Un uomo tranquillo: la favola irlandese che non smette di incantarci

lunedì, novembre 03, 2025

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"Una sciocca storia irlandese che non avrebbe fruttato un centesimo."

È così che i produttori di Hollywood liquidano il regista John Ford quando presenta loro l’idea di Un uomo tranquillo. Eppure quel film, fatto di pioggia sottile, cieli bassi e sentimenti taciuti, diventa uno dei più amati dal pubblico. E, non a caso, il suo preferito.
Pochi registi hanno saputo raccontare il sogno americano e i valori della frontiera con la stessa profondità di Ford.
Dovete sapere che, pur non essendo una grande fan del western, Ombre rosse ha un posto speciale nel mio cuore. L’ho amato anche grazie a chi me l’ha fatto conoscere: un professore capace di svelarne le sfumature più nascoste, la complessità dei personaggi, il loro ruolo nella società. Un racconto che mi ha fatto vedere oltre il genere, e mi ha conquistata.
Poi ho visto un altro film dello stesso regista, Ford, che però non è un western: Un uomo tranquillo. E lì è scattato qualcosa di diverso. Non si trattava solo di apprezzare un grande film, ma di sentirlo vibrare dentro. Una storia che sa di ritorno, di terra bagnata, di promesse sussurrate. Un’Irlanda che non è solo un luogo, ma uno stato d’animo.
Questo film non compare quasi mai nelle classifiche ufficiali dei capolavori fordiani. La critica gli preferisce Sentieri selvaggi o la trilogia della cavalleria. Ma il pubblico non ha mai smesso di amarlo.
Ford stesso lo considera il suo film più personale, e anche il più sensuale. Una sensualità fatta di attese, di sguardi che durano troppo a lungo, di emozioni sospese. Tutto si gioca nei non detti, nei gesti misurati.
E poi c’è lei, quella forza della natura di Maureen O’Hara. 

 

Fiera, intensa, magnetica. Una donna che sa reggere lo sguardo di John Wayne, che lo sfida e lo accompagna, senza mai farsi da parte. Come ha detto il figlio di Wayne, Michael, “lei poteva tenergli testa bacio per bacio, pugno per pugno, passo per passo”.
Ancora oggi Un uomo tranquillo continua a essere amato in tutto il mondo. I luoghi dove è stato girato, in Irlanda, sono diventati meta di pellegrinaggi affezionati. E c’è un ponte, in particolare, che ti resta dentro. Fatto di sassi irregolari, curvo come un abbraccio. Ma se lo vedi una volta, lo riconosci tra mille. Sembra uscito da un libro di favole. Ti culla. Ti chiama. Ti fa desiderare di attraversarlo.
Ecco perché oggi voglio portarvi dietro le quinte di questa storia.
Per raccontarvi com’è nata, chi l’ha resa possibile e perché, anche se può sembrare solo una tranquilla storia irlandese, continua a parlarci ancora adesso.
Perché certe storie, anche le più semplici, sono quelle che durano di più.

Il titolo originale è The quiet man ed è un film del 1952 diretto da John Ford con protagonisti John Wayne e Maureen O'Hara.


 

La trama in breve: Sean Thornton, ex pugile americano dal passato doloroso, torna nella natia Irlanda con il desiderio di lasciarsi alle spalle la violenza e iniziare una nuova vita. Si stabilisce a Inisfree, un piccolo villaggio immerso nel verde, dove acquista la casa della sua infanzia e si innamora di Mary Kate Danaher, una donna fiera e passionale. Ma il loro amore incontra l’ostilità del fratello di lei, un uomo autoritario e orgoglioso che si oppone al matrimonio e si rifiuta di concedere la dote.

Alcune scene del film

Foto promozionali

Alla fine della Seconda guerra mondiale, Hollywood è ancora una macchina ben oliata.
Il sistema degli Studios funziona, le sale sono piene, e il cinema è il grande rito collettivo di un’America che ha bisogno di sognare.
I generi più amati sono quelli che promettono certezze: il melodramma, il noir, il musical, il western.
Storie di eroi, passioni forti, finali risolutivi. Tutto torna al suo posto, almeno sullo schermo.
Ma intanto il mondo sta cambiando.
I soldati rientrano a casa, le donne che avevano preso il loro posto nelle fabbriche cercano di capire che ruolo avranno. La voglia di leggerezza convive con quella di capire cosa c’è stato davvero, cosa ha lasciato la guerra, cosa resterà. E anche il cinema, piano piano, comincia a farsi domande nuove.
Si aprono spiragli. Piccoli, incerti. Ma ci sono. È un momento di passaggio, anche se ancora non lo sa nessuno. La macchina dello spettacolo continua a girare, ma l’aria è diversa.
C’è bisogno di racconti più intimi, di storie radicate nei luoghi, nei sentimenti, nei legami. E proprio in questa America che si riorganizza — tra luci abbaglianti e zone d’ombra — una storia diversa comincia a bussare. Non fa rumore. Ma è pronta a farsi sentire. 

Prima ancora che fosse un film, The Quiet Man è stato un racconto. E prima ancora che diventasse un racconto, è stato un luogo.
Un posto preciso, nell’Irlanda del sud-ovest, tra pascoli, vento e tetti di paglia: Ballydonoghue, poco fuori Listowel, nella contea di Kerry. È lì che nel 1879 nasce Maurice Walsh, terzo di dieci figli, cresciuto in una casa di tre stanze con il tetto di paglia, tra libri, cavalli e racconti tramandati a voce.
Suo padre non era un grande contadino, ma sapeva raccontare storie. E questo, forse, è stato il dono più grande che ha lasciato al figlio.

Quel mondo rurale, fatto di gesti antichi, orgoglio, silenzi e riti comunitari, sarebbe diventato il cuore pulsante della scrittura di Walsh.
Nelle sue pagine, l’Irlanda non è mai sfondo: è personaggio. Ha memoria, ha umore, ha radici. E i nomi non sono inventati. Il celebre Paddy Bawn Enright, protagonista di The Quiet Man, era davvero un bracciante che lavorava nella loro fattoria, ed è stato lui a ispirare quel personaggio taciturno, massiccio, che preferisce la pace allo scontro, ma che conosce bene il significato dell’onore.
Dopo aver studiato a Listowel e lavorato per il governo britannico nelle Highlands scozzesi, Maurice Walsh comincia a scrivere. All’inizio racconti sparsi, poi il primo vero romanzo, The Key Above the Door, scritto durante un periodo doloroso, separato dalla sua famiglia nel caos della guerra civile irlandese.
Quel libro, grazie anche a una lettera entusiasta di J.M. Barrie (l’autore di Peter Pan), gli apre le porte del mondo editoriale.
Ma è solo nel 1933, dopo il pensionamento, che la sua carriera cambia direzione.
Walsh invia un racconto breve al Saturday Evening Post, la prestigiosa rivista americana. Il racconto si intitola The Quiet Man. È una storia semplice e asciutta, dove il vero conflitto è interiore, e la battaglia più importante si gioca tra orgoglio, amore e senso dell’onore. Ambientato in un’Irlanda mitica ma autentica, radicata nella memoria popolare, quel racconto colpisce subito chi lo legge.
Tra questi, c’è anche un certo John Ford. Forse non è un caso se proprio questo racconto — tra i tanti letti in una vita — ha saputo risuonare così fortemente nell’anima di questo regista.


Figlio di immigrati irlandesi della contea di Galway e di Inis Mór, cresciuto nel Maine in una famiglia numerosa dove si parlava ancora gaelico, Ford aveva sempre guardato all’Irlanda come a un luogo mitico e irrisolto, mai del tutto perduto, mai davvero raggiunto.
Il suo vero nome era John Martin Feeney, ma Hollywood lo avrebbe conosciuto come John Ford, nome ereditato dal fratello maggiore Francis, che lo introdusse giovanissimo nei set della Universal.
All’inizio fa di tutto: comparsa, trovarobe, controfigura. Poi, in breve tempo, regista. E non uno qualunque. 
Già dalle prime pellicole mute si riconosce in lui una voce personale, capace di raccontare le grandi epopee collettive (la frontiera, la guerra, la ferrovia) con uno sguardo intimo e umano.
I suoi film parlano spesso di famiglia, comunità, tradizioni, eredità, e dietro quell’epica americana si intravede sempre il respiro profondo delle sue radici irlandesi.

Fin dagli anni ’20 Ford aveva cercato più volte di raccontare l’Irlanda al cinema — in modo diverso, affettuoso, quasi nostalgico. Con The Quiet Man, quel desiderio prende forma. Quando legge il racconto di Walsh, Ford se ne innamora subito. Nel 1936 acquista i diritti per dieci dollari. E da quel momento, inizia a inseguirne la trasposizione cinematografica. Ma l’industria non gli semplifica la vita.
Una commedia romantica ambientata in un villaggio irlandese, con pecore, doti e risse al pub, sembra l’opposto di ciò che Hollywood cerca in quegli anni. Ancora meno appetibile è l’idea — testarda — di Ford di girare tutto in esterni, sul posto. Nessuno è disposto a finanziarlo. Il progetto rimane lì, tra le sue carte, come una promessa rimandata.
Nel 1944 coinvolge informalmente quattro attori con cui ha un rapporto speciale: John Wayne, Maureen O’Hara, Barry Fitzgerald e Victor McLaglen.
O’Hara in particolare diventa parte attiva nel processo creativo.
Ogni estate, quando passa del tempo con la famiglia Ford, prende appunti mentre navigano con il regista sulla sua barca. Parlano di dialoghi, scene, intuizioni. Il film è già lì, anche se nessuno ha ancora acceso una macchina da presa.
La prima bozza della sceneggiatura viene affidata a Richard Llewellyn, ma non convince.
Ford allora si rivolge a Frank S. Nugent, ex critico del New York Times e sceneggiatore con cui aveva già collaborato.
Nugent conosce il tono che Ford cerca: intimo, ma con spazio per l’umorismo.
“Abbiamo tracciato la storia con cura,” dirà Ford, “ma lasciando sempre spazio alla possibilità di inserire la comicità, se fosse emersa naturalmente.”
Nugent fa molto più di un semplice adattamento.
Cambia il nome del protagonista da Paddy Bawn Enright a Sean Thornton. Introduce Feeney, il servitore burbero, usando il cognome della famiglia Ford. E soprattutto aggiunge un elemento fondamentale: nel racconto originale, il protagonista non combatte per la dote semplicemente perché non gli interessa.
Nella versione di Nugent, Sean è un ex pugile che ha accidentalmente ucciso un uomo sul ring. Un uomo che ha smesso di combattere per sempre. Questo dettaglio cambia tutto: rende la sua riluttanza più profonda, più tragica. A quel punto, ogni gesto trattenuto acquista un peso nuovo.
Nel 1946 Ford fonda, insieme a Merian C. Cooper, la Argosy Pictures. Il primo progetto dovrebbe essere proprio questo. Scrive all’amico irlandese Michael Killanin per sondare il terreno. Si parla perfino di un coinvolgimento del produttore britannico Alexander Korda. Ma anche questa volta, tutto sfuma.
“Ogni estate ci tenevamo liberi,” ricorda Maureen O’Hara, “e ogni estate non succedeva nulla. A un certo punto andammo da Ford e gli dicemmo:  ‘Se non vi sbrigate, io dovrò interpretare la vedova, e John la parte di Victor McLaglen!’”
Alla fine degli anni ’40, è proprio John Wayne a forzare la mano. Sotto contratto con la Republic Pictures, sfrutta la sua influenza per sostenere il progetto.

Il capo dello studio, Herbert Yates, fiuta l’occasione di avere Ford nel suo catalogo, ma è diffidente.
Pone una condizione: Ford dovrà prima dimostrare il suo valore commerciale con un altro film. Così nasce Rio Grande (1950), girato con lo stesso cast e parte della stessa troupe. Il film funziona, incassa, e a quel punto Yates è costretto a cedere. Con riluttanza, approva The Quiet Man.
Ma continua a non crederci. A primavera del 1951 definisce il progetto “un film d’essai finto” e tenta persino di dissuadere Wayne, dicendogli che quel ruolo lo rovinerà.
Per placarlo, Ford accetta di limare il budget: Wayne e O’Hara lavorano a cifre inferiori al loro standard. Yates insiste anche per cambiare il titolo in The Prizefighter and the Colleen (il pugile e la fanciulla irlandese). Ford non ci pensa nemmeno: “Svela troppo,” dice.  E questa volta, vince lui.

Quando lo si guarda in Un uomo tranquillo, con quella presenza solida ma guardinga, viene difficile pensare che John Wayne sia stato un giorno un ragazzo con un sogno da quarterback.


E invece tutto comincia lì, nei corridoi della University of Southern California, dove Wayne è una promessa del football e si fa notare per fisico, carisma e presenza scenica.
A Hollywood ci arriva quasi per caso: Tom Mix, star dei western muti, gli propone un lavoretto estivo come assistente di scena in cambio di biglietti per le partite. Sul set conosce John Ford. E la sua vita cambia per sempre. Tra i due nasce un legame che va ben oltre la collaborazione professionale: è una vera alleanza creativa, spesso ruvida, a volte aspra, ma cementata da rispetto reciproco.
Wayne recita per anni in pellicole minori, accumulando più di 70 film di serie B, quasi tutti western, prima che Ford decida di “promuoverlo” a protagonista. Con Ombre rosse (1939), Wayne diventa una stella. Da lì in avanti, i due firmeranno insieme 23 film in oltre 30 anni, tra cui la trilogia della cavalleria (Fort Apache, I cavalieri del Nord Ovest, Rio Grande), Sentieri selvaggi e I dannati e gli eroi.
Wayne prende il suo soprannome, Duke, dal suo cane di quando era bambino.
Ma Ford, nel tempo, gli insegna a essere qualcosa di più di un “duro” dallo sguardo fisso. Lo trasforma. Lo complica. In Un uomo tranquillo, questo percorso arriva al suo punto più sottile.
Il Sean Thornton interpretato da Wayne non è un uomo remissivo, ma non è nemmeno il classico maschio dominante che il pubblico si aspetta.
Non è un cowboy col cappello calato sugli occhi, ma un uomo ferito, che cerca di ricominciare da capo.
Viene in Irlanda con un passato pesante, con qualcosa che ha lasciato sul ring e che non può più cambiare. E in questo paese “di sassi e poesia”, tra gesti antichi e orgoglio popolare, trova una donna — e una terra — che non lo sfidano, ma lo mettono alla prova.
In una scena che ancora oggi sorprende per delicatezza, Sean sfonda la porta della loro camera da letto dopo che Mary Kate, la moglie, si è rifiutata di consumare il matrimonio. Ma non è la scena da melodramma maschilista che ci aspetteremmo. Lui la prende, sì, ma solo per portarla sul letto, guardarala negli occhi e poi uscire. Passerà la notte da solo, nel suo sacco a pelo. Il gesto più forte è quello che non compie.
E ancora: quando le compra il carro e il cavallo, la lascia guidare. Sembra poco. Ma non lo è.
In quell’Irlanda filtrata dall’affetto e dalla nostalgia di Ford, e nella Hollywood del 1952, una donna che guida un carro da sola è un’immagine rivoluzionaria.
Sean Thornton non si redime attraverso la forza, ma attraverso la scelta di rallentare, ascoltare, appartarsi, in un mondo dove l’onore si misura con il silenzio e con la pazienza.
E John Wayne, sotto la direzione di Ford, lo fa senza rinunciare alla sua presenza scenica, ma sfumandola, dosandola. Per una volta, è l’eroe che impara a non combattere.

Per raccontare l’Irlanda sognata e idealizzata che John Ford aveva in mente, non poteva che esserci Maureen O’Hara.

 

Nata a Ranelagh, sobborgo di Dublino, comincia a recitare da giovanissima. A soli 14 anni vince premi nei festival teatrali, debutta con gli Abbey Players — lo stesso gruppo che avrebbe formato attori come Barry Fitzgerald — e poi approda a Londra, dove Alfred Hitchcock la nota e la scrittura per Jamaica Inn (1939). Ma è Charles Laughton a cambiarle la vita: la porta a Hollywood, la vuole come Esmeralda nel suo Hunchback of Notre Dame, e le apre le porte del cinema americano.
La sua carriera trova una spinta decisiva con Com’era verde la mia valle (1941) di Ford, che la dirigerà più volte negli anni successivi.
Ma è proprio con Un uomo tranquillo che Maureen O’Hara raggiunge una delle sue vette più memorabili. La sua Mary Kate Danaher è tutt’altro che una donnina fragile e devota: è testarda, fiera, passionale, pronta a colpire, a fuggire, a pretendere rispetto. Tiene testa al fratello, al marito, al paese intero. Non accetta che le si neghino la dote e i mobili, non per una questione di denaro, ma perché sono il simbolo della sua identità, della sua autonomia, del diritto a essere riconosciuta e rispettata.
Come osserva la critica Molly Haskell: “In modo tutto americano, lui percepisce la cosa come un attacco alla sua mascolinità… finché lei non gli fa capire che non sono i soldi, ma ciò che rappresentano.”
È uno dei rari ruoli femminili degli anni ’50 in cui la donna non aspetta di essere salvata, ma mette alla prova l’uomo. E O’Hara, con la sua bellezza fiera e il temperamento da fuoco, dà al personaggio una verità che ancora oggi incanta.
O’Hara e Wayne formano una delle coppie romantiche più forti del cinema classico, anche se la critica le ha spesso riservato un’attenzione minore rispetto ad altre.
Recitano insieme in cinque film, tre dei quali diretti da Ford (Rio Grande, The Quiet Man, The Wings of Eagles) e due realizzati in seguito (McLintock! e Big Jake), quando il loro affiatamento era già leggenda.

E ora veniamo a Barry Fitzgerald che interpreta Michelino Flynn, una delle anime più vivaci del film. 

 

È la voce ironica e popolare, un misto di saggezza contadina, malizia e poesia, che contribuisce a costruire quell’Irlanda da fiaba che Ford voleva evocare. Michelino sa tutto, vede tutto, e a volte, quando serve davvero, dice anche la verità. È lui a guidare Sean Thornton attraverso le regole non scritte del villaggio, tra antiche consuetudini e ostinazioni familiari. Ma non è mai una macchietta: con i suoi occhi furbi, la parlantina svelta e quel modo tutto suo di restare incantato davanti a un bacio, diventa la vera bussola del film, sempre pronto a cogliere la poesia anche nei gesti più quotidiani. Dietro quei brindisi, le carrozze scassate e le frasi fulminanti, c’è un personaggio costruito con cura e affetto.
Fitzgerald, nato William Joseph Shields, è cresciuto tra le assi dell’Abbey Theatre di Dublino, dove si era già distinto nei testi di Sean O’Casey. Non aveva l’aspetto dell’eroe hollywoodiano – basso, voce roca, volto segnato – ma proprio per questo ha lasciato il segno. Dopo il debutto cinematografico con L’aratro e le stelle diretto da Ford, si è specializzato in ruoli di saggi, sacerdoti, vecchi marinai e uomini del popolo, sempre con un’umanità palpabile. La sua carriera lo ha portato fino all’Oscar con La mia via (1944), ma per molti spettatori resterà sempre Michelino, con quel bicchiere sempre mezzo pieno, un cavallo testardo da domare e lo sguardo incantato di chi, forse, alla favola un po’ ci crede davvero. Se volete scoprire qualcosa in più sulla sua vita, l’ho raccontata in un altro articolo a lui dedicato.

Victor McLaglen, nei panni dell’irascibile Will Danaher, è forse uno dei personaggi più iconici di Un uomo tranquillo, e non a caso. 

Con Ford aveva già costruito un sodalizio di lunga data: insieme avevano girato dodici film, sei dei quali con John Wayne. Ma prima ancora del cinema, McLaglen aveva vissuto una vita che sembrava uscita da un romanzo d’avventura. Nato in Gran Bretagna, aveva fatto il pugile in Canada e per un periodo era stato presentato come la “grande speranza bianca” destinata a sconfiggere Jack Johnson, il leggendario campione afroamericano dei pesi massimi. Lo scontro fu molto pubblicizzato, ma McLaglen perse al sesto round. Fu però proprio quella fisicità ruvida e quel passato combattuto a renderlo perfetto per certi ruoli, come quello che nel 1935 gli valse l’Oscar con The Informer, sempre sotto la direzione di Ford. Quando arrivano le riprese di Un uomo tranquillo, però, l’attore ha 64 anni ed è in condizioni di salute fragili. Il grande combattimento finale con Wayne, tra colpi, rincorse e birre rubate, deve essere coreografato con grande attenzione, spezzato in più giorni e inquadrature, ma il risultato è di una comicità irresistibile.
E mentre la rissa si allarga per tutto il villaggio, tra chi prende parte e chi corre solo a guardare, c’è un vecchio dai capelli bianchi che si alza dal letto di morte per non perdersi lo spettacolo. È Dan Tobin, uno dei personaggi più teneri del film. Ma nella realtà è Francis Ford, fratello maggiore del regista e figura importante del cinema muto, attore e regista a sua volta, che qui torna sullo schermo per un ultimo, affettuoso cameo. Morirà due anni dopo. E non è l’unico legame familiare sul set: Charles B. Fitzsimons, che interpreta Hugh Forbes, e James O’Hara, Padre Paul, sono i fratelli minori di Maureen O’Hara. 

Voglio aggiungere un’ultima chicca per chi, come me, ama le caratteriste indimenticabili. Tra le presenze più deliziose del cast c’è Mildred Natwick, attrice di teatro e cinema dalla classe impareggiabile, di cui ho raccontato la vita in un altro articolo (qui). Interpreta Sarah Tillane, la “vedova” del villaggio, corteggiata con cauta insistenza dal fratello di Mary Kate. È un ruolo piccolo, ma Mildred riesce comunque a renderlo memorabile grazie alla sua mimica facciale e a quell’eleganza ironica che la distingueva sempre.


Nata a Baltimora nel 1905, da una famiglia colta e benestante, Mildred aveva iniziato a recitare giovanissima prima di approdare a Broadway, dove venne notata proprio da John Ford. Fu lui a offrirle il primo ruolo cinematografico in Lungo viaggio di ritorno (1940), e la diresse poi in altri due western: In nome di Dio e I cavalieri del Nord Ovest. In Un uomo tranquillo, il loro sodalizio trova un’altra, tenera sfumatura: la vedova Tillane è uno dei pochi personaggi femminili maturi ad avere un suo spazio, e lo occupa con garbo, ironia e una sottile malinconia. Negli anni successivi la Natwick continuerà a brillare sullo schermo, fino a conquistare una candidatura all’Oscar per un ruolo diventato memorabile: la madre di Jane Fonda in A piedi nudi nel parco (1967), dove la sua comicità misurata e il suo tempismo perfetto la consacrano definitivamente nel cuore del pubblico.

Le riprese di Un uomo tranquillo cominciano nel giugno del 1951 (si concluderanno in agosto) e si trasformano subito in un’impresa collettiva, quasi familiare. John Ford porta in Irlanda figli, generi, amici, persino il suo sacerdote di fiducia da Hollywood, padre Stack, che benedice il set e offre qualche consiglio tecnico per rendere credibile il mondo religioso del villaggio. Sua figlia, Barbara Ford, da poco assistente al montaggio per la Argosy, affianca Jack Murray in sala di montaggio, mentre il figlio Patrick viene incaricato di dirigere la seconda unità — accanto a un altro regista d’eccezione: John Wayne.
L’atmosfera sul set è intensa, a tratti tesa, come spesso accadeva con Ford. Il regista ha un modo tutto suo per ottenere quello che vuole dagli attori. Anche se Victor McLaglen è stato un pugile professionista, ha ormai 64 anni e la salute non lo aiuta. Per scuoterlo prima della lunga scena della rissa finale con Wayne, Ford lo provoca pesantemente durante una prova, accusandolo di essere fiacco davanti a suo figlio. McLaglen borbotta per tutta la notte e il giorno dopo si presenta sul set pronto a dare tutto.
Anche per gli attori non è una passeggiata. Maureen O’Hara non usa controfigure, e quando Wayne la trascina attraverso i campi si riempie di lividi. Ma il peggio arriva nella scena in cui Mary Kate, furiosa, dà un pugno a Sean: lei colpisce davvero, lui para con l’avambraccio… e il risultato è che si rompe un osso del polso. Più tardi, con il vento che le sferza i capelli sul viso nel cottage, Ford le urla di aprire gli occhi. Lei, senza perdersi d’animo, risponde: «Che ne sa un figlio di p* calvo di cosa vuol dire avere i capelli negli occhi?».
Wayne non è da meno. Sensibile al trucco, si ritrova con il volto gonfio come un pesce palla dopo essersi affidato — per tagliare i costi — alla truccatrice di O’Hara. Ford richiama subito il suo storico truccatore, Web Overlander. A detta dello stesso Wayne, fu un ruolo difficile: «Per nove settimane ho fatto soltanto da spalla per quei meravigliosi personaggi, e questo è davvero difficile».
Difficile, ma visivamente indimenticabile. Ford insiste per girare in Technicolor — nonostante il capo della Republic Pictures, Herbert Yates, voglia usare il più economico TrueColor — e affida la fotografia a Winton Hoch, maestro del colore. Ma l’Irlanda non collabora: sei settimane di pioggia e cieli nuvolosi, appena sei giorni di sole intermittente. Hoch è costretto a illuminare ogni scena in tre modi diversi, uno per il sole, uno per le nuvole, uno per la pioggia. Ma il risultato è quello che Ford voleva: un’Irlanda da leggenda.
Nel finale, dopo i titoli di coda, vediamo Mary Kate e Sean nel giardino che salutano. Maureen O’Hara si volta verso Wayne e gli sussurra qualcosa all’orecchio, provocando una reazione impagabile. Cosa abbia detto rimane un mistero: lo sanno solo lei, Wayne e Ford. Secondo le sue memorie, Maureen non voleva pronunciare quella frase — «non potevo proprio dirglielo a Duke» — ma Ford insisteva: voleva una reazione autentica. Gliela diede, a patto che nessuno ne svelasse mai il contenuto.
E poi c’è l’aneddoto del montaggio finale. Il primo cut di Ford dura 129 minuti. Ma alla Republic hanno una regola ferrea: nessun film sopra le due ore. Ford insiste che non c’è nulla da tagliare, ma si vede costretto a cedere. Torna dopo qualche giorno dicendo che la copia definitiva è pronta. La proiezione inizia… e al minuto 120, proprio nel mezzo della scena della rissa, lo schermo diventa bianco, le luci si accendono e in sala cala un silenzio gelido. Ford si alza e dice: «Come potete vedere, non c’è più nulla da tagliare. Ora siete voi a chiedermi gli ultimi nove minuti. Pensate davvero che il pubblico sarà diverso?». Ha vinto. Ottiene la versione integrale. E noi abbiamo Un uomo tranquillo esattamente com’era stato pensato.

 

Location

L’Irlanda, in Un uomo tranquillo, non è solo lo sfondo. È parte del racconto, quasi un personaggio. Ma non è l’Irlanda dei libri di storia, né quella dei telegiornali. È un’Irlanda reinventata, vista con gli occhi di chi l’ha sempre sognata più che vissuta. E in questo Sean Thornton e John Ford si somigliano: uno torna, l’altro arriva, ma entrambi inseguono qualcosa che assomiglia più a un ricordo o a un desiderio che a un luogo vero.
All’inizio Ford ha pensato di stabilirsi a Spiddal, il paese d’origine di suo padre. Ma si è reso subito conto che sarebbe stato impossibile trovare alloggio per tutta la troupe. Così la scelta è ricaduta su Cong, un piccolo villaggio al confine tra le contee di Mayo e Galway, dove il vicino Ashford Castle ha offerto abbastanza stanze per ospitare tutta la produzione. All’epoca Cong non aveva ancora nemmeno l’elettricità. Ma con l’arrivo dei generatori, dei camion e del fermento del set, il cinema ha portato anche la luce. Per la gente del posto è stata una festa, ma anche una sfida: molti hanno lavorato come comparse o tecnici, ma finivano spesso nelle inquadrature per sbaglio, complicando la continuità delle scene.
Molti luoghi attorno a Cong sono stati trasformati per diventare Inisfree, il villaggio immaginario in cui si svolge la storia. Il negozio di alimentari è diventato il pub di Pat Cohan e, alla fine delle riprese, il proprietario ha deciso di lasciare l’insegna. Oggi quel locale è un vero pub, dove si proiettano ancora ogni giorno spezzoni del film.

 

Ma non c’è fan di Un uomo tranquillo che non abbia sognato almeno una volta quel ponte di pietra, con i suoi sassi consumati e la curva dolce che sembra accoglierti come in una fiaba. Si trova lungo la R345, poco fuori Cong, e oggi è indicato come The Quiet Man Bridge, segnalato anche sulla N59.


In una delle scene più memorabili del film, Michaleen mostra a Sean “la casa dei vecchi Flynn”. In realtà, quel luogo incantato è uno dei monasteri medievali meglio conservati d’Irlanda: il Ross Errilly Friary, a pochi chilometri da Headford. Fondato nel XIV secolo e immerso nella campagna, oggi è disabitato. Ma sullo schermo, Ford lo trasforma in qualcosa che va oltre lo spazio e il tempo: un legame con le radici, un senso di spiritualità e di memoria collettiva.


Per la stazione ferroviaria si è usata quella di Ballyglunin, che è diventata la fittizia Castletown. Alcune scene degli interni sono state invece ricostruite a Hollywood, negli studi Republic, verso la fine di luglio.

Ultima, ma non per importanza, la St Mary’s Church of Ireland di Cong, protagonista anche di una piccola polemica all’epoca delle riprese. Nel film è qui che Sean porge a Mary Kate l’acqua santa all’uscita dalla messa, ma le cose sono un po’ più complesse. L’edificio in questione è infatti una chiesa anglicana, mentre l’acquasantiera — quel gesto tanto cattolico e così carico di implicazioni romantiche — proviene dalla vicina chiesa cattolica di St Mary of the Rosary. La commistione tra i due spazi sacri non passò inosservata: il vescovo anglicano protestò ufficialmente contro l’uso cinematografico della chiesa, che nel film veniva trasformata in una sorta di parrocchia “ibrida”, con vetrate, elementi liturgici e simboli appartenenti a entrambe le tradizioni. Ma non si tratta di un errore. È una scelta precisa. Per Ford, l’Irlanda di Un uomo tranquillo non conosce confini confessionali. È un luogo di rito e identità collettiva, dove ogni gesto — anche quello apparentemente più piccolo, come un dito nell’acqua santa — può contenere tutto il desiderio, l’ironia e la tenerezza di una storia d’amore.

L’Irlanda di Un uomo tranquillo è sì idealizzata, ma non ingenua. Ford gioca con gli stereotipi, ma li sfuma con tenerezza e ironia. Anche il fratello burbero di Mary Kate ha i suoi momenti di dolcezza, anche il paesaggio più da cartolina si alterna al fango delle strade sterrate. È un mondo immaginato, certo, ma pieno di verità emotive. E forse, in fondo, questo basta per renderlo reale.

Per i costumi, Ford si è rivolto alla storica sartoria Ó’Maille di Galway, chiedendo abiti che riflettessero l’epoca ma anche l’identità contadina del posto. 

Colonna sonora 

Tra i fili che tengono insieme Un uomo tranquillo, la musica è uno dei più sottili ma resistenti. A firmarla è Victor Young, uno dei compositori più versatili e prolifici della Hollywood classica, che aveva già collaborato con Ford in altre due occasioni. Se volete conoscere la sua storia, ve l’ho raccontata in un altro articolo, dedicato a La porta d’oro. Qui ci basta dire che Young sapeva adattare il suo talento a qualsiasi tono, atmosfera, ambientazione.


Per questo film, costruisce una partitura che mescola brani originali e motivi tradizionali, dando voce a quell’Irlanda sognata e nostalgica che è il cuore emotivo del racconto. Il suo lavoro è in equilibrio perfetto tra lirismo e leggerezza, tra sentimento e ironia. La musica accompagna, non sovrasta. Sottolinea il tono favolistico del villaggio, rafforza la tenerezza tra i protagonisti, dà ritmo alle scene corali, e si ritrae con pudore nei momenti più intimi.
Young inserisce nella partitura diversi canti popolari irlandesi (tra cui The Rakes of Mallow, The Isle of Innisfree e Galway Bay), legandoli con armonie fluide e raffinate. La più celebre resta proprio The Isle of Innisfree, che apre il film e ritorna come leitmotiv ogni volta che Sean Thornton guarda la sua terra con occhi colmi di memoria. Fu John Ford in persona a chiedere che il tema di Innisfree diventasse il cuore musicale del film.
Young non vinse l’Oscar per questa colonna sonora — sebbene lo meritasse — ma in compenso contribuì a rendere eterno il paesaggio emotivo di Un uomo tranquillo. Le sue note, come la regia di Ford, non raccontano un luogo reale, ma uno stato d’animo. E continuano a risuonare ogni volta che pensiamo a quel villaggio senza tempo in cui tutti, almeno una volta, abbiamo desiderato rifugiarci. 

La première mondiale di Un uomo tranquillo si tiene il 6 giugno 1952, simultaneamente a Londra e a Dublino, all’Adelphi Cinema della capitale irlandese. Ford insiste perché sia proprio lì: è il luogo dove i suoi genitori si sono conosciuti, e l’omaggio non può che essere affettuoso e simbolico. In sala ci sono il presidente Seán T. O’Kelly e Maurice Walsh, autore del racconto da cui il film è tratto. L’evento viene descritto come affollatissimo: migliaia di persone fanno la fila per ottenere un biglietto, e centinaia restano fuori per mancanza di posti.
Il gestore dell’Adelphi invia un telegramma alla Republic Pictures: “Successo enorme. Acclamato da ogni parte del pubblico. Descritto come una ventata d’aria fresca persino nella verde isola d’Eire.” Per chi non è riuscito a entrare, Radio Éireann trasmette un programma speciale con interviste a ospiti e spettatori.
Il film resta in sala per altre sette settimane, battendo ogni record del cinema, perfino durante l’ondata di caldo di quell’estate. Prodotto con un budget di circa 1,75 milioni di dollari, Un uomo tranquillo incassa circa 7,6 milioni nella sua prima distribuzione: un risultato notevole per l’epoca, che lo consacra anche come successo commerciale.

Un uomo tranquillo diventa subito un fenomeno, anche grazie al legame emotivo con la cultura irlandese, alla popolarità di John Wayne e al ruolo del cinema nella vita quotidiana: nel 1952, in assenza della televisione, si registrano 49 milioni di ingressi in sala solo nella Repubblica d’Irlanda.
La première americana si tiene a New York il 21 agosto 1952.
Dopo il successo caloroso al botteghino e l’entusiasmo del pubblico, Un uomo tranquillo prosegue il suo viaggio anche nella stagione dei premi. E lo fa in grande stile.
La sera del 19 marzo 1953, al RKO Pantages Theatre di Hollywood, va in scena la 25ª edizione degli Academy Awards, presentata da Bob Hope. Tra le pellicole più attese c’è anche il film di John Ford, che si presenta con sette nomination: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia a colori, miglior attore non protagonista (Victor McLaglen), miglior sonoro e miglior direzione artistica.
John Ford, debilitato da problemi di salute, non è presente in sala. A ritirare l’Oscar per la miglior regia sale sul palco John Wayne, in un gesto che sembra chiudere simbolicamente il cerchio tra il regista e il suo attore feticcio. È il quarto Oscar alla regia per Ford — un record mai superato — e l’unico premio importante vinto dal film quella sera.

L’altra statuetta va alla fotografia a colori di Winton C. Hoch e Archie Stout, premiata per aver saputo cogliere la luce e l’anima dell’Irlanda con una grazia quasi pittorica. Nonostante Un uomo tranquillo non porti a casa il premio per il miglior film, lascia una traccia profonda nella memoria di quella serata. Un film “piccolo” rispetto ad altri titoli in gara, ma destinato a durare.
Negli anni, Un uomo tranquillo ha smesso di essere solo un film. È diventato un luogo dell’immaginario, un punto di riferimento emotivo per migliaia di spettatori che ancora oggi continuano a visitare quei luoghi, come se volessero verificare che esistano davvero.
A Cong, il villaggio dove si sono svolte le riprese in esterni, è stato creato un museo dedicato al film, con visite guidate giornaliere e tour che ricostruiscono fedelmente le scene più celebri. Alcuni edifici, come quello trasformato nel pub di Cohan, conservano ancora oggi insegne e dettagli del set. Le guide raccontano aneddoti, mostrano scorci che appaiono nel film, e condividono con i visitatori l’atmosfera sospesa che ancora aleggia tra quelle strade.
Anche molti dei miei lettori mi hanno scritto per raccontarmi della loro esperienza lì: di aver percorso gli stessi sentieri di Sean e Mary Kate, di essersi affacciati al ponte in pietra e aver scattato una foto, quasi a suggellare un sogno a lungo coltivato. Alcuni mi hanno detto di aver riconosciuto ogni inquadratura come si riconosce una poesia imparata a memoria, ma mai dimenticata.
E a proposito di memoria, vi racconto un episodio che rappresenta quanto questo film sia rimasto nel cuore del pubblico anche molti anni dopo.
Nel 1986, la moglie di un giovane poliziotto di New York, rimasto paralizzato durante il servizio, raccontò ai giornalisti che The Quiet Man era il film preferito di suo marito, e che lui adorava Maureen O’Hara.
Dopo aver letto la notizia, O’Hara volò a New York e si presentò al suo capezzale per offrirgli conforto. Lo accompagnò durante la riabilitazione, partecipò al battesimo del loro bambino e sfilò in una parata in suo onore.

Un gesto che forse dice tutto: quello che un film può lasciare, anche quando la sala si svuota, i titoli scorrono e la vita va avanti.

È più forte di me: quando scopro che una storia diventata un successo era stata inizialmente snobbata, mi scatta qualcosa dentro. Un uomo tranquillo, liquidato da Hollywood come “una sciocca storia irlandese che non avrebbe fruttato un centesimo”, ha invece conquistato il cuore del pubblico da ormai 73 anni. E non ha mai smesso. Per John Ford, questo film non era solo un progetto. Era una missione.
Il modo per rendere omaggio alla terra d’origine della sua famiglia, per restituire in immagini tutto ciò che aveva respirato da bambino nei racconti dei suoi genitori: la pioggia fine, il verde vivo, l’orgoglio, le leggende. E possiamo dire che ci è proprio riuscito.

Oggi questo film continua a emozionare, a commuovere, a far sorridere. È diventato un luogo del cuore, una storia che tanti — compresa me — sentono anche un po’ propria. E forse il segreto sta proprio lì: nella sua semplicità. Perché certe storie, anche le più umili, sono quelle che durano di più.
 

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