente allo scontro silenzioso che definisce i loro ruoli nel film.
Una delle magie più riuscite di La moglie del vescovo è il suo inverno credibile, quasi “respirabile”. Sebbene il film sia stato girato in gran parte negli studi Goldwyn, dove vennero ricostruiti interni ricchissimi — la casa del vescovo con le librerie scure, il salone gotico, la cappella — per la neve e il ghiaccio serviva qualcosa che Hollywood non poteva fabbricare.
Per questo una seconda unità volò a Minneapolis, scelta proprio per il gelo autentico, il vento che taglia la pelle e i laghi che si trasformano in piste naturali. È lì che nasce l’atmosfera cristallina delle scene di pattinaggio: quel chiarore invernale non era ottenibile in studio.
Tutto il resto viene ricreato a Hollywood, ma con una cura quasi maniacale. La neve, ad esempio, non era finta: il reparto scenografia produsse 20 tonnellate di ghiaccio raschiato, ridotto in scaglie così sottili da permettere palle di neve, fanghiglia e impronte realistiche.
Tra gli interpreti, soltanto Cary Grant pattina per conto proprio nelle riprese semplici: era già un pattinatore esperto. Per le evoluzioni più complesse Goldwyn preferì però affidarsi a due controfigure.. La scena funziona proprio perché alterna l’energia delle acrobazie alla naturalezza con cui Grant si muove sul ghiaccio quando le inquadrature si stringono.

Nel backstage, la neve e il freddo non erano soltanto atmosfera cinematografica. Karolyn Grimes, la piccola Debby, ricordava spesso quanto quel mondo le sembrasse normale: Cary Grant che la prendeva con sé e la trainava su una slitta durante le pause, gli adulti che per lei non erano divi ma “persone grandi che pattinavano meglio di altri”. Lei stessa soffriva un po’ le tute di lana, pesanti e ruvide, indispensabili per rendere credibile l’inverno ma non proprio confortevoli per una bambina allergica alla lana. Sono dettagli minuscoli, ma raccontano quanto il film fosse fisico, concreto, vissuto.
La primissima volta in cui La moglie del vescovo si presenta al mondo non è negli Stati Uniti, ma nella Londra ancora elegante e ferita del dopoguerra. Il 25 novembre 1947 il film viene scelto per la Royal Film Performance, e basta scorrere la lista degli invitati per capire la portata della serata. In sala ci sono non solo il re Giorgio VI con la regina Elisabetta e le due figlie — la principessa Margaret e una giovanissima Elizabeth, che appena cinque anni più tardi salirà al trono — ma anche la crème del teatro inglese: Laurence Olivier, Vivien Leigh, Rex Harrison. È uno di quei momenti in cui Hollywood arriva davanti alla famiglia reale e al gotha culturale britannico e, quasi miracolosamente, ne esce a testa alta.
La vera première americana arriva due settimane dopo, il 9 dicembre 1947, all’Astor Theatre di New York. Anche questa volta Goldwyn lega il film a un’iniziativa benefica: gli incassi della serata – 7.200 dollari – vengono donati al Lighthouse, un’associazione che assiste i non vedenti.
Nei giorni successivi, un’altra celebrazione contribuisce a trasformare l’uscita del film in un piccolo evento mondano. Mrs. Evander Schley, figura di spicco dell’alta società newyorchese, organizza una festa in onore di Goldwyn a Laurel Lane. LIFE la racconta come un vortice elegante di champagne, canapè, conversazioni animate e lampadari le cui candele “si erano accorciate di qualche centimetro”, segno che la serata si stava protraendo più del previsto. Goldwyn si muove tra gli ospiti con la sua consueta energia, ma il momento che resta impresso è un altro. A notte fonda, quando la casa si è quasi svuotata, Koster torna indietro a recuperare i guanti della moglie e trova Goldwyn da solo, assorto, mentre versa con cura il vino rimasto nei calici dentro la bottiglia di Lafite-Rothschild. Un gesto domestico e quasi minore, che però racconta tutto di lui: nulla va sprecato, tutto può essere recuperato, rimontato, riscritto. Proprio come quel film.
La recensione che mi ha colpita più di tutte è quella di Dorothy Kilgallen per Modern Screen (a questa straordinaria giornalista ho dedicato un articolo che trovate qui). Scrive con un entusiasmo limpido, contagioso, e con quella sua ironia sempre un po’ affilata. È conquistata dall’idea che Cary Grant, già “divino” nel senso più terreno del termine, possa incarnare un angelo vero, elegante e credibile. E confessa una cosa che rende la sua recensione unica: racconta del proprio angelo custode.
Dice che dev’essere stato lui, invisibile, a tenerle in aria gli aerei in cui ha volato, a farle attraversare incolume strade affollate, a tirarla fuori da situazioni che definisce “di ogni tipo”. E aggiunge, con quel misto di ironia e desiderio che solo lei sapeva maneggiare: se il suo angelo assomiglia a Dudley, vorrebbe davvero che si materializzasse. E chiude con una frase che non si dimentica: «E se vola sopra di me mentre dormo, allora da stasera vado a letto truccata!»
Agli Oscar del 1948 La moglie del vescovo si presenta con cinque nomination: miglior film, miglior regia per Henry Koster, miglior sonoro, miglior montaggio e miglior colonna sonora per un film drammatico o comico. Una presenza importante, soprattutto per un titolo che aveva rischiato di deragliare più volte.
Ma, alla fine, solo una statuetta arriva davvero nelle mani di Goldwyn: quella per il miglior sonoro. Il resto sfuma, e con esso anche una delle sue previsioni più sicure: era convinto che Loretta Young avrebbe vinto come miglior attrice dell’anno proprio grazie a questo film.
Aveva ragione a metà. Loretta vince davvero l’Oscar nel 1948… ma non per La moglie del vescovo. Lo conquista per The Farmer’s Daughter, prodotto dalla RKO per conto di David O. Selznick.
Arrivati fin qui, La moglie del vescovo non è più soltanto un classico natalizio: è il risultato di una lavorazione complicatissima, di ostinazione, paure, riscritture improvvise e piccoli miracoli dietro la macchina da presa. Un film che ha rischiato di crollare a metà e che invece, grazie a un produttore che non si arrendeva mai e a un cast in stato di grazia, è arrivato fino a noi con una luce ancora intatta.
Un mezzo secolo più tardi, nel 1996, la storia ha avuto un nuovo adattamento: The Preacher’s Wife, con Denzel Washington e Whitney Houston. Un’altra epoca, un’altra sensibilità, ma la stessa idea di fondo che a volte abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi cosa conta davvero.
Spero che, dopo aver ripercorso questa avventura con me, guarderete (o riguarderete) il film con occhi nuovi. Quanto a cercare qualcosa di più bello di Cary Grant che interpreta un angelo a Natale (e decora magicamente l'albero)… io continuo a provarci. Ma non ci sono ancora riuscita.
Ecco il film da vedere comodamente:
Parte 1 Qui
Parte 2 Qui
ULTIMO MA NON PER IMPORTANZA: Se volete rimanere aggiornati sui miei articoli potete iscrivervi alla Newsletter che ho creato, è sufficiente cliccare su questo link https://blogfrivolopergenteseria.substack.com basta inserire la vostra mail e cliccare Subscribe, riceverete via mail la conferma dell'avvenuta iscrizione e ogni settimana quando uscirà un nuovo articolo sul blog verrete avvisati. Vi ringrazio per sostenermi sempre!




.jpg)














0 commenti