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Quando mi chiedono qual è il mio film natalizio del cuore, rispondo sempre La vita è meravigliosa. È inevitabile: nessun altro sa scuotermi così a fondo, farmi piangere, rimettermi al mondo da capo.
Ma se invece mi chiedono quale film accendo per entrare immediatamente nello spirito del Natale, quello che basta un fotogramma per farmi tornare bambina, per sentire il legno che scricchiola sotto la neve e l’odore di una colazione di festa, allora la risposta cambia.
Perché c’è un titolo che non fallisce mai, che ogni anno rivedo con la stessa gioia: Il sergente e la signora. Sarà l’ufficiale più irresistibile che si sia mai visto, saranno i caratteristi meravigliosi, saranno quei costumi da far girare la testa… fatto sta che a questo film io cedo sempre, felicemente.
E se lo guardate in italiano, sappiate che è anche un piccolo capolavoro di doppiaggio: ci sono tutti. Lydia Simoneschi, Giuseppe Rinaldi, Emilio Cigoli, Carlo Romano e Mario Besesti.
Un cast vocale che oggi definiremmo “all star”, capace di dare al film un calore tutto italiano senza tradirne l’essenza originale.
Eppure, dietro la sua leggerezza brillante, si muove qualcosa di più profondo. Il film esce nel 1945, proprio mentre la guerra sta finendo e il ruolo delle donne, entrate nel lavoro, nell’editoria, nella produzione, è in un momento di svolta. Elizabeth Lane è la contraddizione vivente di quell’epoca: moderna, autonoma, e al tempo stesso costretta a interpretare un ideale domestico che non esiste più.
E poi ci sono i retroscena, quelli che fanno innamorare ancora di più: un curioso incrocio con Mildred Pierce, la storia sorprendente dello scenografo quasi scomparso dagli archivi e recuperato solo grazie alla tenacia di un pronipote, e perfino un dettaglio che lega Il sergente e la signora a una delle scene più commoventi di Million Dollar Baby. Due mondi lontanissimi, un filo sottilissimo.
In mezzo a tutto questo, loro: S.Z. Sakall che illumina ogni scena, Una O’Connor con la sua comicità nervosa, Dennis Morgan e Sydney Greenstreet che aggiungono ritmo, calore e contrasti perfetti.
Se ancora non lo conoscete, scommetto che riuscirò a farvi innamorare.
E alla fine dell’articolo vi dirò anche dove recuperarlo.
Il titolo originale è Christmas in Connecticut ed è un film del 1945 diretto da Peter Godfrey con protagonisti Barbara Stanwyck e Dennis Morgan.
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| Alcune scene del film |
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| Foto promozionali |
Trailer originale:
Siamo nella prima metà del 1945. In Europa la guerra sta finalmente rallentando, ma nel Pacifico il Giappone non ha ancora accettato la resa e gli Stati Uniti vivono in un clima di incertezza: tutti sanno che la fine è vicina, ma nessuno sa ancora quando.
In questo scenario, Hollywood continua a produrre film senza sosta, anche se l’atmosfera negli studios è cambiata. Ci sono materiali razionati, restrizioni, budget più controllati, e un’attenzione diversa verso ciò che il pubblico chiede. Per anni la produzione si è concentrata su film di propaganda, storie patriottiche, commedie di evasione e musical, tutti pensati per tenere alto il morale e offrire un momento di leggerezza in un mondo che leggero non è.
Nel frattempo, la società americana sta cambiando davvero. Con molti uomini ancora al fronte, le donne hanno assunto ruoli prima impensabili: lavorano nelle fabbriche, negli uffici, nelle redazioni, nelle mense militari, e perfino in alcuni reparti tecnici del cinema.
Hanno ottenuto indipendenza economica, nuove competenze e un rapporto diverso con sé stesse e con il lavoro. È un cambiamento concreto, che non sparirà con la fine della guerra.
Hollywood guarda, osserva, assorbe. Nei film cominciano a comparire personaggi femminili più sfumati, donne brillanti, autonome, capaci, ma spesso strette tra ciò che sono e ciò che ci si aspetta da loro. Le commedie giocano con questo contrasto; i melodrammi lo enfatizzano; il cinema romantico lo addolcisce. Ma intanto il cambiamento si vede, scivola nelle sceneggiature, nelle interpretazioni, nei dialoghi.
Ed è proprio in questo contesto, tra guerre non ancora concluse, ruoli che cambiano e un’industria che cerca nuovi equilibri, che la nostra storia prende forma.
La Warner Bros affida il progetto al produttore William Jacobs, uno dei nomi più solidi e instancabili dello studio. Tra il 1938 e il 1953 produrrà 59 film per la Warner, passando con disinvoltura da commedie leggere a musical: è lui, per esempio, che firmerà la produzione di diversi film con Doris Day, compreso Tea for Two.
Jacobs è il tipo di produttore che non si vede molto, ma che fa funzionare le cose. E quando apre il soggetto di Aileen Hamilton, capisce subito che può diventare la commedia natalizia che lo studio sta cercando.Per la sceneggiatura, Jacobs si rivolge a due professionisti interni alla Warner: Lionel Houser e Adele Comandini. Houser è uno specialista di casa, rapido e solidissimo; Comandini, cresciuta a New York in una famiglia italiana, ha invece un istinto naturale per il dialogo brillante. Insieme prendono lo spunto di Hamilton e lo trasformano in una struttura compatta, ritmata, tipica del lavoro “da studio system”: poche vanità, molta collaborazione e un obiettivo preciso.
Ed è proprio in questa fase che prende forma Elizabeth Lane. Un personaggio che non nasce dal nulla, ma dal clima culturale dell’epoca e da due figure reali che hanno definito l’immaginario della scrittura domestica americana.
La prima è Gladys Taber, una delle voci più amate del lifestyle statunitense. Comincia a scrivere durante la Grande Depressione per sostenere la famiglia, si trasferisce nel Connecticut, nella vera casa colonica di Stillmeadow, e lì costruisce la sua celebre rubrica Diary of Domesticity sul Ladies’ Home Journal. È un diario di vita rurale autentico: stagioni, ricette, animali, piccoli problemi quotidiani. Taber vive ciò che racconta, a differenza di Elizabeth, che lo inventa da un appartamento cittadino. Ma l’idea di una donna che parla all’America da una cucina del Connecticut nasce chiaramente da qui.
L’altra ispirazione è Clementine Paddleford, pioniera assoluta del giornalismo gastronomico. Food editor del New York Herald Tribune, vola in tutto il Paese — spesso pilotando il suo aereo — per raccontare come mangia l’America. Non è una cuoca provetta (la sua specialità è una bistecca con patate), ma la sua fama è immensa: nel 1941 finisce persino in una poesia del New Yorker, e nel 1953 il Time la definirà “la giornalista gastronomica più famosa d’America”. Anche lei ha una casa in Connecticut, dettaglio che avvicina ulteriormente la realtà all’immaginario del film.
Taber e Paddleford rappresentano due modi diversi di essere donne, professioniste e voci pubbliche negli anni della guerra: una radicata nella vita domestica, l’altra sempre in viaggio; una autentica fino al midollo, l’altra costruita sulla scoperta. Tra loro, come tra verità e immaginazione, si colloca Elizabeth Lane. Una figura che il pubblico del 1945 riconosceva immediatamente, proprio perché figlia del suo tempo.
Per la regia, la Warner sceglie Peter Godfrey, inglese con una lunga esperienza teatrale alle spalle.
Arriva a Hollywood nel 1939 e si fa notare subito per la sua capacità di dirigere commedie vivaci, mantenere un ritmo fluido e valorizzare gli attori senza forzature. Il suo stile asciutto, lineare e orientato al lavoro d’ensemble è esattamente ciò che serve al film.
Quando la Warner Bros acquista il soggetto, la scelta sembra già fatta: Bette Davis. Louella Parsons lo annuncia nella sua rubrica, e nessuno si sorprende. La Davis è reduce dal successo natalizio de Il signore resta a pranzo (1942), domina la Warner, e all’inizio del 1944 il progetto porta ancora il suo nome.
Poi, in poche settimane, tutto cambia. Le fonti dell’epoca e Robert Osborne di TCM concordano: la Davis rifiuta il ruolo, forse poco convinta da una commedia così leggera rispetto ai drammi che sta interpretando.
Ed è qui che la strada si apre per Barbara Stanwyck, proprio in un momento delicatissimo della sua carriera.
Ha appena terminato La fiamma del peccato (di cui vi ho parlato qui), un trionfo, certo, ma anche un ruolo che l’ha segnata, e sta guardando con grande interesse a Mildred Pierce. Quel personaggio la affascina profondamente. Per un po’ resta davvero in corsa, poi la produzione cambia forma, entrano altri sceneggiatori, Joan Crawford si fa sempre più centrale e la Stanwyck resta fuori. Una delusione che sente forte. Ed è esattamente allora che arriva Il sergente e la signora.
La Warner le propone Elizabeth Lane e lei accetta al volo. Dopo noir intensi e un ruolo drammatico sfumato, una commedia brillante è un cambio d’aria quasi terapeutico. E c’è anche un aspetto personale: suo marito, Robert Taylor, è lontano per la guerra; un film più leggero, girato in studio, ha un calore domestico che le fa bene.
Elizabeth Lane le si adatta con una naturalezza sorprendente.
È brillante, rapida, irresistibile nei suoi goffi tentativi domestici: quel tipo di comicità elegante in cui la Stanwyck eccelle senza mai forzare nulla. Sul set trova subito un’intesa perfetta con Peter Godfrey, alla loro prima collaborazione: lui ama gli ensemble fluidi, lei ha un senso del ritmo comico quasi musicale. Non a caso lavoreranno insieme altre due volte.
Alla fine Elizabeth arriva nella sua carriera nel momento giusto: quando un ruolo importante le sfugge, quando cerca leggerezza, quando la Warner ha bisogno di un volto carismatico e moderno per guidare questa commedia natalizia.
E Barbara la trasforma in una delle interpretazioni più affettuose e luminose della sua filmografia.
Ogni interprete di Il sergente e la signora porta in scena qualcosa di sé. Nel caso di Dennis Morgan è una gentilezza innata, quel modo di muoversi che sembra dire: “puoi fidarti”.
Prima di arrivare sullo schermo con quel sorriso disarmante, però, lui è Stanley Morner: un ragazzo del Midwest più vicino alla musica che a Hollywood. Studia canto al Conservatorio di Milwaukee, si forma a Chicago, si esibisce nei teatri e nei locali, scoprendo che quel misto di voce tenorile, presenza scenica e naturalezza ha un peso sorprendente.
Da lì Hollywood lo accoglie e lo reinventa. Debutta nel 1936 con il suo vero nome, diventa Richard Stanley alla Paramount e infine, alla Warner, assume quello definitivo: Dennis Morgan.
È l’epoca in cui gli studios adorano gli “young lugs”, come li chiama Shipman: ragazzi belli, affidabili, pronti ad accompagnare l’eroina finché non arriva una star di primo piano. Morgan rientra nella categoria, ma con qualcosa in più: un’eleganza tranquilla, niente pose da divo, e una voce che il cinema musicale capisce al primo ascolto.
La svolta arriva nel 1940, quando la RKO lo prende in prestito per Kitty Foyle. Ginger Rogers lo guarda e lo definisce “la personificazione dell’Arrow Collar Man”, l’uomo ideale delle pubblicità Arrow: impeccabile, romantico senza sforzo. Un’immagine che gli resta addosso per tutta la carriera.
Nel 1945 è ormai uno dei volti più amati della Warner: Screenland nota che riceve più posta dei fan di chiunque altro nello studio. Lo affiancano spesso a Jack Carson, creando una coppia irresistibile: Morgan, il gentile che conquista la ragazza; Carson, l’amico rumoroso che fa da contrappunto. Una formula che funziona alla perfezione.
Quando arriva Il sergente e la signora, Morgan è nel momento ideale per diventare Jefferson Jones. Ha tutto: la fisicità rassicurante del soldato buono, una tenerezza immediata, quell’energia semplice e diretta che il pubblico riconosce come autentica. È perfetto accanto alla brillantezza rapida di Barbara Stanwyck: lei scattante e ironica, lui luminoso e sincero.
Il resto della sua carriera in Warner sarà più accidentato, persino un western a basso budget usato per spingerlo a lasciare il contratto, cosa che lui non farà, ma tutto questo, nel 1944, è ancora lontano.
In Il sergente e la signora Dennis Morgan è esattamente ciò che il film chiede: un eroe gentile con il cuore al posto giusto. E il pubblico, allora come oggi, lo sente subito.
Sydney Greenstreet è uno di quegli attori che il pubblico associa subito ai ruoli minacciosi: l’imponente Kasper Gutman de Il mistero del falco, il volto subdolo di tanti noir Warner, spesso in coppia con Peter Lorre.
Eppure, dietro quell’aura da antagonista, c’è una storia che sembra già una commedia di per sé, dalle piantagioni di tè a Ceylon a una distilleria in Inghilterra, fino ai palcoscenici di Londra e Broadway.
Della sua vita vi ho raccontato tutto qui.
Quello che conta, dentro Il sergente e la signora, è il modo in cui Greenstreet gioca con la sua stessa immagine. La Warner gli affida uno dei suoi rari ruoli comici: Alexander Yardley, l’editore che fa tremare chiunque con un solo sguardo e che, proprio per questo, diventa una fonte inesauribile di gag.
La magia sta nel contrasto. Greenstreet non cambia nulla del suo portamento, resta monumentale, solenne, imperturbabile, ma la commedia sposta leggermente l’angolo. Da figura intimidatoria dei noir, diventa qui una presenza buffa e ingombrante che manda tutti nel panico senza mai perdere la dignità. È una trasformazione sottile, ma irresistibile.
Accanto alla Stanwyck e a Dennis Morgan, il suo Yardley è il detonatore silenzioso di molte delle scene più divertenti: basta il suo ingresso in una stanza perché la coreografia degli equivoci prenda vita.
Ed è proprio questa capacità di far ridere senza muovere quasi un muscolo che rende Greenstreet così prezioso in un film costruito sull’arte del “quasi detto” e del “quasi scoperto”.
E adesso arriviamo al personaggio che, lo ammetto, amo di più in questo film. Non perché gli altri non siano splendidi, ma perché ogni volta che S. Z. Sakall entra in scena l’atmosfera cambia: si ammorbidisce, si scalda, diventa improvvisamente più umana. È quel tipo di presenza che non si consuma mai, e forse è per questo che la sua filmografia preferisco “dosarla”, invece di divorarla tutta in una volta.
Nato a Budapest come Eugene Gerő, cresce in una famiglia modesta e si inventa una carriera quasi dal nulla, passando dal vaudeville alle operette fino al cinema europeo, con quello pseudonimo già cinematografico, Szőke Szakáll, “barba bionda”. La fuga dall’Europa nazista lo porta a Hollywood, dove diventa subito riconoscibile: caldo, affettuoso, irresistibilmente comico. Il pubblico gli dà un soprannome che lo definisce meglio di qualsiasi biografia: Cuddles.
In Il sergente e la signora è Felix, lo chef ungherese che cucina al posto di Elizabeth Lane e alimenta metà degli equivoci della trama. Sakall lo interpreta con la sua miscela inconfondibile di tenerezza e lieve agitazione, quel modo di muoversi e reagire che fa sorridere anche quando non dice nulla. Con Barbara Stanwyck trova un’intesa naturale: lei è rapida e brillante, lui morbido e attentissimo al ritmo emotivo della scena.
C’è anche un piccolo omaggio che mi commuove ogni volta. Quando Felix cita Budapest e il suo ristorante “dietro l’angolo”, riecheggia direttamente The Shop Around the Corner, ambientato proprio lì. Sakall apparirà anche nel remake musicale In the Good Old Summertime, come se si portasse dietro un frammento della sua città in ogni nuova storia.
Qui ritrova anche Sydney Greenstreet, con cui aveva condiviso Casablanca: allora erano figure immerse in un mondo di ombre, qui diventano il lato tenero e quello autoritario della commedia, un equilibrio che funziona benissimo. Sakall è il cuore caldo del film, un abbraccio che arriva sempre al momento giusto.
E poi c’è il corteggiatore di Elizabeth, John Sloan. A interpretarlo è Reginald Gardiner, attore britannico dal fascino impeccabile, uno di quei caratteristi che Hollywood usava come un ingrediente prezioso: basta aggiungerlo alla scena e tutto cambia tono.
In Il sergente e la signora è semplicemente irresistibile. Sloan è l’uomo “giusto” sulla carta: educato, affidabile, perfettamente ordinato. Ma è anche un architetto così concentrato sulla propria carriera da citare l’impianto idraulico… durante un bacio. Gardiner rende questa devozione professionale non fastidiosa, ma deliziosamente fuori luogo: ogni volta che dovrebbe pensare all’amore, gli scappa una considerazione tecnica, un dettaglio da progetto, un riferimento alla casa dei suoi sogni.
C’è un altro dettaglio che quasi non si vede, perché Gardiner lo gestisce con una naturalezza assoluta: in molte scene tiene la mano sinistra in tasca. È un’abitudine nata dopo un vecchio incidente che gli aveva lasciato quella mano più debole, ma sullo schermo diventa un gesto elegante, parte del personaggio, mai un limite.
Gardiner attraversa il film con una precisione comica magnifica: sempre composto, sempre sicuro di sé, sempre leggermente fuori tempo rispetto a tutto il resto. È l’uomo convinto che la vita segua la logica dei suoi progetti… finché la storia non glieli ribalta con una dolcezza tutta natalizia.
E poi c’è lei. Norah. La governante della casa nel Connecticut, quella che non permette invasioni nella sua cucina, che controlla tutto con lo sguardo di chi sa perfettamente cosa è giusto e cosa no. È un personaggio minuscolo sulla carta, ma immenso in scena. E a interpretarla c’è Una O’Connor, con quell’energia inconfondibile che rende ogni sua apparizione un piccolo evento.
Nata a Belfast come Agnes Teresa McGlade, Una si è formata all’Abbey Theatre di Dublino, dove ha imparato quell’arte del ritmo e del gesto rapido che poi porterà in ogni film. Durante una tournée americana viene notata e approda al cinema, diventando in breve una delle caratteriste più riconoscibili degli anni ’30 e ’40. È la locandiera che strilla ne The Invisible Man, la domestica Minnie ne La moglie di Frankenstein, la governante nel mondo dickensiano di David Copperfield, e molto più avanti sarà anche la memorabile Janet McKenzie in Testimone d’accusa, prima a Broadway e poi nel film di Billy Wilder.
In Il sergente e la signora , Una è semplicemente irresistibile. Norah si scandalizza per le situazioni ambigue in cui Elizabeth finisce suo malgrado, controlla che nessuno “corrompa” la moralità della casa, osserva i corteggiamenti con occhi spalancati e giudicanti, e soprattutto difende il suo regno, la cucina, come se fosse un territorio sacro.
La sua guerra fredda con Felix (S.Z. Sakall) è una delle gioie del film. Sono una di quelle coppie comiche che nascono da una frizione perfetta, quasi meccanica, e che danno al film la sua parte più domestica e divertita.
Mentre mi documentavo per questo articolo, mi sono imbattuta in un dettaglio che mi ha fatto amare Il sergente e la signora ancora di più. La mucca che provoca quel delizioso caos a metà film, nella versione originale, si chiama Mo Chuisle.
Chi ha visto Million Dollar Baby riconoscerà immediatamente quel nome: è lo stesso appellativo affettuoso che Clint Eastwood usa per Maggie, e significa semplicemente “mio tesoro”.
Una parola piccola, ma carica di dolcezza.
Quello che mi ha colpita è scoprire che questo nome non nasce dal gaelico “da manuale”, ma quasi sicuramente da una delle canzoni irlandesi più famose del primo Novecento, “Macushla”, un brano amatissimo negli Stati Uniti, cantato dai tenori più celebri dell’epoca.
È facile immaginare come un suono così musicale, già popolarissimo all’epoca, sia arrivato fino agli sceneggiatori della commedia del ’45.
Ed è bellissimo vedere come una parola che attraversa una canzone, un film natalizio pieno di equivoci e, decenni dopo, un dramma intensissimo come quello di Eastwood, riesca a creare un piccolo ponte invisibile tra storie lontanissime.
A vederlo non si direbbe affatto, ma Il sergente e la signora nasce nel periodo meno natalizio dell’anno: tra maggio e luglio del 1945.
Nonostante fuori dagli studios la California ribolla di luce, dentro la Warner c’è un clima sorprendentemente coerente con quello che vediamo sullo schermo: leggero, caldo (in tutti i sensi), affettuoso.
A dare il tono sono soprattutto Peter Godfrey e Sydney Greenstreet. I due non potrebbero essere più diversi, asciutto, british e un po’ teatrale il primo; massiccio, solenne e ironico il secondo, e proprio per questo funzionano magnificamente insieme. Le pause tra una scena e l’altra diventano il loro palcoscenico privato: improvvisano dialoghi assurdi, commentano a modo loro ciò che è appena successo, si lanciano piccoli sketch che fanno ridere l’intera troupe. È il tipo di intesa che non si può creare artificialmente: o c’è, o non c’è. E nel loro caso c’è, eccome.
Accanto a questa vena comica naturale, c’è poi la presenza quieta e inconfondibile di S.Z. Sakall.
Sul set è esattamente come lo si immagina: dolce, permaloso al punto giusto, lievemente confuso ma sempre affettuoso. E anche un po’ ostinato. Sakall rifiuta categoricamente il cibo americano, hamburger, hot dog, tutte quelle cose “senza anima”, come pare dicesse lui, e la moglie gli porta ogni giorno un pranzo ungherese preparato con cura. È un piccolo rituale, e tutti finiscono per aspettarlo con la stessa trepidazione con cui si aspetta uno dei suoi sorrisi in scena.

Nel frattempo, qualcosa del mondo reale filtra inevitabilmente anche nello studio. Siamo negli ultimi mesi della guerra: molti tecnici e scenografi sono ancora impegnati in produzioni di propaganda o materiali militari; diverse attrici e comparsate sono donne che, durante il conflitto, hanno iniziato a lavorare per necessità e che ora portano quella sicurezza nuova anche davanti alla macchina da presa.
Forse è anche per questo che il film include, quasi con naturalezza, quelle piccole immagini di quotidianità femminile: la giovane fattorina che consegna un pacco, le due madri che escono di casa per andare in fabbrica, le ragazze in uniforme al ballo. Non sono dettagli inventati: erano semplicemente l’America di quel momento. Un’America in cui le donne avevano retto il peso del lavoro mentre gli uomini erano al fronte, e ora non potevano più essere confinate nell’ombra.
Costumi
E ora scusate se mi farò prendere un po’ la mano, ma i costumi di questo film non possono essere dimenticati. Sia per la designer che li ha creati, sia per la loro forza narrativa. In Il sergente e la signora gli abiti non vestono soltanto Elizabeth Lane: la raccontano. Raccontano chi finge di essere, chi crede di essere e chi diventa davvero.
Dietro questa costruzione c’è Edith Head, prestata eccezionalmente dalla Paramount alla Warner solo per Barbara Stanwyck.
Un privilegio nato quando, ai tempi di The Lady Eve, Stanwyck capì che Edith non era una semplice costumista, ma la famosa “dottoressa dei vestiti”: capace di studiare corpo, movimenti e macchina da presa come un chirurgo dell’immagine. Con Barbara firma uno dei suoi lavori più intelligenti. Stanwyck ha un busto lungo e fianchi poco pronunciati, elementi che il bianco e nero può irrigidire. Edith interviene con un trucco quasi invisibile: alza leggermente la cintura sul davanti, accorciando il busto e sollevando la linea dei fianchi. Un dettaglio minuscolo che sullo schermo cambia tutto. Funziona perché entrambe partono dal personaggio. Barbara pensa da attrice, Edith da narratrice. E insieme costruiscono una galleria sartoriale che diventa un piccolo romanzo visivo.
La prima volta che incontriamo Elizabeth la vediamo nel suo appartamento di New York, piegata sulla macchina da scrivere: niente perfetta casalinga, ma una donna che lavora. Edith la veste di conseguenza: pantaloni neri morbidi, eleganza cittadina; una blusa bianca fluida con scollo a V e maniche ampie; e una cintura leopardata che rompe la compostezza con una nota personale. È il look di una donna moderna, non della “housewife” ideale delle riviste. Ed è qui che arriva un gesto rivelatore: un pacco che si è regalata da sola, costato sei mesi di stipendio. Dentro c’è un cappotto di visone enorme, fuori scala per il suo appartamento. Negli anni ’40 era quasi sempre un dono maschile; Elizabeth invece se lo compra da sé. È la sua autonomia che prende forma. E sì: è la stessa pelliccia indossata da Joan Crawford in Mildred Pierce, il ruolo che Stanwyck aveva sfiorato. Un’eco segreta tra due film.

Al ristorante di Felix, Elizabeth indossa una giacca nera asciutta e una gonna pulita. Ma tutto ruota attorno al dettaglio più geniale: una catena stilizzata, interamente di stoffa, applicata allo scollo come un gioiello tridimensionale. È una soluzione nata dalla guerra: le passamanerie europee erano introvabili, e i costumisti inventavano decorazioni nuove usando la stoffa stessa. Edith trasforma la limitazione in stile. Anche Roosevelt incoraggiava accessori fantasiosi per sostenere il morale delle donne al lavoro: un’energia creativa che arriva proprio lì, attorno al collo della Stanwyck.

Il terzo abito è quello pensato per la cerimonia che non decolla mai. Un completo chiaro, elegante senza ostentazione, perfetto per un matrimonio domestico. La giacca in crepe scivola con naturalezza, ma a catturare lo sguardo è il bordo asimmetrico composto da minuscoli cerchietti di stoffa cuciti uno dopo l’altro: una passamaneria inventata, nata dall’assenza delle vere. Sul corpetto, piccole paillettes, tra i pochi materiali non razionati, aggiungono luce senza trasformarlo in un abito da sposa. La gonna svasata chiude una silhouette pensata per una cerimonia che non è mai una cerimonia.
Poi arriva la Vigilia. Elizabeth entra con il look più iconico del film: un abito nero lungo, puro nella linea, accompagnato da un bolerino bianco che cattura ogni riflesso. Edith usa il nero come sfondo per illuminare il volto della Stanwyck; il coprispalle, soffice e corto, è probabilmente un tessuto lavorato, più leggero della pelliccia. Il contrasto bianco su nero crea un effetto immediato di festa, come se Elizabeth brillasse da dentro.
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Il mattino dopo, quando deve fingersi padrona di casa perfetta, compare in un adorabile abito-grembiule in gingham a quadretti, con cintura coordinata. Tessuto simbolo degli anni ’40, economico, pratico, amatissimo, e perfetto per una donna di casa. Ed è comicamente stonato addosso a Elizabeth, che in cucina non sa muoversi. È proprio questa dissonanza a renderlo irresistibile.
Per il ballo natalizio dei buoni di guerra Edith prepara un altro piccolo capolavoro: una giacca in lana a rombi, ogni rombo segnato da un minuscolo bottone rivestito. Vita stretta, un grande fiocco in velluto e una gonna nera lunga a bilanciare l’insieme. Ma la magia è dietro: il peplum è rialzato e arricciato per sollevare visivamente la linea dei fianchi, uno dei trucchi preferiti di Edith per modellare la figura della Stanwyck. E la lana non è un vezzo: è verità narrativa. È Natale, siamo in un fienile del Connecticut. Edith sapeva che i tessuti non si fingono, e preferiva la coerenza anche sotto luci roventi.

Infine, l’ultimo look. Il tailleur della scena conclusiva sembra il distillato di ciò che Elizabeth è diventata. Probabilmente in crepe, ha una linea pulita e luminosa. Il bolerino corto con scollatura arrotondata incornicia il viso; i polsini arricciati aggiungono delicatezza; la gonna leggermente a trapezio la accompagna verso il lieto fine con una semplicità quieta. È il costume di una donna che non sta più recitando. È finalmente se stessa. E i suoi abiti lo sanno.
Per chiudere questa sezione sui costumi va citato un ultimo nome, quello che completa, come un lampo di luce, il lavoro di Edith Head: Joseff of Hollywood. Eugene Joseff è il creatore di gioielli più importante del cinema classico: dagli anni ’30 ai ’50 firma la maggior parte della bigiotteria di Hollywood, da Via col vento a Marilyn, da Dietrich a Garbo. Sapeva creare pezzi che brillavano senza risultare falsi, ed è per questo che gli studios non potevano farne a meno.
In questo film i suoi gioielli accompagnano perfettamente Elizabeth Lane: piccoli orecchini geometrici, montature smaltate, tocchi luminosi che non sovrastano i costumi di Edith Head. Il mio preferito è il grande anello a ferro di cavallo che Elizabeth porta al mignolo: spiritoso, inatteso, quasi un piccolo autoritratto del personaggio. Presto gli dedicherò un articolo a parte, perché la storia di Joseff merita davvero di essere raccontata.
Location
A guardarlo oggi, così pieno di neve candida e silenzi ovattati, Il sergente e la signora sembra girato nel cuore del New England. In realtà non ha mai lasciato la California. Le riprese si svolgono nei teatri di posa della Warner a Burbank, tra maggio e luglio 1945, in piena estate. Per ricreare quell’inverno perfetto, gli scenografi usarono scaglie di sapone: leggere, illuminate benissimo e facili da far turbinare con grandi ventilatori nascosti fra gli alberi. L’intera fattoria degli Sloan, veranda, staccionata, vialetto innevato, era costruita al chiuso; persino la slitta fuori controllo correva su binari, circondata da fondali dipinti.
La Warner riteneva la casa così riuscito da inviarne le fotografie alle riviste come esempio ideale di Colonial Revival.
È mentre cercavo chi avesse decorato questi set che ho trovato una storia che non riesco più a lasciare. Nei credits compare un nome: Edwin Casey Roberts. E poi quasi nulla. Nessuna biografia, pochissime tracce, solo una presenza intermittente nelle filmografie. Ma quei set erano troppo “vivi” per non avere una mano precisa dietro. Così ho continuato.
La svolta è arrivata grazie a un vecchio thread online: un pronipote chiedeva aiuto per ricostruire la vita di Roberts; un altro utente, uno sconosciuto, mosso solo dal desiderio di aiutare, rispondeva con ritagli, articoli, indizi. Da lì la figura è finalmente emersa.
Roberts nasce nel 1901 in Illinois, cresce tra Midwest e Arizona, arriva giovanissimo a Los Angeles. Prova molte strade: attore nel muto, venditore di gioielli, decoratore. Negli anni ’30 vive a Newport, Rhode Island, con il compagno Bruz Fletcher: una storia d’amore che allora doveva essere vissuta con discrezione. La loro Falsneau House diventa un piccolo salotto artistico frequentato da attori, scenografi, musicisti: un rifugio creativo in anni che concedevano poca libertà.
Roberts non è un semplice decoratore: ha un senso spettacolare innato. Nel 1934 allestisce per il compleanno di Roosevelt una replica della Casa Bianca, con abeti innevati di cotone d’amianto e grappoli di palloncini bianchi che scendono dal soffitto come fiocchi di luce. È talmente impressionante che l’allestimento viene riutilizzato due anni dopo per l’Army and Navy Dance. Hollywood lo nota e lo porta nei suoi film.
Da lì firma ambienti per Intermezzo, The Adventures of Tom Sawyer, Little Lord Fauntleroy, The Man in the Iron Mask. La sua cifra è inconfondibile: non “arreda” un set, lo fa vivere. Cerca libri veri, fiori freschi, oggetti consumati dall’uso. E inserisce ogni tanto piccoli tocchi personali, dettagli delicatamente queer nascosti nelle scenografie. E poi arriva Il sergente e la signora.
La casa degli Sloan porta la sua impronta ovunque: il legno chiaro, la cucina che sembra davvero usata, gli oggetti disposti con naturalezza domestica. Non è un set che vuole stupire: vuole esistere. E più lo si osserva, più si sente che qualcuno ha costruito non un “fondale”, ma un mondo credibile e caldo.
Roberts muore nel 1948, a soli quarantotto anni, poco dopo aver lavorato a Joan of Arc. Muore senza il riconoscimento che meritava, e il suo nome svanisce per decenni. Sapere che oggi possiamo ricostruirne la vita grazie alla perseveranza di un discendente e alla generosità di uno sconosciuto mi commuove più di quanto immaginassi. Perché quel Connecticut che amiamo, così accogliente, così “vero”, è anche merito suo.
Colonna sonora
Se c’è una cosa che Il sergente e la signora fa con una grazia quasi invisibile, è usare la musica come parte dell’atmosfera. Non è mai invadente, non guida la scena, ma la accompagna come un profumo di cannella nell’aria: c’è, avvolge, scalda.
A firmare la partitura è Frederick Hollander compositore tedesco naturalizzato americano, maestro nel dare leggerezza e arguzia alle commedie brillanti. Qui costruisce una colonna sonora fatta di piccoli motivi festosi, orchestrazioni morbide, tocchi natalizi che sostengono i ritmi comici senza mai rubare la scena. È musica che non cerca protagonismo: sta sullo sfondo, ed è proprio lì che funziona meglio.
Eppure, un momento musicale “puro” c’è, ed è affidato a Dennis Morgan, che canta “The Wish That I Wish Tonight”, scritta da Jack Scholl e M. K. Jerome. Una canzone tenera, perfetta per il suo timbro caldo e per l’atmosfera sospesa del film.
Il dettaglio sorprendente è che questa canzone ha avuto una seconda vita molto più lunga del previsto: il reparto animazione della Warner Bros. la adottò immediatamente, e “The Wish That I Wish Tonight” diventò uno dei temi ricorrenti dei Looney Tunes. La si ascolta in decine di corti, da Bugs Bunny a Titti e Silvestro, fino a Porky Pig e molti altri.
La prima proiezione pubblica di Il sergente e la signora si tiene l’8 agosto 1945 a Norwalk, in Connecticut, e più che una semplice premiere è un gesto politico, sociale e persino affettivo. La Warner Bros. sceglie di trasformarla in una grande festa di benvenuto per cento soldati del Connecticut appena rientrati dal fronte europeo e in transito verso il Pacifico: una cena di Natale anticipata, orchestrata con il governatore Raymond E. Baldwin, i sindaci di oltre venti città, la Croce Rossa e un’intera comunità decisa a restituire ai militari un frammento di casa dopo anni di assenza.
La giornata è un susseguirsi di celebrazioni, una parata trasmessa via radio, un coro di cento voci, discorsi, giochi, danze, culminata nella proiezione serale al Palace Theatre. Per settimane la città aveva contato i giorni all’uscita del film con un grande cartellone davanti al Municipio, trasformando l’attesa in un rito collettivo. E la partecipazione fu tale che molti commercianti colsero l’occasione per lanciare, con mesi di anticipo, la campagna dello shopping natalizio e delle spedizioni ai soldati al fronte.
Quando il film arriva ufficialmente nelle sale americane, l’euforia del dopoguerra sta già attraversando il Paese: è uno dei primi titoli a beneficiarne. Nonostante l’uscita ad agosto, un periodo insolito per una commedia natalizia, Il sergente e la signora incassa circa 3,3 milioni di dollari negli Stati Uniti, cifra notevole per una produzione concepita come intrattenimento leggero. La critica, nel complesso, lo accoglie con simpatia: Variety parla di “situazione leggera ma ben oliata”, The Hollywood Reporter lo definisce “un trionfo di pubblico fin dai piani alti”, mentre il Los Angeles Times ne apprezza il tono vivace e la sofisticazione della regia. Solo qualche voce più severa, fra cui il New York Times, suggerisce che Stanwyck sia un po’ fuori parte e che Godfrey avrebbe potuto affinare meglio i tempi della commedia boudoir.
Non riceve premi importanti: nel 1945 le cerimonie celebrano drammi bellici, storie di impegno civile, grandi produzioni. Ma questo non impedisce al film di trovare un suo posto preciso nel cuore del pubblico. Anzi, la sua vera vita comincia dopo: Il sergente e la signora diventa lentamente, anno dopo anno, un classico natalizio di nicchia, amatissimo dagli appassionati del cinema anni ’40 e destinato a riaffiorare ogni dicembre nei palinsesti televisivi. La Warner ci torna più volte, con una versione radiofonica nel 1952, un adattamento televisivo nel 1956, un remake TV nel 1992 diretto da Arnold Schwarzenegger e, più di recente, con un musical nel 2022 al Goodspeed Opera House, segno che quella storia continua a esercitare un fascino che va oltre il realismo e si deposita nella memoria affettiva.
Forse perché parla di un Natale che non è mai esistito davvero, ma che tutti avremmo voluto vivere almeno una volta.
Trovate il film su Prime Video: costa solo 2,99 euro e vi garantisco li vale tutti.
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- lunedì, dicembre 01, 2025
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