Il San Remo: le due torri affacciate su Central Park più amate dalle star
lunedì, novembre 10, 2025🎧 Questo articolo è disponibile in audio grazie alla funzione “Ascolta la pagina”
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A volte mi do delle missioni che mi prendono un po’ la mano. Quest’estate, per esempio, due mie amiche (ciao Franci, ciao Giuly) sono state a New York, e non ho potuto trattenermi dal dire loro di “salutare” da parte mia i due edifici di cui avevo già scritto sul blog: il Dakota Building e il Barbizon Hotel. Due luoghi che porto nel cuore, simboli di un’epoca in cui il cinema e la città sembravano respirare all’unisono.
Ma, come spesso accade, una cosa ne ha tirata un’altra: è partita una caccia forsennata ai luoghi newyorkesi della vecchia Hollywood.
Lo Stork Club, anche se oggi al suo posto c’è solo un piccolo parco con una cascata. Il ristorante Delmonico’s, ritrovo leggendario dell’élite newyorkese. E poi lui: Il San Remo.
E lì si accende una lampadina. Non avevo ancora parlato del San Remo sul blog! Eppure è lì, visibile in quasi ogni film ambientato a New York, elegante e silenzioso, con le sue due torri che spuntano sopra Central Park come due custodi discreti dello skyline. È uno di quei luoghi che ho sempre guardato con curiosità, come si guarda un volto noto di cui non si conosce ancora la storia.
E poi quel nome. San Remo.
Non Sanremo come la città del Festival, ma San Remo, staccato, come se fosse il nome di un santo dimenticato. Peccato che non esista. O forse sì, in un certo senso esiste davvero: perché a guardarlo da lontano sembra un santo protettore della città, con quell’aria quieta e solenne che non appartiene a nessun’altra costruzione di Manhattan.
Tra le sue mura hanno vissuto nomi immensi: Rita Hayworth, Tony Randall, Mary Tyler Moore, Stephen Sondheim. E la sua storia è affascinante, perché nasce come simbolo del lusso e della ricchezza, ma ha avuto la sfortuna di vedere la luce nel momento peggiore possibile: il 1929.
Eppure è rimasto lì, bellissimo, a dominare Central Park. Insomma, un’altra storia che doveva essere assolutamente raccontata.
Una città che cresce
Alla fine degli anni Venti, New York vive un momento di pura euforia. Le gru svettano ovunque, i palazzi crescono e la città sembra non conoscere limiti. In meno di un decennio, dal 1920 al 1929, verranno costruite più di settecentomila nuove unità abitative — un record senza precedenti nella storia della città.

Sull’Upper West Side la trasformazione è ancora più evidente. Le nuove linee della metropolitana e l’ampliamento delle strade rendono questa parte di Manhattan accessibile e desiderabile. È l’epoca dell’ascesa sociale: chi può permetterselo sogna un appartamento affacciato su Central Park, simbolo del nuovo benessere urbano.
Il boom della Borsa alimenta un surplus di capitali da investire nel mattone, e gli investitori scommettono sulla città. Gli architetti progettano torri eleganti e vertiginose, e Central Park West si trasforma in un cantiere di gru e sogni verticali.
Nascono edifici monumentali come il Beresford, il Majestic e l’El Dorado, che cambiano per sempre il volto di Central Park West.
In questo paesaggio in rapido mutamento prende forma anche il San Remo, pensato per incarnare il sogno del vivere alto, luminoso e raffinato — due torri che sembrano dialogare con il cielo. Ma mentre la città costruisce il proprio splendore, all’orizzonte si intravede un’ombra: il sogno sta per rallentare.
Per ora, però, New York continua a credere nella sua grande illusione, e un architetto in particolare è pronto a firmare uno dei suoi capolavori più riconoscibili.
Dal Danubio a Manhattan
Poche vite raccontano New York meglio di quella di Emery Roth. Nato nel 1871 a Gálszécs, nell’allora Impero Austro-Ungarico, in una famiglia ebrea ungherese di modeste condizioni, Roth cresce tra otto fratelli e un talento precoce per il disegno. La morte prematura del padre lo spinge, a soli tredici anni, a lasciare l’Europa per raggiungere l’America, deciso a costruirsi da solo un futuro.
Arrivato a Chicago, inizia dal basso: lustrascarpe, garzone, qualunque lavoro pur di sopravvivere. Ma la sua curiosità e la mano sicura gli aprono presto le porte di uno studio di architettura, dove scopre la sua vocazione.
La svolta arriva con la Fiera Colombiana del 1893. Assunto dallo studio Burnham & Root, Roth progetta da solo un piccolo padiglione ispirato al Tempio di Vesta — un motivo classico che anni dopo tornerà in cima alle torri del San Remo.
Durante l’esposizione incontra Richard Morris Hunt, che lo invita a New York. Lì lavora nel suo atelier e poi con Ogden Codman Jr., interior designer dell’alta società, da cui apprende il gusto per la raffinatezza e l’armonia degli spazi.
Nel 1898 apre il proprio studio a Manhattan. All’inizio lavora per la comunità ebraico-ungherese, ma presto il suo nome comincia a circolare.
Il primo grande salto arriva con il Saxony Apartments (1899).
Poco dopo lo segue l’Hotel Belleclaire (1903), dieci piani in stile Liberty con struttura in acciaio — un audace preludio alla modernità.
Negli anni successivi collabora con la ditta Bing & Bing, diventandone l’architetto di fiducia. Si specializza nei palazzi residenziali di lusso, dove comfort e classicismo si fondono in un equilibrio nuovo. Il suo stile nasce dall’incontro tra le radici europee e la modernità americana: unisce la compostezza del Beaux-Arts alla leggerezza dell’Art Déco, con un’evidente predilezione per il Rinascimento italiano.
Dopo la Prima guerra mondiale, la normativa del 1916 che impone arretramenti ai piani alti diventa per lui uno stimolo creativo: Roth trasforma quella regola in arte, dando vita a facciate movimentate e torri multiple.
Negli anni Venti lo studio Emery Roth & Sons è ormai sinonimo di lusso e prestigio. L’Upper West Side è la sua tela più amata.
Ed è proprio qui, nel cuore di Central Park West, che Roth concepisce il suo trittico monumentale — The Beresford, The San Remo e The El Dorado — tre architetture che ancora oggi definiscono lo skyline del parco.
La storia del San Remo nasce così: nel momento più alto della sua carriera, quando New York sembra voler toccare il cielo.
Costruire l’impossibile
Dietro al sogno del San Remo c’è un uomo deciso a lasciare il segno nello skyline di New York: Henry M. Pollock, politico, banchiere e imprenditore immobiliare.
Pollock ha già firmato un capolavoro su Central Park West, il Beresford, e ora vuole superare se stesso. Alla fine degli anni Venti acquista l’ormai datato hotel San Remo, costruito nel 1891, insieme ai lotti vicini. L’idea è audace: radere al suolo il vecchio edificio e costruire al suo posto un palazzo capace di ridefinire il concetto di lusso urbano.
Il nuovo San Remo Building, annunciato nel novembre 1928, prevede un investimento di sette milioni di dollari. L’obiettivo è offrire ai futuri inquilini la raffinatezza di una dimora privata con i comfort della modernità, ma in verticale.
Le pubblicità dell’epoca lo proclamano “The Aristocrat of Central Park West”, promettendo “l’ultima parola in fatto di lusso”. Gli attici incastonati nelle due torri gemelle garantiscono viste spettacolari su Central Park e sull’Hudson: il sogno di chi vuole letteralmente abitare il cielo.
L’incarico per la progettazione va a Emery Roth, l’architetto che più di ogni altro sta trasformando l’Upper West Side. È il 1929, e New York vive il suo apice di entusiasmo. La prossima apertura della linea metropolitana sull’Ottava Avenue e il nuovo Multiple Dwelling Act — che consente di costruire più in alto purché con ampie corti interne e arretramenti — aprono possibilità inedite.
Il San Remo è il primo edificio su Central Park West a sfruttare appieno queste nuove regole. Roth disegna un basamento di diciassette piani sormontato da due torri identiche di altri dieci, un profilo innovativo che rispetta la normativa ma dona all’edificio una leggerezza visiva mai vista prima.
Grazie a quell’intuizione, il palazzo si slancia fino a 120 metri, mantenendo proporzioni armoniche e garantendo luce naturale e viste aperte a ogni appartamento.
Le due torri non sono semplici strutture tecniche, ma vere residenze panoramiche: attici simplex e duplex progettati come “dimore nel cielo”, in cui comfort e spettacolo convivono.
Sul piano stilistico, Roth coniuga la solennità del Renaissance Revival italiano con la funzionalità del moderno grattacielo residenziale. Colonne corinzie, fregi in pietra e decorazioni in terracotta si alternano a linee pulite e verticali. La critica ne coglie subito la grazia, definendolo “un equilibrio di lusso e misura, decoro e teatralità”, e il suo profilo gemello diventa un nuovo segno distintivo dello skyline di Manhattan.
Dietro tanta bellezza, però, si nasconde una base fragile. Per finanziare l’impresa, il consorzio di Pollock fa ampio ricorso al credito bancario. Nel luglio 1929 la Bank of United States concede un mutuo di cinque milioni di dollari, partecipando anche come azionista al progetto. È un investimento spinto dall’euforia del momento: tutto sembra destinato a crescere all’infinito.
Ma poche settimane dopo, l’ottimismo crolla insieme a Wall Street.
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Il 29 ottobre 1929 la bolla si infrange e la Bank of United States, travolta dalle perdite, chiude i battenti l’anno successivo. Il San Remo si ritrova nel mezzo della tempesta, con i conti sospesi e il cantiere ancora in corso.
Nonostante tutto, i lavori proseguono. La costruzione è già a buon punto e, nell’autunno del 1930, contro ogni previsione, l’edificio è completato.
Il 21 settembre 1930 il San Remo è pronto: le pubblicità tornano a parlare di “lusso aristocratico”, i giornali descrivono gli attici come “ville sospese tra le nuvole”, e il 1º ottobre i primi residenti varcano l’ingresso. Ma fuori, New York non è più la stessa. Le fortune sono evaporate, il mercato immobiliare si è fermato, e persino ai margini di Central Park compaiono le prime baracche di chi ha perso tutto.

Nel giro di un anno, un terzo degli appartamenti del San Remo resta vuoto. Gli affitti vengono tagliati, i grandi duplex suddivisi in unità più piccole, e l’edificio – costato milioni – entra in amministrazione controllata.
Nel 1932 viene messo all’asta e riacquistato dallo stesso Dipartimento Bancario dello Stato di New York, che gestisce il fallimento della banca finanziatrice.
Seguono anni di difficoltà e rifinanziamenti. Quando, nel 1935, la Metropolitan Life Insurance Company concede un nuovo mutuo, il San Remo sopravvive più per tenacia che per profitto. Ma resiste. E mentre la città si affanna per rialzarsi, le sue due torri continuano a riflettere la luce del parco come se nulla fosse accaduto. È solo una pausa, un silenzio provvisorio prima della risalita.
Perché la storia del San Remo, da quel momento in poi, non ha fatto che guardare sempre più in alto.
Il volto del San Remo
Quando si osserva il San Remo da Central Park, le due torri sembrano sospese tra il cielo e gli alberi, come se appartenessero più all’immaginazione che alla pietra.
C’è qualcosa di lirico e quasi religioso nella loro presenza: Emery Roth non ha costruito semplicemente due volumi gemelli, ma ha dato forma a un’emozione. Le torri trasmettono una sensazione di elevazione, di quiete verticale, come se l’edificio volesse staccarsi dal rumore della città per cercare un dialogo più alto.
Alla sommità, i templi circolari che coronano ciascuna torre rafforzano questa aura spirituale. Roth si ispirò al Monumento Coragico di Lisicrate, studiato da giovane durante l’Esposizione Universale di Chicago. Quelle logge rotonde, sorrette da colonne corinzie, evocano l’antichità classica ma, viste dal parco, sembrano cappelle luminose, lanterne sospese nel cielo.
Di notte, quando le luci delle cupole si accendono e il rame si vela di riflessi verdastri, le torri si trasformano in fari silenziosi: il San Remo appare allora come un edificio dotato di un’anima doppia, una terrena — fatta di linee e proporzioni — e una celeste, che si rivolge all’infinito.
Il loro profilo, simmetrico e perfettamente bilanciato, domina lo skyline con un’armonia che non è mai rigida. Le torri non sono gemelle per imitazione ma per dialogo: sembrano rispondersi in una conversazione silenziosa sopra Central Park.
Non è un caso che molti newyorkesi, ancora oggi, parlino del San Remo con un tono di reverenza. Tra tutti i palazzi che circondano il parco, è forse quello che più somiglia a un simbolo, a un segno riconoscibile e intimo al tempo stesso. Guardarlo significa riconoscere la capacità di un edificio di farsi poesia, di trasformare la pietra in pensiero e l’architettura in una promessa di bellezza che resiste al tempo.
Avvicinandosi, si scopre che la sua eleganza non risiede nella monumentalità ma nella misura. Ogni elemento — dalle cornici in terracotta ai rilievi appena accennati — contribuisce a un equilibrio perfetto tra solidità e grazia.
La base, alta diciassette piani, si innalza come un piedistallo. È qui che l’edificio mostra la sua forza: muri spessi, proporzioni imponenti, finestre regolari che scandiscono il ritmo delle facciate. Eppure Roth ha saputo evitare ogni senso di pesantezza. La struttura si alleggerisce progressivamente verso l’alto, come se respirasse.
Gli arretramenti ai piani superiori — al quattordicesimo, sedicesimo e diciassettesimo — creano terrazze che sono al tempo stesso spazi abitativi e pause visive. Questi gradoni di pietra fanno sì che la massa dell’edificio si ritiri su se stessa, fino a lasciare emergere le due torri, come se nascessero naturalmente dal suo corpo.
Sulle superfici, una trama di leggere scanalature accentua lo slancio verticale, mentre le decorazioni in terracotta introducono movimento e calore: logge, cartigli e volute entro frontoni spezzati, sempre dosati con misura. Nulla è eccessivo, nulla urla.
La pietra e il mattone dialogano in sfumature che vanno dal beige al miele, mutevoli con la luce. Al tramonto, il San Remo si accende: il sole scivola sulle facciate e trasforma il colore in oro rosato. È uno spettacolo discreto ma potente, un momento in cui la città rallenta e il palazzo sembra respirare.
Il San Remo non è mai uguale a se stesso: muta con le stagioni, con la luce, con lo sguardo. È saldo nella pietra, ma vivo come un organismo urbano. Ed è forse questa la sua vera forza — apparire immobile, eppure respirare con la città.
L’eleganza nascosta
Varcare la soglia del San Remo significa attraversare un confine tra epoche.
Da fuori, le torri evocano il Rinascimento; all’interno, invece, si scopre l’eleganza di una modernità raffinata che dialoga con il passato.
L’esperienza comincia già sulla soglia: il portale d’ingresso, in bronzo dorato, è un piccolo capolavoro decorativo. Le porte, intagliate con motivi geometrici e raggi solari, riflettono la luce del giorno come un’anticipazione dell’atmosfera che si troverà all’interno. I pannelli traforati, ornati da ghirlande e rosoni, combinano la solidità del metallo con la leggerezza del disegno, un perfetto incontro tra Art Déco e classicismo. Sopra l’architrave, rilievi e volute scolpite incorniciano il numero civico, trasformando l’ingresso in una sorta di soglia teatrale: un preludio alla scena che si apre oltre.
L’atrio accoglie con un bagliore caldo: pavimenti in terrazzo beige punteggiati da inserti grigio scuro, bordature in marmo verde-grigio e pareti che alternano tonalità di beige, rosso sangue e salmone. È un equilibrio cromatico che suggerisce lusso senza ostentarlo.
A differenza del Beresford, qui Roth rinuncia ai pilastri per lasciare che la luce scorra libera sui marmi. Le superfici, più piane e moderne, sono animate da pannelli in marmo beige scuro e motivi geometrici in intarsio che richiamano l’Art Déco. Le porte degli ascensori, in bronzo inciso, introducono una modernità elegante e misurata; le applique in metallo e vetro satinato e le grandi lampade sospese a forma di torta nuziale rovesciata completano la scena.
I soffitti alternano superfici piane e volte leggere scolpite in bassorilievo con cherubini, ghirlande, rosoni e fregi. In origine dipinti in policromia, oggi rivelano nella sobrietà del bianco la perfetta armonia della composizione.
Salendo ai piani, l’edificio svela il suo cuore: gli appartamenti. Non semplici residenze, ma spazi pensati per portare il lusso e la quiete di una casa privata nel cielo sopra Manhattan.
La pianta a U, con un cortile interno a forma di T, garantisce luce e aria da più lati: la luce scivola sulle pareti e cambia tono durante la giornata, come se accompagnasse il ritmo di chi vi abita.
Gli appartamenti variano da sei a sedici stanze, ma condividono una qualità comune: l’ampiezza. Le gallerie d’ingresso misurano fino a dodici piedi di larghezza per trentatré di lunghezza; i saloni si estendono per più di dieci metri, con soffitti alti undici piedi che amplificano la luce. Le cornici in gesso, sobrie, raccontano un’eleganza che non ha bisogno di ornamento.
La disposizione interna riflette un equilibrio di intimità e rappresentanza: le zone di ricevimento si aprono attorno a una galleria centrale, mentre le camere da letto si trovano in fondo, protette da corridoi silenziosi. Ogni salone conserva un camino a legna — simbolico più che funzionale — rimasto come segno di calore domestico in un’epoca proiettata verso la modernità.
Le cucine, rivestite da pavimento a soffitto in ceramica bianca, sono luminose e ordinate, spesso affiancate da una butler’s pantry (la dispensa del maggiordomo) e dalle stanze di servizio. Ogni appartamento possiede un curioso vano metallico incassato nel muro sotto una finestra, ventilato dall’esterno: serviva a conservare frutta e verdura fresca, piccolo dettaglio di un lusso pratico e intelligente.
I bagni sono un tripudio di colore — piastrelle verde maculato, giallo, beige e dettagli neri — con docce in vetro e soffioni multipli, un comfort raro per l’epoca. Gli armadi, generosi e profumati di legno di cedro, sono vere e proprie cabine, grandi abbastanza da sembrare stanze private. Alcuni appartamenti vantano giardini d’inverno affacciati su Central Park o terrazze in ardesia che abbracciano la casa come balconi sull’aria.
E infine ci sono loro: i duplex nelle torri. Quattordici stanze distribuite su due livelli, con saloni di trentasei piedi illuminati su tre lati, biblioteche, sale da pranzo e camere per la servitù. Gli ambienti sociali al piano inferiore si aprono sulla città, quelli privati al piano superiore si raccolgono nel silenzio. Nessuna parete condivisa, nessun rumore: solo la città che scorre lontana, vista da una prospettiva di pace. Roth volle che questi spazi fossero indipendenti e luminosi, capaci di bilanciare monumentalità e intimità. Non erano semplici appartamenti, ma rifugi sospesi — luoghi che raccontavano la possibilità di vivere New York senza esserne travolti.
Dal crollo alla rinascita
Quando tutto sembrava perduto, il San Remo ha trovato una seconda occasione.
Nel luglio del 1940, in un’America che stava lentamente rialzandosi dopo la crisi, un gruppo di investitori anonimi riuniti nella Sanbere Corporation ha acquistato contemporaneamente il San Remo e il vicino Beresford. L’operazione è rimasta celebre come una delle più sorprendenti del mercato immobiliare newyorkese: due edifici costati oltre dieci milioni di dollari venduti per appena venticinquemila in contanti — “come comprare il transatlantico Queen Mary per pochi spiccioli”, scrisse un osservatore dell’epoca.
Per i nuovi proprietari non era soltanto un affare: era la sfida di riportare alla vita un simbolo della città.
Durante gli anni Quaranta e Cinquanta, sotto la gestione della Sanbere Corporation, il San Remo ha continuato a funzionare come stabile per affitti, riprendendo gradualmente quota insieme al quartiere. L’Upper West Side, dopo anni di incertezza, ha ritrovato il suo fascino: le famiglie benestanti sono tornate, i parchi hanno ripreso vita, e i palazzi lungo Central Park West hanno ricominciato a risplendere. Anche il San Remo ha respirato questa rinascita, tornando a essere ciò che era sempre stato: un luogo elegante, solido, capace di attraversare le stagioni senza perdere la propria identità.
Negli anni Sessanta, mentre la città cambiava volto, si è diffuso un nuovo modello di proprietà: la cooperativa residenziale, in cui gli inquilini diventavano soci e proprietari.
Per il San Remo l’idea ha preso forma all’inizio degli anni Settanta, dopo lunghi tentativi e trattative.
Nel 1972 il palazzo è stato ufficialmente convertito in co-op, accolta con entusiasmo dai residenti. Da allora gli abitanti non erano più semplici inquilini, ma custodi del luogo in cui vivevano.
Da quel momento è iniziata una nuova stagione: restauri, regolamenti, attenzione ai dettagli e alla quiete del vivere. Nel 1987 il San Remo è stato dichiarato Landmark cittadino, riconoscimento che ne ha consacrato il valore architettonico e simbolico.
I residenti
Dalla depressione alla rinascita come icona di Manhattan, il San Remo ha attraversato il Novecento come un sopravvissuto elegante, capace di trasformare le proprie ferite in fascino.
E proprio allora, tra i suoi corridoi e le sue terrazze, sarebbero arrivate nuove voci, nuovi volti, nuove leggende.
RITA HAYWORTH
C’è qualcosa di profondamente poetico, e al tempo stesso struggente, nel fatto che Rita Hayworth, la “dea dell’amore” del cinema classico, abbia trascorso i suoi ultimi anni in uno degli edifici più eleganti e solenni di Manhattan.
Dietro le finestre del San Remo, affacciate su Central Park, la donna che un tempo aveva incendiato lo schermo con uno sguardo e un passo di danza ha vissuto in silenzio la sua battaglia più difficile.
Nel 1981, quando la figlia Yasmin Aga Khan ha scoperto che le difficoltà della madre non erano dovute all’alcolismo — come per anni si era creduto — ma alla malattia di Alzheimer, la diagnosi è arrivata come una ferita e un sollievo insieme. “Si sarebbero potuti evitare tanta vergogna e tanto dolore,” ha detto Yasmin, “se si fosse saputo che Rita era malata e non colpevole di alcuna cattiva condotta.”
Aveva trentun anni, e da quel momento la sua vita è cambiata per sempre: è diventata la custode della madre, la sua voce, la sua memoria.
Il 23 luglio 1981, un tribunale di Los Angeles le ha affidato ufficialmente la tutela di Rita. Poche settimane dopo, Yasmin ha organizzato il trasferimento a New York, scegliendo per entrambe un rifugio speciale: due appartamenti adiacenti nel San Remo, dove la madre avrebbe potuto vivere circondata da luce, musica e cura.
Chi la visitava raccontava che Rita sedeva spesso su una poltrona vicino alla finestra, lo sguardo perso tra le fronde di Central Park. Ogni tanto, se qualcuno accendeva un disco, le sue spalle o i suoi piedi accennavano un movimento, come se il ritmo della musica riaccendesse per un attimo la ballerina che era stata.
Yasmin le stava accanto con dedizione infinita. “Era come prendersi cura di una grande bambola francese,” ha ricordato l’amica Ann Miller. Parrucchieri, truccatori, infermiere: tutto era organizzato perché Rita potesse conservare dignità e grazia, anche quando la memoria cominciava a dissolversi.
E quando, nel 1985, Yasmin si è sposata con Basil Embiricos, la cerimonia civile si è svolta proprio lì, nel suo appartamento al San Remo. Una scelta piena di significato: Rita non era più in grado di comprendere, ma la figlia voleva che la madre, in qualche modo, fosse presente. Pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, è nato Andrew, il nipote che Rita non avrebbe mai potuto conoscere davvero.
Negli ultimi mesi, la malattia ha cancellato ogni parola, ogni riconoscimento. Eppure, chi le stava accanto raccontava che a volte, senza ragione apparente, Rita pronunciava poche frasi, brevi e misteriose. Forse frammenti di memoria, forse echi di un passato che tornava a galla per un istante. Poi, lentamente, anche quei frammenti si sono spenti.
Il 14 maggio 1987, Rita Hayworth si è spenta a sessantotto anni. Da allora, la principessa Aga Khan ha dedicato la sua vita alla sensibilizzazione sulla malattia di Alzheimer, diventando una delle figure più attive nella ricerca e nella raccolta fondi internazionali.
TONY RANDALL
Con la sua ironia elegante e il suo inconfondibile aplomb, Tony Randall è stato una delle figure più raffinate dello spettacolo americano: protagonista delle commedie sofisticate di Hollywood e, in televisione, indimenticabile Felix Unger de La strana coppia.
Si è sempre definito “un ragazzo dell’Upper West Side”, e in effetti lo è stato fino in fondo.
Per oltre trent’anni ha vissuto al San Remo, affacciato su Central Park, insieme alla moglie Florence. Quel palazzo, con le sue torri gemelle e la luce che cambia nel corso della giornata, era per lui molto più di un indirizzo: era una parte della sua identità, la cornice naturale di una vita vissuta nel cuore di Manhattan.
Era arrivato a New York a diciott’anni, lasciando la famiglia a Tulsa e cambiando il proprio nome da Leonard Rosenberg a Tony Randall. Fin dall’inizio, aveva saputo che quella città sarebbe stata la sua casa. Non si è mai sentito un uomo di passaggio: per lui, New York non era solo un luogo dove vivere, ma un modo di essere.
Era un uomo di abitudini e di piccoli rituali. Camminava molto — diceva spesso che le grandi città, come le grandi storie, si capiscono solo a piedi. Conosceva i portieri, gli autisti degli autobus, i commessi dei negozi dell’Upper West Side. Gli piaceva fermarsi da Citarella, da Zabar’s, o alla Fairway per una spesa fatta con cura, e soprattutto gli piaceva l’opera.
Quando Florence lo vedeva pensieroso, gli suggeriva di andarci. Allora lui attraversava Central Park, raggiungeva il Metropolitan Opera e si faceva far entrare dal retro. Guardava un atto o due e tornava sempre sollevato, con quella serenità che solo la musica sapeva ridargli.
Il San Remo era il suo rifugio, il punto di ritorno dopo ogni passeggiata o serata a teatro. Lì, dietro quelle finestre che affacciano sul parco, Randall trovava un equilibrio perfetto tra la città e il silenzio, tra l’energia di New York e il calore domestico.
Quando la moglie si è ammalata, si sono trasferiti poco più a nord, al Beresford, in un appartamento più grande e più comodo per le cure. Florence è morta nel 1992, ma Tony non ha mai lasciato il quartiere: diceva che non avrebbe saputo vivere altrove.
Negli anni successivi si è risposato con Heather, una donna piena di entusiasmo e vitalità. Insieme amavano preparare picnic alla Bethesda Terrace, nel cuore di Central Park, spesso accompagnati da una bottiglia di champagne. “Heather fa le cose in grande,” diceva di lei con affetto.
Anche la televisione ha finito per legare il suo nome a quello del palazzo: nella serie “La strana coppia”, quando Felix e Oscar dicono di vivere a 74th e Central Park West, l’indirizzo corrisponde proprio al San Remo, la vera casa di Randall. E per le riprese esterne delle ultime stagioni, la produzione ha usato le torri del palazzo come sfondo, un omaggio involontario ma perfetto.
MARY TYLER MOORE
Icona della TV americana, simbolo di grazia e forza, Mary Tyler Moore vive al San Remo uno dei momenti più intimi e trasformativi della sua vita — lontana dai riflettori, ma più autentica che mai.
È l’inizio degli anni Ottanta. Dopo anni di ruoli e relazioni che sembrano definirla più di quanto vorrebbe, Mary decide di concedersi un nuovo inizio. Non un film, ma un appartamento: un rifugio pensato solo per lei.
Lo sceglie nella Torre Nord del San Remo, al ventunesimo piano. Da lassù, le finestre aprono vedute di Manhattan in ogni direzione — un orizzonte che abbraccia la città e, insieme, la tiene a distanza.
L’appartamento non è grande, circa 167 metri quadrati, ma ogni centimetro parla di libertà. “Sarebbe stato tutto mio,” scrive nella sua autobiografia, “con la possibilità di accogliere un ospite, ma solo per brevi soggiorni.”
I lavori sono lunghi e radicali: pareti abbattute, spazi ridisegnati, una “zona umida” all’ingresso come piccolo capriccio architettonico. Con il decoratore Angelo Donghia, elegante e visionario, Mary progetta ogni dettaglio, cercando mobili nei negozi di antiquariato dell’Upper West Side.
Il colpo di fulmine è un letto Art Déco con una testata a raggi di sole, alta più di due metri, in mogano intagliato. È un pezzo unico, spettacolare, ma anche fuori portata. Donghia le propone allora di farne realizzare una replica artigianale: il lavoro richiede mesi, e Mary dorme su un materasso provvisorio finché, alla fine, il letto dei suoi sogni arriva. “Era tutto ciò che avevo immaginato,” scrive.
Dietro quell’eleganza, però, si nascondono dolore e solitudine. Mary convive con il diabete, una malattia che le impone rigore e disciplina, e con la sensazione che, nonostante il successo, le manchi qualcosa di essenziale. Sceglie l’Upper West Side per la sua umanità: le piace passeggiare su Columbus Avenue tra i negozi di quartiere, la tavola calda greca, il calzolaio italiano, la gastronomia ebraica. “La cosa bella di Central Park West,” dice, “è che puoi viverci e fingere di non essere ricco.”
In quel periodo, la vita di Mary somiglia a una di quelle commedie sofisticate che lei stessa avrebbe potuto interpretare. Si mormora che Warren Beatty, allora presenza assidua all’Upper West Side, frequentasse sia lei sia Diane Keaton, che viveva nella torre opposta del San Remo — all’insaputa di entrambe. Una trama quasi da Woody Allen, sospesa tra ironia e malinconia, che Mary osservava con il suo solito sorriso disincantato, come se anche quella fosse solo un’altra scena di un film.
Poi arriva Robert Levine, giovane medico del Mount Sinai Hospital. Si conoscono nel 1983 durante una visita medica e presto lui entra nel suo mondo — e nel suo appartamento del San Remo. Porta con sé pochi vestiti ma molti libri e strumenti: due corni francesi, un violoncello. Mary racconta divertita come la biblioteca si trasformi in un salotto dal profumo di cuoio e di carta. “Quando lo sento parlare al telefono con altri medici,” scrive, “mi sembra una lingua straniera, ma mi piace la musica delle sue parole.”
Mary e Robert si sposano nello stesso anno e da allora il San Remo diventa la loro casa, un rifugio elegante e luminoso che rimane tale per più di trent’anni.
Dietro le grandi finestre del ventunesimo piano, Mary Tyler Moore vive un periodo di serenità e di rinascita. L’appartamento non è solo una casa, ma un gesto di indipendenza: il set di una nuova scena, scritta finalmente da lei.
Mary è rimasta in quell’appartamento fino alla fine, accanto a Robert, che le è rimasto vicino per oltre trent’anni.
Dal San Remo, la donna che aveva imparato a reinventarsi ha salutato per l’ultima volta New York — la città che, come lei, non ha mai smesso di cambiare restando fedele a sé stessa.
STEPHEN SONDHEIM
Compositore, paroliere, genio di Broadway, Stephen Sondheim è nato in un mondo di eleganza e contraddizioni: quello del San Remo, dove la musica non era ancora la sua, ma già lo circondava.
Il San Remo, con le sue torri gemelle che si specchiano nel lago di Central Park, è stato il suo primo orizzonte. Quando Stephen Joshua Sondheim vi si è trasferito nel 1930, aveva appena sei mesi. I suoi genitori, Herbert ed Etta Janet “Foxy” Sondheim, avevano scelto quell’indirizzo per affermare un ideale di successo e modernità: un appartamento nell’edificio che incarnava il lusso più sofisticato dell’Upper West Side.
Herbert, figlio di immigrati, aveva fondato a soli trentacinque anni la sua casa di moda, la Sondheim-Levy Company, e viveva il sogno americano nella sua versione più lucida e competitiva. Foxy, invece, disegnatrice di talento e donna dalla personalità magnetica, aveva studiato alla Parsons e cercava una consacrazione sociale che andasse oltre la moda: voleva un palcoscenico.
Il San Remo glielo ha dato.
L’appartamento dei Sondheim non era uno dei grandi duplex della torre sud, ma faceva comunque parte del cuore elegante dell’edificio. Le lobby in marmo e le lanterne in bronzo su Central Park West sembravano riflettere il carattere di Foxy: brillante, teatrale, determinata a imporsi in un mondo che non ammetteva esitazioni. Stephen cresce in questo ambiente, circondato da vestiti su misura, musica al pianoforte e una costante tensione tra apparenza e verità.
I genitori lavorano entrambi nel loro atelier sulla Seventh Avenue, e il bambino passa molto tempo con i domestici — tra cui Paddy, portiere al vicino Beresford, che gli insegna gli scacchi e lo accompagna, ogni tanto, a vedere il parco. È in quelle giornate sospese, tra i corridoi lucidi del San Remo e i giochi all’ombra di Central Park, che Stephen inizia inconsapevolmente a osservare il mondo come un palcoscenico.
L’appartamento ospita spesso serate musicali: il padre suona il piano con amici e colleghi, e il piccolo Stephen ascolta rapito. A sette anni ha già preso le prime lezioni di pianoforte, e la musica inizia a offrirgli una forma di rifugio.
Ma la serenità è fragile. Quando ha dieci anni, una notte sente piangere la madre: Herbert ha lasciato la famiglia.
Da quel momento, la vita di Sondheim cambia radicalmente.
Vive con Foxy, che non riesce a perdonare il marito e riversa sul figlio una rabbia sottile e costante. Anni dopo, Stephen racconterà una lettera che lei gli ha scritto: «L’unico rimpianto che ho è averti messo al mondo.»
Eppure, persino da quella ferita è nata la musica.
Poco dopo il divorzio, si trasferiscono all’Hotel Pierre, ma l’infanzia di Sondheim resta ancorata al San Remo — al suo lucido splendore, al contrasto tra bellezza e distanza emotiva. È lì che ha imparato, forse senza saperlo, quanto dolore e perfezione possano convivere nella stessa melodia.
Negli anni successivi, Sondheim trova un mentore in Oscar Hammerstein II, padre di un compagno di scuola, che diventa per lui un vero punto di riferimento. Da lì inizia la carriera che lo trasformerà in uno dei più grandi autori del teatro musicale americano: West Side Story, Gypsy, Company, Follies, A Little Night Music, Sweeney Todd.
Ci sono palazzi che sembrano restare sempre uguali, eppure cambiano con chi li abita.
Il San Remo è uno di questi. Lo guardi da Central Park e ti sembra immobile, ma basta restare lì un po’ più a lungo per accorgerti che la luce lo trasforma di continuo: al mattino è una promessa, al tramonto un ricordo.
Forse è per questo che le sue torri hanno attratto così tante storie. Architetti visionari, attrici dimenticate, scrittori, musicisti, gente comune che ha trovato qui una forma di casa. O di tregua.
Ognuno, nel suo modo, ha aggiunto un piano invisibile al palazzo — uno strato di memoria, di musica, di malinconia o di festa.
Oggi il San Remo è ancora lì, elegante e un po’ distante, come se osservasse il mondo dall’alto senza giudicarlo. Ma a volte, se alzi lo sguardo e la luce è quella giusta, sembra quasi restituirti un cenno.
Come se volesse ricordarti che anche i luoghi hanno una vita, e che certi indirizzi — più di altri — non smettono mai di raccontare la città che li circonda.
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