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Da piccola c’era un film con cui ero particolarmente fissata, Tutti insieme appassionatamente. Lo guardavo a ripetizione, come si fa con quei film dell’infanzia che diventano una coperta calda, conoscevo ogni battuta, ogni gesto, ogni nota. Perciò non c’è da stupirsi se uno dei primi articoli del mio blog sia stato dedicato proprio al dietro le quinte di quel film che, per me, è sempre stato casa (e che trovate qui).
Durante una delle mie esplorazioni maniacali del cast, perché sì, clicco ogni nome anche quelli minuscoli in fondo alla lista, arrivo alle suore del convento. Apro la filmografia dell’interprete di Sister Sophia, scorro, e mi blocco.
West Side Story. My Fair Lady. Un amore splendido. Il re ed io.
Mi fermo. Mi scervello. Non ricordo nessuna attrice che compaia in tutti questi film. Nessun volto che li colleghi davvero. Eppure quel nome, Marni Nixon, è lì, presente ovunque.
Continuo a leggere e, quasi senza accorgermene, inciampo in una realtà che non conoscevo. Nell’età d’oro del musical era pratica comune che cantanti professioniste prestassero la voce alle attrici che non avevano sufficiente capacità vocale per affrontare le parti cantate. Una consuetudine mantenuta nel silenzio degli studios, perché la magia non si doveva rompere.
Si chiamava ghost singing, il canto fantasma, e aveva una regina indiscussa, Marni Nixon.
E più andavo avanti, più la sua storia sembrava incredibile. Una bambina prodigio con l’orecchio assoluto. Una giovane donna che ha aiutato Marilyn Monroe in una delle scene più iconiche del cinema. Una voce che ha regalato credibilità a tre grandi performance al punto da far pensare che quelle attrici potessero persino ambire all’Oscar. Una figura che, molti anni dopo, avrebbe ispirato perfino una scena di Mrs. Doubtfire. E, come se non bastasse, la madre dell’autore di una delle sigle più amate della tv americana.
Tutto questo nascosto dietro un nome che il grande pubblico non conosceva.
È da qui che parte il nostro viaggio.
La bambina dall’orecchio assoluto
Quando Charles Nixon McEathron e sua moglie Margaret aspettano il loro terzo figlio sono certi che sarà un maschio. Hanno già due figlie e non prendono nemmeno in considerazione un’alternativa. E invece il 22 febbraio 1930, ad Altadena, nasce un’altra bambina. Colti alla sprovvista sul nome, scelgono di unire il primo della madre, Margaret, e il secondo del padre, Nixon. Il cognome McEathron rimane, solido e imponente. Ma quel “Margaret Nixon McEathron” rischia di confonderla con la madre e, poco dopo, arriva un’abbreviazione più leggera e musicale: Mar Ni.
Nessuno immagina che in quella piccola sorpresa ci sia già un presagio della sua storia, fatta di presenze inattese e ruoli essenziali vissuti nell’ombra.
In casa McEathron la musica è una presenza quotidiana. Margaret, insegnante e musicista, vuole che ogni figlio scelga uno strumento e lo studi con impegno. Marni abbraccia il violino e, dopo poche lezioni, entra nella Baby Orchestra guidata dal maestro Karl Moldrem. È lui a scoprire il suo orecchio assoluto, la capacità rarissima di riconoscere qualsiasi nota senza bisogno di un riferimento. Le chiede un La, un Sol, e lei li intona all’istante. La usa come un diapason vivente e si rende conto che quella bambina ha un dono fuori dal comune.
La prima svolta arriva quando la Republic Pictures cerca una bambina rossa che suoni il violino per un piccolo ruolo. Moldrem fa il suo nome e Marni ottiene il lavoro. Il primo assegno di venti dollari fa quasi svenire la madre. Da quel momento viene registrata a Central Casting e, per i successivi dieci anni, appare sullo sfondo di oltre cinquanta film. La si intravede in The Grapes of Wrath, Babes on Broadway, The Big Store, The Great Waltz e molti altri titoli che oggi rappresentano la storia del cinema. È una presenza silenziosa, ma costante, e accumula una familiarità con i set che pochi bambini della sua età possono vantare.
Parallelamente entra nella California Junior Symphony diretta da Peter Meremblum. Durante i concerti non solo suona nella sezione degli archi, ma a volte appoggia l’archetto, si alza e canta un’aria davanti a tutti. È un gesto inatteso che attira lo sguardo del pubblico e, soprattutto, di una figura che anni dopo scoprirò essere molto più influente di quanto immaginassi: Ida R. Koverman. Consigliera fidatissima di Louis B. Mayer e già segretaria del presidente Herbert Hoover, Ida è una donna straordinaria, quasi dimenticata oggi, che meriterà un articolo tutto suo. Assiste a un concerto e rimane colpita da quella ragazzina che passa dal violino al canto con una naturalezza sorprendente. Da allora segue Marni in silenzio, ne osserva i progressi e prende mentalmente nota della sua crescita.
Nel 1942 Marni inizia a studiare con una delle grandi soprano della generazione precedente, Vera Schwarz. Entrare nel suo appartamento sulla Sunset Strip significa ritrovarsi in un luogo che sembra sospeso nel tempo. Il profumo intenso, il piccolo barboncino che abbaia, le pareti ricoperte di poster delle sue glorie viennesi, tutto rimanda a un mondo musicale che non esiste più, ma che dentro quelle stanze rimane intatto. Schwarz lavora con un accompagnatore fisso, un lusso raro per l’epoca, e con Marni affronta tecnica, interpretazione e canzoni viennesi cariche di teatralità. La voce della maestra è profonda e ricca, quella di Marni è luminosa e giovane, ma lo stile lascia un’impronta che sarà decisiva anche molti anni dopo, quando interpreterà Heidi Schiller in Follies.
Le lezioni, però, hanno un costo elevato. Nonostante Marni investa ogni guadagno, la famiglia non riesce a star dietro ai pagamenti. Schwarz sospende le lezioni e, in quel momento, accade uno degli episodi più toccanti della sua adolescenza. La madre decide di impegnare il proprio anello di fidanzamento per saldare il debito. Il sacrificio la colpisce profondamente. Quando il gioielliere trova un difetto nella pietra e rivela che il valore è molto inferiore a quanto lei avesse sempre creduto, Margaret ne rimane ferita e per anni ricorderà quel difetto come una dolorosa metafora del suo matrimonio.
Nel 1947, quando non ha ancora compiuto diciotto anni, Marni raggiunge un traguardo impressionante. Viene scelta come solista per i Carmina Burana diretti da Leopold Stokowski al Hollywood Bowl. È un palcoscenico immenso e un direttore leggendario. Stokowski non sceglie mai a caso e non sceglie mai giovani inesperte. In Marni vede una qualità che supera l’età, una precisione naturale, una musicalità limpida, una voce che sa mescolarsi all’orchestra con una maturità sorprendente. Per una ragazza di diciassette anni è un risultato enorme, ma non rappresenta un punto d’arrivo. È il primo segnale chiaro che la sua strada si sta delineando.
C’è una persona che da anni osserva il percorso di Marni con discrezione. È Ida Koverman, la donna più influente dell’MGM dopo L. B. Mayer. L’ha notata ai tempi della Junior Symphony, una ragazzina con il violino in mano e una voce sorprendente, e da allora segue i suoi progressi con un’attenzione silenziosa.
Quando viene a sapere dalla madre che le lezioni di canto stanno diventando difficili da sostenere, interviene in modo diretto. Propone a Marni un lavoro negli studios come messenger girl. Un impiego semplice, ma perfetto per rimanere vicina a quel mondo che la attrae sempre di più.
Marni accetta. Passa le giornate a recapitare posta tra un reparto e l’altro, accompagna i visitatori nei tour del backlot e si guadagna qualche mancia raccontando piccoli aneddoti sulle star. Ma soprattutto osserva. Studia ogni dettaglio. Si infila tra i set quando può, ascolta i direttori d’orchestra, sbircia le sessioni di registrazione.
È proprio nelle pause pranzo che Marni trova il suo spazio. Mentre gli altri chiacchierano o cercano un po’ d’ombra, lei si avvicina alla vocal coach di Jane Powell e ottiene qualche esercizio. Nessuno le chiede chi sia. Per tutti è solo la ragazza della posta, una presenza discreta che scivola nei reparti senza attirare l’attenzione.
È in queste ore rubate, in questi corridoi vissuti ogni giorno, che Marni inizia davvero a formarsi. Impara da chiunque sia disposto a insegnarle qualcosa e si costruisce un’identità artistica un passo alla volta.
Un pomeriggio, mentre consegna documenti, uno studio director la ferma. Conosce il suo background musicale e sa che legge le partiture con naturalezza. Le chiede di raggiungerlo in sala d’incisione, dove c’è un problema urgente da risolvere.
La produzione sta lavorando a Il giardino segreto, uscito nel 1949. Margaret O’Brien, la giovane protagonista, deve cantare una melodia ispirata alla musica indiana. È un frammento breve e delicato, ma troppo impegnativo per lei. L’intonazione non tiene e gli studios non possono permettersi ritardi.
Chiamano Marni. Le consegnano lo spartito. Lei lo guarda una sola volta e canta. La voce si adagia sulla melodia con naturalezza assoluta, limpida e controllata, infantile quanto basta per sembrare proprio quella di Margaret O’Brien. È esattamente ciò che serve. La produzione la usa subito.
Il nome di Marni non compare da nessuna parte.
Così, nel 1949, Marni Nixon ha realizzato il primo doppiaggio cantato della sua carriera, nello stesso periodo in cui si è esibita al Hollywood Bowl sotto la bacchetta di Leopold Stokowski. Due esperienze che sembrano opposte, una pubblica e luminosa, l’altra invisibile e segreta. Eppure rivelano la stessa verità. La voce di Marni ha un potere raro. E Hollywood sta iniziando davvero a capirlo.
Nei primi anni Cinquanta la vita di Marni cambia ritmo. Nel 1950 sposa il compositore Ernest Gold, un musicista brillante che diventerà noto per la colonna sonora di Exodus. Sono giovani, uniti dalla stessa dedizione alla musica, e costruiscono insieme un equilibrio fatto di studio, prove, concerti e piccoli lavori che permettono a Marni di restare vicina al mondo dello spettacolo.
Nel 1951 nasce il loro primo figlio, Andrew (futuro cantante, è sua la canzone Thank you for being a friend che diventerà la sigla dell'iconica serie Golden Girls degli anni 80, di cui vi ho parlato qui). Marni continua a perfezionare la tecnica, frequenta sale d’incisione, prende lezioni, si mette alla prova ogni volta che ne ha occasione. È un periodo intenso, in cui la carriera comincia a trasformarsi lentamente, senza ancora una direzione definita ma con una costanza incrollabile.
Marilyn
È proprio in questi anni di silenzioso consolidamento che arriva uno dei momenti più sorprendenti della sua storia: il suo contributo alla canzone più iconica di Marilyn Monroe.
Siamo nel 1953. La produzione di Gli uomini preferiscono le bionde vuole che Diamonds Are a Girl’s Best Friend sia impeccabile. La voce di Marilyn ha un fascino unico, ma per alcuni passaggi servono precisione, stabilità negli acuti e una brillantezza costante. Gli studios non vogliono correre rischi e si rivolgono a Marni.
Il suo intervento è mirato, sottilissimo.
Marilyn canta quasi tutto, ma nelle parti più delicate entra la voce di Marni, che si integra senza mai apparire.
È lei a sostenere la serie di “no, no, no…” che apre il brano e la frase conclusiva “These rocks don’t lose their shape…”, un acuto che richiede una sicurezza assoluta.
Lo fa con una cura invisibile. Non deve essere riconoscibile, deve solo rendere perfetta l’illusione.
Deborah
Il 1956 rappresenta un punto di svolta nella vita di Marni Nixon. Hollywood ha già iniziato a usarla come voce invisibile, ma con Il re ed io la posta in gioco cambia del tutto. Il musical, nato a Broadway nel 1951, è stato un trionfo assoluto. Yul Brynner ha interpretato il Re con una forza magnetica che ha conquistato il pubblico e, quando arriva il momento di portare la storia sul grande schermo, nessuno mette in discussione la sua presenza nel cast cinematografico. La vera domanda è un’altra: chi interpreterà Anna Leonowens, il ruolo che a teatro ha consacrato Gertrude Lawrence e che richiede eleganza, autorità e carisma?
La scelta ricade su Deborah Kerr, già star internazionale. La sua immagine raffinata e la sua forza scenica sono perfette per il personaggio. C’è solo un problema. Le melodie di Rodgers e Hammerstein chiedono un tipo di sicurezza vocale che Deborah non possiede. È lei stessa a riconoscerlo con lucidità. Non vuole un’illusione fragile. Vuole che Anna sia credibile in ogni dettaglio, anche nella voce.
È così che entra in scena Marni.
Durante le prove si crea subito un clima quasi laboratoriale. Deborah osserva con attenzione ogni gesto di Marni mentre canta. Studia la respirazione, la tenuta del fiato, il modo in cui apre le vocali o inclina il collo nei passaggi più difficili. Marni ricambia quell’attenzione con precisione. Analizza la dizione britannica dell’attrice, la musicalità naturale delle sue frasi, i piccoli movimenti del volto che accompagnano le emozioni. Tutto deve coincidere. Non è un semplice doppiaggio. È un duetto invisibile.
Il loro lavoro raggiunge il punto più alto nella registrazione di “Shall I Tell You What I Think of You”. Le due eseguono un’unica performance continua, alternando parlato e canto senza interruzioni. Quando la si riascolta, è impossibile individuare il confine tra una e l’altra. È questo livello di fusione che rende il risultato finale così straordinario.
Quando Il re ed io arriva nelle sale, il pubblico rimane incantato. La colonna sonora diventa un successo enorme, e la performance di Deborah Kerr ottiene una nomination all’Oscar. La sua Anna Leonowens appare perfetta in tutto. Anche nella voce.
Per Marni, invece, la ricompensa è molto diversa. 420 dollari di compenso, una cifra modesta persino per il 1956, e nessun credito ufficiale. Fox la obbliga a firmare un contratto di riservatezza assoluta. Il pubblico non deve sapere che Deborah è stata doppiata. È una delle regole tacite di Hollywood. La voce deve coincidere con l’icona, non con la realtà. Marni rispetta l’accordo. Ma il segreto non resta tale a lungo.
Il 9 marzo 1956, sfogliando il Los Angeles Times, si imbatte nella rubrica del columnist Earl Wilson. Il titolo è un colpo di scena: “Deborah rivela un segreto”.
Deborah Kerr, con il suo candore elegante, ha raccontato tutto. Ha spiegato che iniziava lei le canzoni e poi Marni prendeva il suo posto, che cantavano a due microfoni diversi, che avevano lavorato fianco a fianco per sette settimane. Ha descritto il processo con naturalezza, senza immaginare il vortice che quella rivelazione avrebbe potuto generare. Per Marni è un misto di stupore, sollievo e incredulità.
Il silenzio imposto dal contratto è crollato. E non è stata lei a infrangerlo.
L’anno successivo torna a prestare la propria voce a Deborah Kerr in Un amore splendido (di cui vi ho parlato qui). Anche questa volta non ci sono crediti e non ci sono royalty. Marni però decide di chiedere almeno che il suo nome compaia sulla colonna sonora della Columbia Records. Lo ottiene, anche se in modo marginale. In copertina appaiono Cary Grant, Deborah Kerr e Vic Damone. Il suo nome è relegato sul retro, tra i musicisti: “Soprano soloist: Marni Nixon.” È poco. Ma è la prima volta che viene riconosciuta su un supporto ufficiale.
Tra il 1956 e il 1957 nasce così il paradosso che segnerà la sua carriera. La sua voce diventa una parte essenziale dell’immaginario del musical hollywoodiano. E il suo nome continua a rimanere quasi invisibile.
Natalie
Quando Marni Nixon viene chiamata per lavorare a West Side Story nel 1961, ha già capito come funziona Hollywood. Le grandi produzioni le chiedono di fare la stessa cosa: entrare in punta di piedi, studiare il personaggio, modellare la voce su un volto che non è il suo e, alla fine, sparire.
Ma questa volta c’è qualcosa di diverso. Il ruolo che deve coprire è quello di Maria, interpretata da Natalie Wood. E Natalie ci tiene. Moltissimo. È all’apice del successo, vuole dimostrare di poter essere all’altezza anche musicalmente, e nelle prime settimane è convinta che la sua voce finirà nel film, magari con un piccolo aiuto negli acuti. Questa convinzione non nasce da ingenuità, ma dal fatto che nessuno le ha detto la verità. Dietro le quinte, infatti, gli studios hanno già deciso:
la colonna sonora di West Side Story richiederà un livello di precisione che Natalie non può garantire.
E per questo hanno ingaggiato Marni. Non come supporto. Non come “rinforzo”. Per sostituire interamente la voce cantata della protagonista.
È l’inizio di un equilibrio instabile che, giorno dopo giorno, si regge solo sul silenzio.
Natalie entra in sala d’incisione e registra ogni brano con l’orchestra al completo. I tecnici le sorridono, la incoraggiano, usano parole gentili. Nessuno vuole ferirla, nessuno vuole far scoppiare un caso. Quelle registrazioni, però, non verranno mai utilizzate. Quando l’attrice lascia lo studio, tocca a Marni entrare. È lì per questo. Ascolta ciò che Natalie ha appena inciso, percepisce la tensione in sala, poi comincia a cantare lei. E quella diventa la versione ufficiale.
Anni dopo, definirà quel processo “barbaro”, e non farà fatica a spiegare il perché.
Il gioco perfetto si rompe quando Natalie scopre ciò che tutti sapevano tranne lei: nel montaggio finale non ci sarà neppure una frase della sua voce. Nessuna. La delusione è bruciante. Se ne va dal set urlando, furiosa, convinta di essere stata tradita.
Solo in seguito, ascoltando la versione di “Tonight” interpretata da Marni, ammetterà che non avrebbe potuto raggiungere quel livello tecnico.
Nel frattempo Marni continua il suo lavoro, ancora una volta invisibile ma essenziale. Canta tutte le parti di Maria. E non solo: nel quintetto “Tonight” deve rinforzare anche le armonie alte di Anita, interpretata da Rita Moreno. In un punto delicatissimo del brano, Marni duetta… con sé stessa, cambiando intenzione, timbro, colore emotivo, affinché nessuno se ne accorga.
La sua voce attraversa “I Feel Pretty”, “Somewhere”, “One Hand, One Heart”. È il cuore sonoro del film. Ma nei titoli, ancora una volta, non appare.
Un riconoscimento, però, arriva lo stesso: il compositore della musica di West Side Story Leonard Bernstein, colpito dall’eleganza del suo lavoro, decide di cederle una parte delle royalty del disco della colonna sonora. Un gesto unico, quasi rivoluzionario per l’industria.
E mentre il mondo comincia a canticchiare quelle melodie, lontano dai set arriva un’altra musica:
nel settembre del 1962 nasce Melani, la terza figlia di Marni.
Audrey
Ci sono film che nascono da una scintilla. My Fair Lady, invece, nasce da un paradosso.
La donna scelta per interpretare Eliza Doolittle è una delle attrici più amate del mondo. La donna scelta per cantare al suo posto, invece, è quasi del tutto sconosciuta. Una brilla sotto i riflettori. L’altra lavora nell’oscurità di una sala d’incisione.
Eppure, senza quella voce invisibile, il film non esisterebbe nella forma che conosciamo.
Quando gli studios danno ufficialmente il via al progetto, sanno di trovarsi di fronte a un’impresa enorme. Non stanno semplicemente adattando un musical di successo. Stanno portando sullo schermo un’opera che a Broadway ha già lasciato un’impronta indelebile, un testo che il pubblico considera quasi sacro. Tutto deve essere perfetto, tutto deve parlare la lingua del capolavoro.
Il primo nome del cast cade al suo posto come una certezza matematica. Rex Harrison sarà di nuovo il professor Higgins. Nessuno potrebbe sostituirlo, nessuno vorrebbe farlo. È lui l’architettura vivente del personaggio.
Il ruolo di Eliza, invece, è un campo minato. A teatro Eliza ha il volto e la voce di Julie Andrews. È stata Julie a creare l’Eliza che il mondo ha applaudito, e molti danno per scontato che il cinema la richiamerà. Ma nel 1964 gli studios ragionano per gerarchie di fama, non di fedeltà artistica. Julie Andrews è una regina di Broadway, ma non ancora una star cinematografica globale.
Hollywood, invece, vuole un volto riconoscibile da Los Angeles a Tokyo.
Così la scelta ricade su Audrey Hepburn.
Una decisione che divide, emoziona, irrita o entusiasma, secondo i punti di vista. Audrey è una presenza magnetica, un’icona di grazia, un viso che appartiene già alla storia del cinema. Ma la partitura di Eliza Doolittle richiede tutt’altro: potenza, resistenza, perfezione tecnica, un controllo vocale che Audrey, con tutta la sua buona volontà, non possiede.
Lei questo lo sa. Eppure affronta la sfida con la determinazione timida che la caratterizza. Studia, prova, registra con disciplina ogni brano, convinta che almeno una parte potrà essere usata.
È in questo momento, sotto la superficie delle discussioni ufficiali, che il nome di Marni Nixon entra nella conversazione.
Il suo compito è chiaro: dare voce a Eliza. E non una voce qualunque, ma una voce che attraversi due mondi diversi. La Eliza cockney dei vicoli londinesi, ancora ruvida e ingenua, ma anche quella trasformata dal professor Higgins, elegante, precisa, luminosa. Per Marni è una delle sfide più sofisticate della sua carriera. Deve cantare da “stonata” con rigore professionale. Deve trasformarsi in una cantante raffinata un attimo dopo. Deve mantenere un filo di continuità che faccia sembrare tutto parte della stessa anima. E soprattutto deve diventare la voce di Audrey senza che nessuno lo sospetti. Per riuscirci studia attentamente il parlato dell’attrice, il modo in cui apre le vocali, come appoggia una consonante, la morbidezza con cui modula un’emozione. Ogni inflessione diventa un punto di riferimento per costruire una voce che sembri uscire proprio da quel corpo.
Audrey se ne accorge durante le sessioni in studio. Capisce che alcune parti non raggiungono l’impatto che lei stessa vorrebbe. Lo accetta con una malinconia gentile, mettendo sempre l’opera al primo posto.
Ma mentre sullo schermo tutto appare armonioso, fuori dallo schermo rimane un dettaglio che si ripete. Il nome di Marni non compare nei titoli di coda. È una decisione coerente con la politica degli studios: la star deve essere percepita come interamente autosufficiente. Anche quando non lo è. Questa volta, però, il segreto non regge a lungo. Nel febbraio del 1964, la rivista Time pubblica un articolo che solleva il velo una volta per tutte. È lì che Marni viene presentata al mondo con un soprannome destinato a diventare leggendario: la “Ghostess with the Mostest”, la fantasmina con più talento.
Non è solo un titolo. È la rivelazione pubblica di una verità rimasta nell’ombra per troppo tempo.
La donna che il pubblico non vedeva è, da quel momento, impossibile da ignorare.
Il 7 dicembre 1964, Marni appare nel celebre quiz televisivo To Tell the Truth, una trasmissione costruita sull’ambiguità: tre persone dichiarano di essere la stessa figura famosa, e la giuria deve capire chi sia quella autentica. È quasi ironico che proprio lei, la donna più invisibilmente presente del cinema americano, partecipi a un gioco sull’identità.
Marni racconta la sua storia con naturalezza, mentre due “impostori” cercano di imitarla. Quel giorno, due membri della giuria non la riconoscono affatto: non immaginano che la donna seduta davanti a loro sia davvero la voce dei musical più amati della loro vita. La puntata menziona il suo contributo vocale a My Fair Lady, prossimo all’uscita, ma i vincoli contrattuali impediscono a tutti di parlarne apertamente. Noi, invece, sappiamo già come stanno le cose.
L’anno successivo arriva il momento che per Marni ha il sapore di una piccola rivoluzione. Robert Wise, che ha già lavorato con lei in West Side Story, decide di offrirle un gesto di riconoscenza: un cameo in Tutti insieme appassionatamente. Marni interpreta Suor Sophia, una delle religiose che aprono il film con il celebre “How Do You Solve a Problem Like Maria?”. Per la prima volta, il pubblico vede il suo volto. Per la prima volta non è soltanto una voce nascosta dietro qualcun altro.
È la seconda suora che canta
La sera del 10 marzo 1965 a Los Angeles si tiene la premiere di Tutti insieme appassionatamente. Il Saban Theatre è un lampo di flash e voci eccitate. Quando Marni Nixon scende dall’auto, qualcosa nel profilo, nei capelli ramati, nell’abito chiaro porta il pubblico a un’unica conclusione: dev’essere Julie Andrews. L’entusiasmo esplode. Fino al momento in cui qualcuno la mette davvero a fuoco. Il boato si spegne. Il silenzio scende di colpo. E da qualche parte si sente la frase che Marni ricorderà per tutta la vita: “Oh no… it’s nobody.” “Non è nessuno.” Dura pochissimo ma dentro quell’istante c’è tutto il paradosso della sua carriera: quelle stesse persone, che ora distolgono lo sguardo, hanno già ascoltato la sua voce infinite volte. Solo che non sapevano fosse la sua.
Cambio di rotta
Ci sono momenti in cui una carriera sembra rallentare, e invece sta solo cambiando forma. Per Marni Nixon, gli anni Settanta rappresentano proprio questo: non una pausa, ma un nuovo inizio. Dopo una vita trascorsa a prestare la voce ad altre donne, sente che è arrivato il momento di cercare un posto dove poter usare la propria, finalmente, senza filtri e senza ombre.
Nel 1969 il matrimonio con Ernest Gold si conclude. Seguono le seconde nozze con il medico Lajos “Fritz” Fenster nel 1971 e il successivo divorzio nel 1975. In mezzo a questi cambiamenti, Marni avverte il bisogno di allontanarsi dall’ambiente che l’ha resa celebre e invisibile allo stesso tempo. Così sceglie Seattle. È una città tranquilla, più a misura di famiglia, ma anche il terreno ideale per un nuovo capitolo.
La musica resta il cuore della sua vita, ma assume sfumature diverse. Marni insegna al Cornish College of the Arts, diventa una guida autorevole per giovani performer, collabora con la Seattle Opera e il Seattle Repertory Theatre. Sono anni di stabilità creativa, di piccoli passi che però, senza che lei lo sappia ancora, la condurranno verso una nuova forma di visibilità.
Nel 1975 arriva una proposta inattesa: condurre un programma educativo per bambini in età prescolare. Nasce così Boomerang, un format semplice e luminoso. Marni diventa la Signora Boomerang, una figura gentile e curiosa che canta, racconta storie, dialoga con pupazzi e affronta con delicatezza le emozioni dei più piccoli. Chi ricorda il finale di Mrs. Doubtfire riconoscerà subito quello spirito: una tata televisiva capace di dare voce alle domande dei bambini. Marni lo fa davvero, vent’anni prima.
Boomerang va in onda per sei stagioni, dal 1975 al 1981. Conquista il pubblico e la critica, arrivando a ottenere 27 Emmy locali, quattro dei quali assegnati proprio a Marni come Miglior conduttrice. È una fama diversa da quella hollywoodiana: più silenziosa, più domestica, più sincera.
Quando la trasmissione termina nel 1981, Marni sente che il cerchio di Seattle si è chiuso. I figli sono cresciuti, lei ha ritrovato una serenità che per anni le è mancata. È il momento di tornare a New York e di riprendere la sua vera grande passione: il teatro.
Negli anni Ottanta si esibisce in recital e concerti, poi arriva l’occasione che riaccende ufficialmente la sua carriera sul palco: la produzione di Broadway di Nine (1984), dove interpreta la madre del protagonista. La sua presenza è intensa, elegante, di una naturalezza che sorprende chi la conosce solo come “voce invisibile”. Seguono nuovi ruoli: James Joyce’s The Dead, Cabaret nel ruolo della severa Fraulein Schneider, e infine uno dei personaggi più significativi della sua maturità artistica.
Nel 2001 torna a Broadway con Follies di Stephen Sondheim, interpretando l’ex diva d’operetta Heidi Schiller. Nel brano One More Kiss la sua voce porta con sé l’eco delle lezioni giovanili con Vera Schwarz. È come se la sua vita tornasse a parlarsi da un capo all’altro, in un dialogo pieno di grazia.
Nel 1998 presta la voce alla nonna di Mulan nella canzone “Molto onore ci darai”, aggiungendo un tassello leggero e affettuoso alla sua lunga carriera. Una partecipazione che sembra chiudere un cerchio: dopo aver dato voce a tante eroine giovani, ora è la voce della saggezza.
Nel 2004 l’Academy la invita alla proiezione restaurata de Il re ed io per il ciclo “Great to Be Nominated”. Per la prima volta può raccontare pubblicamente un lavoro che era stato segreto per decenni. È un momento di risarcimento emotivo, una restituzione tardiva ma preziosa.
Tra il 2007 e il 2008 partecipa alla tournée del revival di My Fair Lady, stavolta nel ruolo di Mrs. Higgins. Torna a interpretarla anche in un gala al Lincoln Center con la New York Philharmonic. È un gesto simbolico, quasi un saluto d’amore alla storia che l’ha definita.
Negli ultimi anni porta in tournée un proprio spettacolo autobiografico, Marni Nixon: The Voice of Hollywood, un racconto in musica che intreccia ricordi e canzoni. Il pubblico la accoglie sempre con affetto: finalmente la vede, finalmente la conosce.
Ha affrontato il cancro al seno due volte, nel 1985 e nel 2000, continuando a cantare e a insegnare. Ma nel 2016 la malattia è tornata per l’ultima volta. Marni Nixon si è spenta a New York il 24 luglio, a ottantasei anni.
Il New York Times l’ha salutata definendola “la più celebrata voce non celebrata del cinema”.
Raccontare la storia di Marni Nixon significa scoprire quanto possa essere vasta l’eredità di una voce che, per anni, non ha avuto un volto. Più la si segue, più si capisce che il suo talento non è mai stato un dettaglio tecnico, ma una forza invisibile che ha dato forma a interi pezzi di cinema.
E alla fine tutto si riassume nelle sue parole: «La gente forse non conosceva il mio nome, ma di certo ha ascoltato la mia voce.» È una frase semplice, ma racchiude un mondo.
Con questo articolo ho provato a ricucire ciò che per troppo tempo è rimasto separato: il nome e la voce, la donna e la sua storia. Oggi possiamo finalmente riconoscerla per intero. E celebrarla per entrambe le cose.
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- lunedì, novembre 24, 2025
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