Per me è sempre stato il luogo in cui realtà e cinema si sovrappongono senza più un confine netto. Nella stessa hall potete immaginare Truman Capote che osserva gli invitati del suo Black and White Ball, studiandoli come personaggi, e Marlene Dietrich che attraversa lo spazio come una regina in esilio, avvolta nel visone bianco, di ritorno nella sua suite. Basta spostare di poco lo sguardo e, all’improvviso, sullo sfondo potrebbe comparire Kevin di Mamma ho perso l’aereo 2: Mi sono smarrito a New York, con la sua chiave in mano e quell’aria sospesa tra paura e meraviglia. È sempre lo stesso hotel, ma ogni volta sembra un set diverso.
Io al Plaza ci sono entrata davvero nel 2009, durante un viaggio con mia madre. Era il Ringraziamento, e abbiamo deciso di concederci una piccola follia: la cena del Thanksgiving all’Oak Room. Tacchino, purè, salsa ai mirtilli, le luci che si riflettevano sui bicchieri, il legno scuro tutt’intorno. Mi ricordo la sensazione precisa di quel momento: seduta a un tavolo che avrei potuto vedere in un’inquadratura, con la consapevolezza che, stavolta, la macchina da presa non c’era. C’eravamo solo noi, dentro una scenografia che fino ad allora avevo conosciuto soprattutto per interposta immagine.
Negli
anni, scrivendo per il blog, il Plaza è tornato spesso: per le sue
serate leggendarie, per le star che lo hanno scelto come rifugio, per le
fotografie scattate nelle sue stanze, per le storie che continuano a
depositarsi nei suoi corridoi. Dietro la facciata bianca affacciata sul
parco c’è una vicenda lunga e movimentata: progetti cancellati e
ricominciati da capo, uomini d’affari che hanno scommesso tutto su
quell’angolo di città, scioperi, trasformazioni, cambi di proprietà,
reinvenzioni continue. E prima ancora, al posto del Plaza, c’era solo
uno stagno usato come pista di pattinaggio.
Dopo palazzi più
silenziosi e un po’ dimenticati, è arrivato il momento di parlare di
lui: il simbolo, il mito, il Plaza Hotel. Un edificio che abbiamo
l’impressione di conoscere già, ma che custodisce molte più storie di
quante ne entrino in un’inquadratura.
E visto che dicembre riporta
puntualmente in televisione Mamma ho perso l’aereo 2: Mi sono smarrito a
New York, mi sembra il momento perfetto per tornare in quell’ingresso
sulla Fifth Avenue e provare a raccontare che cosa succede davvero,
quando le luci del set si spengono e il Plaza resta solo con la sua
storia.
Dallo stagno al castello bianco
Oggi il Plaza sembra
inevitabile: è lì, nel punto più fotogenico possibile, come se New York
lo avesse sempre avuto. E invece no. Per anni, su quell’angolo tra la
Fifth Avenue e Central Park, c’è stato uno stagno: uno specchio d’acqua
usato dal New York Skating Club, che d’inverno, quando ghiacciava, si
trasformava in pista di pattinaggio all’aperto.
Nel 1883 due uomini
d’affari, John Duncan Phyfe e James Campbell, comprano il terreno e
alcuni lotti vicini. In autunno annunciano un progetto firmato da Carl
Pfeiffer: inizialmente sono appartamenti di lusso, un edificio
residenziale pensato per sfruttare la posizione davanti al parco. Poi,
nel giro di pochi anni, l’idea cambia direzione: quell’angolo non
diventa un indirizzo “da abitare”, ma un indirizzo “da attraversare”. E
così nasce un albergo.
Il primo Plaza Hotel apre nel 1890: otto
piani, circa quattrocento stanze, un’eleganza di gusto europeo in stile
rinascimentale italiano. Per qualche anno funziona davvero come posto
importante: ci passano finanzieri in ascesa, aristocratici europei di
passaggio, viaggiatori che arrivano a New York quando la città comincia a
guardarsi allo specchio e a chiedersi se può competere con le capitali
del mondo. E soprattutto si capisce una cosa che resterà vera anche
dopo: non è solo l’hotel a contare, è il punto in cui si trova.
Quell’angolo, da subito, è una promessa.
New York però non resta mai
uguale abbastanza a lungo da accontentarsi. La Fifth Avenue si allunga, i
palazzi crescono, i terreni davanti a Central Park diventano oro. Così,
in poco tempo, il Plaza del 1890 comincia a sembrare rispettabile ma
già superato, mentre la nuova generazione di alberghi monumentali alza
l’asticella: il Waldorf-Astoria, in particolare, impone il suo standard
di lusso e di “definitività”. A quel punto la domanda diventa
inevitabile: se questo è davvero l’angolo migliore della città, perché
tenersi un hotel che non regge più il passo?
Nel maggio del 1902
arriva la svolta: un sindacato di investitori compra il Plaza e tre
lotti adiacenti su Central Park South per tre milioni di dollari in
contanti. È la più grande transazione cash mai conclusa fino ad allora
per una proprietà a Manhattan. A guidare il gruppo ci sono il finanziere
tedesco Bernhard Beinecke e Harry S. Black della Fuller Construction
Company. Da quel momento il destino del vecchio Plaza è segnato: non si
tratta più di ritoccarlo, ma di cancellarlo e ricominciare da capo.
Per capire il nuovo Plaza bisogna partire da loro due, che a prima vista non potrebbero essere più diversi. Beinecke è un emigrato tedesco che ha costruito la propria fortuna nel commercio della carne.
La sua è una
scalata silenziosa: anni di lavoro, margini calcolati, nessuno spreco. È
il classico self-made man ottocentesco che considera ogni dollaro come
un mattone. E quando investe negli alberghi non lo fa per capriccio:
vede negli hotel strumenti di reddito, certo, ma anche una forma di
prestigio pubblico, una rispettabilità fatta edificio.
Black, invece, è di tutt’altra pasta: più giovane, più esposto, più incline al rischio.
Sposando la figlia di George A. Fuller entra nell’impresa di costruzioni del suocero e, alla sua morte, ne raccoglie l’eredità alla guida della compagnia. Sotto la sua direzione l’azienda cresce in modo rapido e aggressivo, firma il Flatiron Building, Macy’s a Herald Square, e diventa una protagonista della nuova stagione delle costruzioni in acciaio. Black appartiene alla generazione che pensa in verticale: i limiti non li vede nei piani, ma solo nel finanziamento. Beinecke e Black arrivano da mondi diversi, ma si riconoscono. Il primo porta capitale accumulato con pazienza, il secondo capacità costruttiva e ambizione scenica. L’uno ha capito che gli hotel sono il modo più visibile per raccontare un’ascesa; l’altro dirige la società che sta ridisegnando lo skyline di New York. Non stanno comprando solo un indirizzo prestigioso, ma la possibilità di inventare un albergo diverso da tutti quelli esistenti. Il nuovo Plaza nasce proprio da qui: dall’idea condivisa che la tecnologia dello scheletro metallico non debba più essere riservata ai grattacieli per uffici, ma possa sostenere anche un grande hotel di rappresentanza affacciato su Central Park. Un edificio più grande e più alto, certo, ma anche più visibile e riconoscibile del suo predecessore. Un castello bianco che New York ancora non ha.
Per trasformare l’idea in un edificio vero servono soldi, e molti. È qui che entra in scena un terzo protagonista: John “Bet-a-Million” Gates, magnate dell’acciaio e del filo spinato, famoso quanto per la fortuna accumulata quanto per le sue scommesse spettacolari.
La firma di Hardenbergh
Su
quella voragine, Black, Beinecke, Gates e Sterry immaginano già una
torre bianca affacciata sul parco, capace di dominare l’angolo tra la
Fifth Avenue e Central Park South. È il momento in cui il Plaza smette
di essere un semplice progetto immobiliare e comincia a diventare,
davvero, un’icona in costruzione.
A dare forma concreta a quel sogno
viene chiamato Henry Janeway Hardenbergh, l’architetto che più di ogni
altro ha contribuito a inventare l’hotel moderno.
Ha già alle spalle il
Dakota e il Waldorf-Astoria, ed è considerato il riferimento assoluto
quando si tratta di coniugare lusso, funzionalità e rappresentanza. Per
lui un albergo non è mai solo una somma di camere e servizi: è un
organismo unico, in cui struttura, estetica e decorazione devono seguire
lo stesso ritmo, rispondere allo stesso “leitmotiv”.
Per il nuovo
Plaza, Hardenbergh parte da un dato semplice ma decisivo: la posizione.
Quell’angolo affacciato su Central Park e sulla Fifth Avenue è una
vetrina naturale, visibile da lontano su due fronti. L’edificio deve
reggere lo sguardo lungo delle carrozze che risalgono la Quinta Strada e
quello ravvicinato di chi entra dal parco. Hardenbergh lo immagina come
una grande colonna classica tradotta in scala urbana: base, fusto,
capitello.
La base è in marmo bugnato, solida, leggermente più scura,
pensata per ancorare l’hotel al suolo e dialogare con il via vai di
vetture e portieri. Il corpo centrale è un fusto alto e regolare in
terracotta color crema, ritmato da finestre allineate, balconcini e
modanature leggere che alleggeriscono la massa senza frammentarne la
forma. In cima, al posto di un capitello, Hardenbergh posa un tetto
mansardato in stile francese, con abbaini, timpani e piccoli rilievi: un
chiaro richiamo ai castelli della Loira, tradotto nelle proporzioni di
un grattacielo.
Il risultato è un castello rinascimentale francese
verticale, pensato non per un paesaggio rurale ma per il bordo di un
parco metropolitano. Rispetto al Waldorf-Astoria, che indulgeva nel
pittoresco e nel gioco di cortili, il Plaza punta a una monumentalità
più sobria e compatta. Non ha bisogno di stupire con trovate
scenografiche: si affida alla purezza delle proporzioni, alla chiarezza
delle superfici, alla forza dell’insieme. In un certo senso, i
proprietari superano il Waldorf proprio chiedendo al suo stesso
architetto di spingersi oltre, di firmare il suo vero capolavoro
alberghiero.
Quando le impalcature cominciano a salire e la struttura in acciaio della Fuller Company disegna nello skyline la sagoma di quella torre bianca, è già evidente che il nuovo Plaza non sarà uno dei tanti hotel di lusso, ma una presenza fissa nel panorama della città.
Il lato oscuro del Plaza
Dietro
quella facciata ordinata, però, il cantiere del Plaza è tutt’altro che
tranquillo. Come in molti grandi progetti dell’epoca, sotto la
superficie levigata della modernità si agitano tensioni legate al
lavoro, ai salari, alla manodopera sindacalizzata e non sindacalizzata.
Nel
luglio del 1906, mentre l’edificio è ancora in costruzione, il Plaza
diventa teatro di un episodio che la città preferirà dimenticare in
fretta. All’ottavo piano, un gruppo di fabbri sindacalizzati aggredisce
tre ex poliziotti assunti come sorveglianti del cantiere, accusati di
essere il braccio della direzione contro il sindacato. Durante lo
scontro, uno di loro, Michael Butler, viene spinto verso un’apertura del
pavimento: cade nel vuoto, si schianta sui solai sottostanti, muore
poco dopo per le ferite riportate. La stampa parla di “omicidio a
mezz’aria”, colpita dall’assurdità di una morte sospesa, nel cuore di un
edificio ancora incompiuto.
Dieci giorni dopo, sette fabbri
compaiono davanti al tribunale del coroner. Il processo è rapidissimo:
la giuria si ritira per appena mezz’ora e conclude che Butler è morto
per una caduta accidentale. Tutti assolti. In aula scoppia un applauso;
fuori, il New York Times parla invece di omicidio e di sconfitta della
giustizia, segnalando quanto profonde fossero le tensioni sociali dietro
quella violenza.
Con il passare dei mesi, il caso Butler scivola ai
margini della memoria. Il cantiere va avanti, i piani salgono, la
facciata prende forma. Quando il Plaza apre, nell’ottobre del 1907, è
come se quel corpo caduto nel vuoto fosse stato inghiottito dal racconto
ufficiale del progresso. Eppure la storia della sua costruzione porta
anche quella crepa invisibile: dietro l’immagine impeccabile del grande
hotel bianco ci sono state rabbie, conflitti, vite spezzate. Un
dettaglio che non compare nelle fotografie dell’inaugurazione, ma che
appartiene alla biografia nascosta del Plaza tanto quanto i nomi dei
suoi proprietari.
Debutto in società
L’inaugurazione del Plaza, il 1° ottobre 1907, è pensata fin dall’inizio come uno spettacolo. La hall di marmo è pronta, il personale in livrea ai propri posti, i lampadari accesi da ore, i fiori freschi ovunque. Sulla Cinquantanovesima Strada e lungo la Fifth Avenue si raduna una folla curiosa: non si tratta solo di vedere un nuovo albergo, ma di assistere alla nascita ufficiale di un luogo di cui si parla da anni, tra cifre imponenti e promesse di lusso senza precedenti.
Il momento simbolico arriva alle nove del mattino, con l’ingresso di Alfred Gwynne Vanderbilt, uno degli uomini più ricchi d’America, deciso a essere il primo ospite registrato. La scena però devia leggermente dal copione. Al banco della reception non c’è un impiegato, ma Mary Doyle, giovane irlandese addetta all’edicola, che si trova per caso dietro il banco. Vanderbilt non si scompone: firma il registro come “Mr. and Mrs. Vanderbilt and servant” e diventa, anche formalmente, il primo ospite del nuovo Plaza. La stampa si affretta a raccontare l’episodio, che la direzione lascia correre volentieri: il magnate e la ragazza qualsiasi funzionano benissimo come immagine pubblica, umanizzano il nuovo hotel. Perfino la “signora Vanderbilt” è in parte una finzione: la moglie non è presente e il matrimonio è già in crisi, avviato verso un divorzio tutt’altro che sereno.
Nel corso della giornata il Plaza diventa una
passerella ininterrotta. Arrivano milionari, uomini d’affari, membri
dell’alta società, ma anche volti riconoscibili al grande pubblico:
Billie Burke, che al cinema sarà la buona fata del Mago di Oz, e Mark
Twain, ormai mito vivente della letteratura americana. I giornali non si
limitano a elencare i nomi: pubblicano diagrammi che mostrano quale
piano sia occupato da ciascun magnate, come se la distribuzione delle
suite fosse una mappa del potere.
L’apertura del Plaza coincide anche
con una piccola rivoluzione urbana. Sul lato affacciato sulla Fifth
Avenue compare una flotta di venticinque automobili rosso fuoco: sono i
nuovi taxi della città, importati dalla Francia. Interni grigi, lunghi
sedili a panca, due sedili ribaltabili, autisti in uniforme grigio-blu
coordinata. Per gli ospiti del Plaza, quel primo giorno, le corse sono
gratuite: un gesto di cortesia, certo, ma soprattutto una mossa
pubblicitaria che lega l’hotel al volto più moderno di New York. Fino ad
allora chi non possiede una carrozza privata si affida alle vetture a
due ruote trainate da cavalli; le automobili sono ancora una curiosità.
Nel giro di pochi anni, però, le grida dei vetturini lasciano spazio ai
clacson dei taxi, e i cavalli diventano presenza marginale. Con una
certa ironia, oggi le carrozze sopravvivono quasi solo sul bordo di
Central Park, proprio davanti al Plaza, dove più di un secolo fa erano
apparsi i taxi che le avrebbero soppiantate.
Il Plaza apre così le sue porte mentre New York cambia pelle. Segna un nuovo standard di lusso alberghiero, ma inaugura anche un modo diverso di vivere la città. Nei primi anni, molti ospiti non sono viaggiatori di passaggio, bensì residenti permanenti che scelgono di lasciare le grandi case private per trasferirsi in hotel, attratti dall’idea di avere servizi moderni, personale a disposizione e di poter rinunciare alla gestione quotidiana di una servitù numerosa.
Oltre la soglia
Da fuori il Plaza è una massa compatta e disciplinata: facciata chiara, finestre in ritmo regolare, tetto mansardato che disegna una linea inconfondibile sul bordo di Central Park. Un castello francese tradotto nel linguaggio verticale di Manhattan. Ma basta scegliere da che lato entrare per capire quanto l’hotel abbia cambiato, nel tempo, il modo di presentarsi alla città.
Quando apre, nel 1907, l’ingresso principale è su Central Park South, lungo la 59th Street: Hardenbergh vuole che il primo sguardo cada sul parco. Da qui passano carrozze e prime automobili, da qui gli ospiti entrano nella hall di marmo. Solo nel 1921 il Plaza decide di “voltarsi” verso la Fifth Avenue: la terrazza su Grand Army Plaza viene eliminata per far posto all’ingresso che conosciamo oggi, con pensilina e tappeti rossi. Da allora quella è la facciata ufficiale; l’accesso sulla 59th Street resta il varco originario, più discreto.
Oltre la soglia si apre il foyer rococò in marmo: broccati rosa e verde, semicolonne con capitelli in bronzo dorato, una grande giardiniera con sedute. Sul fondo, quattro ascensori con porte in vetro lasciano intravedere i pistoni che scendono nella roccia: gli ascensori “a stantuffo”, meraviglia tecnica che resterà a lungo una firma del Plaza. Ai lati si allineano reception, sala per signore, edicola e negozio di fiori: un ingresso-salotto. Una rampa porta al mezzanino con agenti di cambio, telegrafo, telefono e salette di scrittura: la vita degli affari entra letteralmente nell’hotel.

All’angolo tra 59th Street e Fifth
Avenue si apre il Café, poi Edwardian Room: pannelli di quercia scura,
fregio di arazzi Aubusson, finestre su Grand Army Plaza e sulla casa dei
Vanderbilt. Una sala da pranzo raccolta, quasi domestica, che nei
decenni cambierà spesso funzione – ristorante, showroom, boutique – ma
resterà la stanza che guarda il parco da quell’angolo privilegiato.
Poco lontano c’è la Bar Room, destinata a diventare la celebre Oak Room. Il nome viene dal rivestimento: pareti e colonne immerse nel legno di quercia, spesso e avvolgente. Affreschi con castelli tedeschi, un lampadario carico d’uva, la barista dipinta che solleva un boccale. Col tempo la sala diventa il regno delle prime “power breakfast” di New York; tra i fedelissimi c’è George M. Cohan, e dopo la sua morte il suo tavolo viene segnato come Cohan Corner. In fondo corre il bancone che darà poi il nome all’Oak Bar: durante il Proibizionismo viene smontato e lo spazio diventa un ufficio di intermediazione.
Sul lato opposto del piano terra, affacciata sulla 58th Street, una sala di ricevimento introduce alla sala da tè, poi Palm Court. È un giardino coperto: soffitto a laylight, luce morbida su specchi e finestre, palme e grandi piante di gomma, balaustra di marmo. Dall’alto, statuette femminili – probabilmente da un palazzo italiano – osservano la scena; mobili verde e bianco, moquette spessa: l’ora del tè diventa un mormorio soffice. Qui Mrs. Patrick Campbell, pochi mesi dopo l’apertura, accende una sigaretta davanti a tutti: scandalo, sussurri, e l’intervento finale del personale. La Palm Court si rivela non solo sala da tè, ma palcoscenico dove il costume sociale può incrinarsi.
Al piano superiore Hardenbergh colloca il cuore mondano dell’hotel: la Grand Ballroom. Uno scrigno bianco e oro con broccati gialli, lampadari di cristallo e balconi su tre lati. La quarta parete ospita un palco che sale e scende con un pulsante, pronto per orchestra o discorsi: qui il Plaza vive gala, ricevimenti e balli di debutto di cui i giornali registrano nomi e dettagli.
Un livello più sotto si apre
la Terrace Room, tra gli ambienti più preziosi: restaurata per ritrovare
la grandiosità originaria, concentra alcune delle architetture più
raffinate del Plaza. I lampadari di cristallo disegnati da Charles
Winston, fratello del gioielliere Harry, replicano quelli di Versailles e
scendono come cascate di luce. È una stanza per ricevimenti più
raccolti ma non meno spettacolari: un’eco d’opulenza francese portata
nel cuore di Manhattan.
Come si sopravvive a un secolo intero
All’inizio
del Novecento il Plaza continua a mostrarsi come un mondo impeccabile
di argenti lucidati e lampadari di cristallo, ma le tensioni del secolo
bussano forte alla sua porta.
Nel 1912 esplode lo sciopero dei
camerieri, partito dall’Hotel Belmont e dilagato negli alberghi di
lusso. Anche al Plaza, nel pieno del servizio serale, un centinaio tra
camerieri e cuochi abbandona tavoli e cucine: salari bassi, turni
infiniti, mance erose da trattenute arbitrarie. Frederick Sterry
reagisce con una mossa preparata da tempo: ha fatto arrivare camerieri
dagli hotel del Sud, per lo più afroamericani. La loro comparsa nelle
sale del Plaza ribalta gli equilibri razziali di un settore ormai
dominato da personale bianco europeo. Il servizio riprende, ma il gesto
spacca il fronte: gli scioperanti parlano di tradimento, parte della
stampa nera di rivincita, alcuni leader afroamericani di
strumentalizzazione. Lo sciopero, lungo e povero di risorse, si chiude
con poche concessioni e nessuna vera vittoria: per una sindacalizzazione
effettiva degli hotel newyorkesi bisognerà attendere altri ventisei
anni.
Con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, nel 1917, il Plaza
cambia volto. I saloni si riempiono di uniformi, banchetti patriottici,
raccolte fondi; i menù si adeguano alle restrizioni della Food
Administration: farine alternative, giorni senza carne, porzioni
ridotte. L’hotel viene colto a immagazzinare zucchero oltre i limiti e,
per un mese, non può servire pane, dolci, gelati. Per i clienti il
razionamento ha un volto preciso: quello dei camerieri costretti a dire
“no”.
La pace porta un’altra scossa: il proibizionismo. Il bar, cuore
simbolico della vita alberghiera, scompare dalla scena ufficiale. Il
Plaza riconverte gli spazi: l’Oak Room diventa ufficio di
intermediazione finanziaria, dove nel 1929 gli investitori seguono i
nastri di Borsa in caduta; la Rose Room si trasforma in showroom
automobilistico. La mondanità si sposta negli speakeasy, ma l’alcol non
sparisce: entra in fiaschette tascabili, nelle prescrizioni di medici
compiacenti, nelle bottiglie di contrabbando passate di mano in mano da
personale che rischia il posto. Intanto i grandi alberghi, pieni di
gioielli e contanti, diventano bersagli ideali per ladri e truffatori;
anche il Plaza finisce in cronaca per furti clamorosi risolti più con
riscatti discreti che con processi.
Eppure, mentre la legge prosciuga
ufficialmente le bottiglie, il Plaza ritrova una nuova centralità
mondana. La Grill Room diventa il regno dei pomeriggi danzanti:
debuttanti, studenti di Princeton e Columbia, giovani in cerca di
visibilità sociale affollano i balli “innocenti” del tardo pomeriggio. È
un mondo elegante e un po’ inquieto, sospeso tra regole rigide e
piccole trasgressioni, in cui l’hotel continua a fare ciò che gli riesce
meglio: assorbire le scosse della storia e restare, agli occhi di New
York, un palcoscenico stabile.
Dopo decenni sotto la stessa gestione,
nel 1943 il Plaza viene acquistato da Conrad Hilton, che lo riammoderna
in piena guerra mondiale e lo consolida come simbolo internazionale del
lusso. Nei decenni successivi l’albergo passa di mano più volte, dalla
catena che diventerà Westin alle grandi cordate internazionali, ma
rimane un punto fermo dell’immaginario cittadino.
Nel 1988 arriva
Donald Trump, che lo compra a debito e lo trasforma in trofeo personale,
salvo doverlo cedere a metà anni Novanta dopo una ristrutturazione
costosa e una vicenda finanziaria complicata. Nel XXI secolo il Plaza
continua a cambiare proprietari, tra fondi e investitori stranieri, fino
all’attuale gestione Katara Hospitality / Fairmont: ennesima
metamorfosi per un edificio che, pur mutando forma giuridica e
proprietaria, resta uno dei volti più riconoscibili di New York.
Inquilini illustri
Negli anni Quaranta il fotografo e scenografo inglese Cecil Beaton fa del Plaza la sua base newyorkese. Prende una stanza fissa, la arreda con mobili d’epoca recuperati nei magazzini e la trasforma in un atelier sospeso tra Central Park e la Fifth Avenue.
Nel 1946 arriva la
commissione che aspetta da anni: fotografare Greta Garbo al Plaza per
Vogue. L’hotel diventa un set chiuso; Garbo accetta, ma impone una
regola: potrà uscire una sola immagine. È il suo modo di controllare
fino all’ultimo la propria figura pubblica. Beaton, però, consegna
abbastanza scatti per un doppio paginone. Il numero esce, le foto sono
splendide, ma il patto è rotto e Garbo lo vive come un tradimento. Nel
mito del Plaza resta soprattutto questo: una stanza d’albergo diventata
studio, e una diva disposta a farsi vedere solo finché può decidere
quale volto lasciare al mondo.
Che Marlene Dietrich scelga il Plaza come rifugio dice molto del tipo di leggenda che è ormai, a metà secolo.
Quando arriva a New York nel 1948 ha appena finito A Foreign Affair di
Billy Wilder; con il cachet compra una casa alla figlia Maria e al
marito, ma per sé sceglie una suite al terzo piano, la 317–325, decorata
dalla mondanissima Lady Mendl e presto nota come Lady Mendl Suite. Lì
allestisce il suo boudoir: Dior, pellicce, cappelli, bauli di trucco. Il
personale la vede attraversare la lobby avvolta in un visone bianco,
seguita dall’entourage, come una regina in esilio. Dietro la messa in
scena c’è un motivo semplice: Maria è incinta, e Marlene vuole essere in
città per la nascita del primo nipote. I giornali registrano la scena e
la incoronano “la nonna più glamour del mondo”. La sua vita al Plaza è
appartata e calibrata: colazione a letto con giornali europei,
pochissimi amici al tè del Palm Court, cene in suite a lume di candela.
L’hotel è guscio e osservatorio, prima di ripartire per Londra e girare
Stage Fright con Hitchcock.
Negli anni Cinquanta, mentre il Plaza cerca un nuovo ruolo nella New York del dopoguerra, una presenza lo segna più di molte altre: Kay Thompson.
Coreografa, arrangiatrice,
performer, futura scrittrice: una di quelle figure che sembrano vivere
tre vite contemporaneamente. Prima di approdare stabilmente all’hotel
passa dalla radio del Midwest a Hollywood. Alla MGM non è il volto sui
cartelloni, ma la mano che regola tempi e voci: come vocal coach e
arrangiatrice modella le interpretazioni di Judy Garland e Lena Horne,
entra nella cerchia più intima delle star e diventa madrina di Liza
Minnelli. Da quel mondo di partiture annotate e prove in studio nascerà
anche la sua unica grande prova da attrice: Maggie Prescott in Funny
Face (1957), direttrice di rivista ispirata a Diana Vreeland che apre
con “Think Pink!” e ruba la scena persino a Hepburn e Astaire.
Ma nel
1947 Kay prende aria: lascia lo studio e si reinventa nei nightclub.
Costruisce la celebre saloon beat con i Williams Brothers: pantaloni
disegnati da lei, voce che gioca sul tempo, ironia tagliente. Il
baricentro è il Plaza e, soprattutto, la Persian Room, il nightclub
dell’hotel: palcoscenico fisso e, di fatto, casa. Qui canta, balla,
dirige l’orchestra con un’energia febbrile, come una creatura da musical
anche fuori dallo schermo.
In quell’ambiente prende forma una voce
che Kay coltiva da anni tra amici e colleghi: una bambina capricciosa
che vive in albergo, ordina il room service, commenta gli adulti senza
filtri. L’origine resta volutamente ambigua; Thompson oscilla tra
invenzione pura e autoritratto. La svolta arriva quando D. D. Ryan,
editor di Harper’s Bazaar, la convince a farne un libro e la mette in
contatto con il giovane illustratore Hilary Knight. Lavorano
febbrilmente proprio al Plaza, usando l’hotel come laboratorio:
camerieri, portieri e direttori entrano sulla pagina; corridoi e saloni
diventano quinte. Nel 1955 nasce Kay Thompson’s Eloise: A Book for
Precocious Grown Ups. Eloise vive all’ultimo piano del Plaza e tratta
l’hotel come una città privata, tra lusso, solitudine e piccoli
sabotaggi. Il testo – flusso irregolare, comico e caustico – viene letto
come un’“Alice dell’era atomica”: una bambina troppo sveglia
intrappolata in un mondo adulto che lei ribalta.
Il Plaza capisce
subito la forza dell’invenzione e la incorpora nel proprio mito: il
libro in vendita, il ritratto in lobby, cartoline e gag del personale
per far “esistere” Eloise agli occhi dei bambini. Thompson cavalca
l’onda: usciranno quattro libri della serie. Poi arrivano attriti su
diritti e denaro; il rapporto con l’hotel si logora e Kay si allontana
sia dal Plaza sia dal personaggio. Dopo la sua morte, però, Eloise
resta: ristampe e merchandising la riportano stabilmente dentro
l’immaginario visivo dell’albergo.
Se Kay Thompson è il genio
inquieto che trasforma il Plaza in un teatro permanente, Liza Minnelli è
il legame vivente fra Hollywood, Broadway e quell’hotel sul parco.
Figlia di Judy Garland e Vincente Minnelli, cresce nel mondo dei musical
di cui Kay è architetta invisibile, e non a caso Kay è la sua madrina.
Negli anni Sessanta, agli inizi, Liza viene scritturata più volte alla
Persian Room: un nome giovane accanto ai grandi del jazz e del cabaret.
Più tardi, quando Kay verrà allontanata dall’hotel dopo anni vissuti in
equilibrio precario con il Plaza, sarà Liza ad accoglierla in casa: un
ultimo filo discreto che tiene insieme Eloise, la MGM e le stanze
dell’albergo.
I grandi eventi che ha ospitato
Per gran parte
del Novecento il Plaza non è solo un albergo: è il luogo dove le vite
private diventano cronaca mondana. Di giorno hall e Palm Court
appartengono a uomini d’affari, turisti, famiglie; la sera la scena si
sposta nella Grand Ballroom e nella Terrace Room, e l’hotel si trasforma
in un palcoscenico dove New York osserva se stessa vestita da sera.
Il
vertice di questo splendore resta il Black and White Ball del 1966: la
notte in cui Truman Capote usa il Plaza per mettere in scena la sua idea
di aristocrazia americana. Ve ne ho parlato qui.
Molto prima di Capote, però, la Terrace Room ha già una sua storia sentimentale e cinematografica. Nel 1949 ospita il ricevimento di nozze della campionessa olimpica di pattinaggio Sonja Henie con Winthrop Gardiner Jr.: una regina del ghiaccio che lascia le piste per entrare sotto i lampadari di cristallo, in uno spazio più raccolto della Grand Ballroom ma ugualmente spettacolare, perfetto per un matrimonio che deve sembrare intimo e, insieme, da cinegiornale.
Nel 1956, la stessa sala fa da sfondo a una delle immagini più patinate della New York anni Cinquanta: Laurence Olivier e Marilyn Monroe, fianco a fianco alla conferenza stampa per The Prince and the Showgirl. Lui, simbolo del teatro britannico; lei, il volto più riconoscibile del cinema americano. Attorno, giornalisti, flash, microfoni. Per qualche ora il Plaza è il punto d’incontro fra Londra e Hollywood, fra Shakespeare e la nuova mitologia bionda del dopoguerra.
Dodici anni dopo, nel 1968, quelle luci si riaccendono per Richard Burton ed Elizabeth Taylor, riuniti per presentare Doctor Faustus. È una sorta di eco: la stessa sala, un’altra coppia leggendaria, un film che parla di desiderio e dannazione, una relazione sentimentale che non è meno drammatica. La Terrace Room smette di essere solo una sala conferenze e diventa lo specchio di una coppia che ha abitato il Plaza anche come casa, con suite, bagagli infiniti, arrivi notturni.
Se la Terrace Room è la “camera ravvicinata”, la Grand Ballroom è il campo lungo. Nel 1954 ospita il ricevimento di nozze di Peter Lawford con Patricia Kennedy, sorella di John F. Kennedy: Hollywood che sposa una dinastia politica destinata alla Casa Bianca, sotto i lampadari di cristallo del Plaza. In sala si mescolano attori, produttori, politici, giornalisti: un’America che crede ancora possibile un’alleanza armoniosa fra glamour e potere.
Intorno a questi vertici
scorrono balli delle debuttanti, gala di beneficenza, serate di
raccolta fondi: giovanissime in abiti bianchi presentate alla società,
coppie che aprono le danze su valzer e foxtrot, hostess con vassoi
d’argento. Per decenni, “debuttare” o “sposarsi al Plaza” significa
inscrivere la propria storia privata in una geografia condivisa: entrare
in quell’album collettivo di immagini in cui l’hotel non è solo lo
sfondo, ma un co-protagonista silenzioso.
Il Plaza sullo schermo
Se c’è un momento in cui il Plaza entra definitivamente nell’immaginario del grande cinema è con Intrigo internazionale di Hitchcock (1959). Nell’Oak Bar Cary Grant, pubblicitario impeccabile, sta bevendo quando viene scambiato per il misterioso Kaplan e trascinato via da finti uomini d’affari. Il bar in legno scuro, le luci basse, il via vai di giacche e cravatte: è lo sfondo perfetto perché la quotidianità si incrini e il thriller abbia inizio. I retroscena di questo film li ho scritti qui.
Negli anni Sessanta il tono cambia. In A piedi nudi nel parco (1967) Jane Fonda e Robert Redford arrivano in carrozza all’ingresso, attraversano hall, ascensori, corridoi: in pochi minuti il film registra il Plaza come tappa obbligata della New York romantica, un lusso provvisorio prima del minuscolo appartamento nel Village. Questo film ve l'ho raccontato qui.
Con Appartamento al Plaza (1971) è l’hotel stesso a diventare protagonista. Neil Simon costruisce tre atti attorno alla suite 719: nel primo una coppia di mezza età torna nella stanza della luna di miele, nel secondo un produttore hollywoodiano tenta di sedurre una vecchia compagna di liceo, nel terzo i genitori cercano di far uscire la figlia chiusa in bagno il giorno delle nozze. Sempre la stessa stanza, sempre il Plaza, ma ogni volta un diverso grado di nevrosi borghese.
In Come eravamo (1973) il Plaza è lo sfondo di uno dei congedi più struggenti del cinema americano. Anni dopo la fine della loro storia, Katie e Hubbell si rivedono davanti all’ingresso su Fifth Avenue: lei con l'obiettivo di distribuire volantini contro la bomba atomica, lui è davanti dall’hotel con una nuova compagna impeccabile. Poche frasi, una ciocca di capelli sistemata con un gesto quasi automatico, e il Plaza alle spalle come simbolo di una New York dei sogni da cui i due sono ormai esclusi.
Negli anni Novanta il registro si sposta sul gioco. In Mamma ho riperso l’aereo – Mi sono smarrito a New York (1992) il Plaza diventa il parco giochi di Kevin: taxi all’ingresso, check-in con la carta di credito del padre, suite occupata come un quartier generale, montagne di gelato, ascensori usati come giostra, il confronto col concierge e il cammeo del proprietario dell’epoca. L’hotel non è più solo indirizzo dell’élite: è la fantasia natalizia di un bambino lasciato libero in un grande albergo.
In Funny Money – Come fare i soldi senza lavorare (The Associate, 1996) lo stesso ambiente diventa satira del potere. Whoopi Goldberg interpreta una consulente finanziaria brillante ma ignorata perché donna; per farsi ascoltare si inventa un socio maschile inesistente e arriva al Plaza travestita da questo “Cutty”. I tavoli perfettamente apparecchiati e gli uomini d’affari in smoking fanno da contrasto alla maschera: per entrare nel gioco deve letteralmente indossare il corpo dell’uomo di potere.
All’inizio degli anni Duemila, Eloise al Plaza (2003) riporta l’hotel nel territorio dell’infanzia. Il film, tratto dai libri di Kay Thompson, mette in scena una bambina che vive stabilmente al Plaza, corre nei corridoi, telefona al room service e tormenta il direttore cercando di aggiustare, a modo suo, la vita degli adulti. Con la fantastica Julie Andrews nel ruolo di Tata. In un cameo, l’artista di strada che la ritrae è Hilary Knight, l’illustratore storico di Eloise: un modo per chiudere il cerchio fra pagina illustrata e mito cinematografico dell’hotel.
Siamo alla fine di questo viaggio dentro
il Plaza, e mi piace pensare che, arrivati qui, per voi non sia più solo
il castello bianco affacciato su Central Park. Ora, accanto alle suite
dei film e alle fotografie in bianco e nero, ci sono lo stagno su cui si
pattinava, il cantiere difficile, gli scioperi, le notti di gala, le
vite in affitto nelle sue stanze, le bambine vere e inventate che ci
hanno corso dentro.
Se un giorno lo vedrete dal vivo, o semplicemente
lo ritroverete in una scena di un film vi invito a guardararlo con
questo sguardo in più. Nel film “Eloise a Natale”, a un certo punto la
protagonista chiede alla sua tata: «Esiste qualcosa di più meraviglioso
del Plaza a Natale?». Ecco, se questo articolo è riuscito nel suo
intento, spero che, per un istante, vi venga voglia di risponderle di
no.
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- lunedì, dicembre 22, 2025
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