L’erba del vicino è sempre più verde: Grant, Kerr e il duello più chic del cinema

lunedì, ottobre 20, 2025

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Se avete visto Un amore splendido, sapete che è un film che non lascia indifferenti. Anzi, diciamolo chiaramente: scioglie anche i cuori di ghiaccio. Cary Grant, Deborah Kerr, una traversata in mare, la promessa di un appuntamento all’Empire State Building, “il posto più vicino al cielo”, e poi quella musica pazzesca che sembra toccare direttamente le emozioni (di questo film ve ne ho parlato qui).
Ecco, c’è un film che riunisce di nuovo quei due volti, quelle due voci (Lydia Simoneschi e Gualtiero De Angelis), ma lo fa con un tono completamente diverso.
I protagonisti sono ancora Cary Grant e Deborah Kerr, e questa volta sono già sposati.
L’erba del vicino è sempre più verde è una commedia brillante e sofisticata, dove l’humour inglese regna sovrano, dove tutto è suggerito più che mostrato, e le emozioni si nascondono dietro il velluto di una battuta ben piazzata. Nessun melodramma, niente lacrime: qui si gioca. Con il linguaggio, con la seduzione, con le apparenze. E quel gioco è così ben calibrato da rendere il film un piccolo gioiello di eleganza narrativa. 

Una commedia da camera travestita da favola borghese, con quattro attori in stato di grazia che si scambiano le parti, si provocano, si studiano con garbo e ironia.
A rendere tutto ancora più seducente, ci pensano i costumi di Christian Dior, i saloni nobiliari pieni di ritratti austeri, i giardini curati con la precisione dell’aristocrazia decadente. Se amate l’estetica di Downton Abbey, vi sentirete subito a casa. 

Non è un caso che ve ne parli proprio oggi, lunedì: domani sera andrà in onda in televisione (ore 21 su TV2000), e questa è l’occasione perfetta per (ri)scoprirlo.
E se ve lo perdete? Niente paura: è disponibile gratuitamente su YouTube, lo trovate in fondo all'articolo.
Un film che aveva tutte le carte in regola: un cast straordinario, la regia di Stanley Donen, l'estetica, dialoghi affilati, humour brillante. Eppure, alla sua uscita, la critica lo ha demolito. Fortunatamente, il pubblico ha saputo vederci altro. Lo ha salvato, amato, fatto suo.
E pensare che questo film era nato sotto la buona stella del numero tre – e, come dicono gli inglesi, third time’s the charm (la terza volta è quella buona). Vi racconterò perchè.
Ora è il momento di andare a scoprire com’è cominciato tutto.

Il titolo originale è The grass is greener ed è un film del 1960 diretto da Stanley Donen con protagonisti Cary Grant e Deborah Kerr.


La trama in breve: I coniugi Victor e Hilary Rhyall sono nobili inglesi che non riuscendo più a mantenere lo stile di vita dato dal loro titolo sono costretti ad aprire al pubblico il loro castello e a organizzarvi visite guidate. Un giorno il milionario americano Charles Delacro durante una delle visite incontra la padrona di casa e scatta subito la scintilla. Hilary lusingata e attratta a sua volta inventa una scusa per raggiungerlo a Londra, mentre il marito, all'apparenza indifferente, ha in realtà un piano.

Alcune scene del film
Foto promozionali
Alla fine degli anni ’50, il panorama cinematografico è in trasformazione. Hollywood, un tempo al centro dell’universo filmico, inizia a perdere terreno: la televisione ha cambiato le abitudini del pubblico, il sistema degli studios non è più onnipotente e si affaccia con forza una nuova ondata di produzioni indipendenti, spesso più intime, più sofisticate, più vicine alla realtà borghese o aristocratica delle classi agiate europee.

Anche la commedia romantica si evolve. Abbandonata la frenesia delle screwball comedy degli anni ’30 e ’40, si fa più matura, più sottile. I rapporti tra uomini e donne vengono esplorati con eleganza, con uno humour spesso trattenuto ma affilato, più vicino alla conversazione da salotto che allo slapstick. E non è un caso che molte di queste storie si spostino fisicamente e simbolicamente in Europa — in particolare in Inghilterra — dove la classe, la misura e una certa nostalgia dell’aristocrazia sembrano offrire il palcoscenico perfetto per raccontare le sfumature dell’amore con grazia e ironia. 

È in questo clima che, nel 1956, debutta al St. Martin’s Theatre di Londra una commedia in due atti dal titolo The Grass is Greener, scritta da Hugh e Margaret Williams

La pièce rispecchia perfettamente il gusto del tempo: raffinata, ironica, con un tocco di eccentricità tutta britannica, ambientata in una grande casa nobiliare aperta ai turisti per esigenze economiche — una pratica che proprio in quegli anni cominciava a diventare sorprendentemente diffusa.

Lauren Bacall, Vivien Leigh e Kay Kendall dopo aver visto lo spettacolo 

La messa in scena è un successo e si colloca idealmente nel nuovo filone di storie sentimentali che giocano con le convenzioni del matrimonio, dell’amicizia e dell’attrazione, ma sempre con discrezione, spirito e (molto) humour. E non passerà molto tempo prima che qualcuno, a Hollywood, se ne accorga.
A notare questa storia così british e brillante è Cary Grant che la propone a Stanley Donen come prossimo progetto da produrre insieme. 

I due avevano fondato nel 1958 una propria casa di produzione indipendente, la Grandon Productions, nata sotto il segno di un’eleganza tutta internazionale. Il loro primo titolo, Indiscreto, era stato un successo, e il desiderio di proseguire lungo quella linea – commedie raffinate, ironiche, pensate su misura per Grant – si fa subito concreto (di questo film ve ne ho parlato qui).
Così nel 1959, decidono di acquistare i diritti della commedia The Grass Is Greener e di portarla sullo schermo mantenendone intatta l’atmosfera: aristocratica, leggera, profondamente inglese. La propongono alla Universal, che accetta di distribuire il film, e scelgono di girarlo in Inghilterra, appoggiandosi agli Shepperton Studios.
Cary Grant è all’apice della sua carriera: ha il potere di scegliere, e sceglie di tornare a quei ruoli sofisticati e affascinanti che lo hanno reso celebre. Si coinvolge attivamente nella produzione, supervisiona ogni fase del progetto, e ottiene il controllo finale sul cast. Donen, da parte sua, accetta con entusiasmo di dirigerlo: è un regista abituato alla precisione, al ritmo, al controllo del dettaglio, e anche lontano dal musical sa costruire scene in cui l’equilibrio dei tempi comici è orchestrato con maestria.
Per la sceneggiatura, Grant decide di affidarsi direttamente agli autori della storia, Hugh e Margaret Williams. È la loro prima volta al cinema, ma nessuno meglio di loro conosce quel tono rarefatto, ironico, intessuto di non detti e situazioni in bilico tra romanticismo e parodia. Il risultato è una commedia che conserva il suo spirito originale, ma lo adatta con misura a un linguaggio filmico più elegante e sottile.

Nel 1959 Cary Grant è reduce da grandi successi: Intrigo internazionale e Operazione sottoveste, lo consacrano, uno dopo l’altro, tra le figure più iconiche del cinema dell’epoca. I copioni si accumulano sulla sua scrivania: da Lolita a Tender Is the Night, fino a Lawrence of Arabia. Ma nonostante l’abbondanza di offerte, Grant resta indeciso. Rifiuta, rimanda, accarezza l’idea di nuovi progetti con Ingrid Bergman o di adattare un libro appena acquistato dalla sua casa di produzione. Poi, a un certo punto, sceglie la sicurezza: una commedia raffinata, prodotta da sé, scritta con intelligenza, girata in Inghilterra. L'erba del vicino è sempre più verde gli sembra il porto perfetto in cui attraccare. Ma non per recitarci da protagonista. 

Quando propone il film a Stanley Donen, Grant ha in mente per sé un ruolo defilato ma gustoso: quello dell’americano, lo straniero seducente e irriverente che rompe gli equilibri. La parte centrale — quella del conte inglese e di sua moglie — dovrebbe andare a una coppia formidabile nella vita e sullo schermo: Rex Harrison e Kay Kendall.

Kendall è brillante, spiritosa, aristocratica quanto basta. Aveva appena terminato Ancora una volta con sentimento, sempre diretta da Donen, e sembrava pronta a dare un tono di levità e profondità perfettamente in linea con il film. Eppure, dietro il sorriso, qualcosa non va.

Kay Kendall è malata di leucemia ma non lo sa. Harrison d'accordo con i medici sceglie di non dirglielo. Durante la pre-produzione, la salute di Kay si aggrava visibilmente. Harrison, sopraffatto dalla situazione, abbandona il progetto per prendersi cura di lei. Il 6 settembre 1959, Kay Kendall muore. Harrison non si riprenderà mai del tutto da quella perdita.

La produzione resta sospesa. E a quel punto, è Grant a rimettere insieme i pezzi. Per rispetto verso l’amico, per senso di responsabilità, e forse anche per istinto professionale, decide di assumere lui il ruolo di Victor Rhyall, il conte inglese. 

Con l’uscita di scena di Rex Harrison, anche il ruolo della protagonista femminile torna in discussione. In un primo momento si pensa a Ingrid Bergman, ma l’idea viene presto accantonata: troppo simile a Indiscreto, e il rischio di ripetersi è concreto. Si cerca qualcosa di diverso. Qualcuno che possa dare al pubblico una variazione sul tema — con lo stesso charme, ma una luce nuova. E così entra in gioco Deborah Kerr.


Scozzese, classe 1921, Deborah Kerr è diventata negli anni '50 il volto dell’eleganza e della disciplina britannica. Educata in teatro e poi passata al cinema con grande successo, ha lavorato con registi del calibro di Michael Powell, John Huston e Fred Zinnemann. Ma per molto tempo è rimasta prigioniera di ruoli “da signora”: eteree, compassate, moralmente irreprensibili. Solo a partire da Da qui all’eternità (1953), dove sorprende in una celebre scena sulla spiaggia accanto a Burt Lancaster, Kerr riesce a spostare l’immagine pubblica verso personaggi più complessi, sensuali, e finalmente imperfetti. Con Tavole separate (1958), porta in scena la fragilità e la repressione di una donna timida e infelice — e conquista definitivamente il pubblico americano.
Dopo essersi scrollata di dosso i ruoli da “duchessa inglese glaciale”, Kerr torna a interpretare una nobildonna. Ma questa volta il personaggio è diverso: Hilary Rhyall è elegante, certo, ma anche ironica, viva, perfettamente consapevole del proprio fascino — e non immune alla tentazione.
È la terza volta che divide lo schermo con Cary Grant, dopo La sposa sognata e Un amore splendido. Qui non c’è melodramma né destino tragico, ma una complicità sottile, fatta di sguardi, silenzi e battute taglienti. Il tono è più leggero, ma la chimica tra i due rimane intatta.
Nel 1960 Kerr è in pieno momento d’oro: I nomadi le ha appena regalato la sua sesta nomination all’Oscar. E qui, nel ruolo di una contessa che guida visite turistiche nella sua stessa casa, dimostra di saper portare l’autoironia con la stessa grazia con cui indossa i costumi più raffinati. 

Per il ruolo del miliardario americano, in un primo momento i produttori pensano a Charlton Heston. Lui, entusiasta, era pronto ad accettare. Nella sua autobiografia dirà: “Avrei fatto qualsiasi cosa per lavorare con Cary Grant. Anche raccogliere le sue briciole.” Ma un impegno teatrale con Laurence Olivier lo costringe a rinunciare.  
Così Robert Mitchum entra nel progetto, e lo fa con il passo tranquillo di chi non ha niente da dimostrare. 

 

È una scelta tardiva per il ruolo dell’americano Charles Delacro, ma una volta sul set, non ci sono più dubbi: con quella voce bassa, l’aria disincantata e il fascino indolente, è perfetto.
È appena uscito da I nomadi, dove ha recitato con Deborah Kerr — e dove, ironia della sorte, aveva accettato che il nome di lei apparisse per primo, pensando che suonasse meglio sulla locandina. Solo dopo capì che, nei meccanismi dei crediti, significava rinunciare al ruolo di “stella principale”. Una sottigliezza da studio legale hollywoodiano più che da attore, ma a lui non importa. Qui scende al terzo posto nei titoli di testa dopo oltre un decennio, e non fa una piega. Non è mai stato uno da gerarchie.
Nato a Bridgeport, Connecticut, nel 1917, Mitchum non ha nulla del divo costruito a tavolino. Orfano di padre a due anni, cresciuto tra fughe, lavori improvvisati e arresti, scappa di casa da adolescente e si costruisce una vita da vagabondo — prima di arrivare, quasi per caso, sul set. Il successo arriva nel 1945 con I forzati della gloria, che gli vale una nomination all’Oscar. Da lì, diventa l’uomo nuovo del cinema americano: poco loquace, distante, ma capace di bruciare lo schermo con un solo sguardo.
Durante le riprese de L’erba del vicino è sempre più verde, un giornalista gli chiede se si senta ricco. «Amico,» risponde, «l’unica cosa che mi importa davvero è avere abbastanza soldi per un drink o un pacchetto di sigarette». È il duro con l’anima gentile, quello che odia la violenza (“Chiedetelo a mia moglie”, dirà), che ama la famiglia, e che ha sempre vissuto con una regola sola: fare come gli pare, senza far male a nessuno.
Sul set, non ha mai cercato di rubare la scena. Ma quando entrava nell’inquadratura, il tono cambiava. E in questa commedia sofisticata, piena di dialoghi taglienti e situazioni eccentriche, Mitchum non solo tiene il passo: aggiunge profondità, leggerezza, e quella strana alchimia che non si può spiegare, ma solo riconoscere.
A completare il cast c’è Jean Simmons, che interpreta Hattie, l’amica di lunga data del personaggio di Cary Grant — figura sofisticata, brillante, e potenzialmente destabilizzante per l’equilibrio matrimoniale del conte. 

 

Nata a Londra nel 1929, Simmons ha iniziato a recitare giovanissima durante la guerra, e in pochi anni è diventata uno dei volti più amati del cinema britannico. La sua interpretazione in Amleto (1948) le vale una candidatura all’Oscar e la consacrazione anche a Hollywood, dove alterna ruoli in grandi classici come Black Narcissus e Spartacus a personaggi più moderni e sfaccettati.
Con questo film Simmons accetta un ruolo secondario pur di cimentarsi con una commedia sofisticata e leggera, desiderosa di ampliare il proprio repertorio e lasciarsi alle spalle, almeno in parte, l’etichetta di attrice drammatica. Sul set ritrova vecchie conoscenze: ha già lavorato con Robert Mitchum in Seduzione mortale e Bella ma pericolosa, mentre con Deborah Kerr e Cary Grant condivide non solo l’accento ma anche quella misura elegante che rende credibile ogni sfumatura emotiva.
Poco dopo la fine delle riprese, Jean Simmons vive un cambiamento anche nella vita privata: divorzia dall’attore Stewart Granger, con cui è stata sposata per dieci anni, e sposa il regista Richard Brooks. È l’inizio di un nuovo capitolo — personale e professionale.
Negli anni successivi, Simmons si dedica con crescente successo anche alla televisione, confermandosi una presenza raffinata e carismatica sul piccolo schermo. Il culmine arriva nel 1983 con Uccelli di rovo (The Thorn Birds), dove interpreta Fiona Cleary, ruolo che le vale un Emmy Award e fa scoprire il suo talento a una nuova generazione di spettatori. Un ritorno in grande stile, per un’attrice che non ha mai perso grazia né profondità.
Dulcis in fundo c’è Moray Watson, nei panni di Trevor Sellers, il maggiordomo dalla compostezza impeccabile e dal tempismo comico sottile. Curiosamente, in fase iniziale di produzione si era considerato addirittura Noël Coward per il ruolo. Scrittore, drammaturgo, attore e vera istituzione del teatro inglese, Coward avrebbe sicuramente dato un tocco eccentrico e sofisticato alla parte, ma alla fine la scelta è ricaduta su qualcuno di ben più legato al testo.
Watson, infatti, aveva già interpretato Sellers a teatro durante la fortunata messa in scena londinese, ed è l’unico interprete a passare dalla pièce originale al grande schermo. Nato nel 1928 a Sunningdale, nel Berkshire, e formato alla prestigiosa Webber Douglas Academy of Dramatic Art, L'erba del vicino è sempre più verde segna il suo debutto cinematografico, dopo alcune esperienze in teatro e televisione.
Nonostante il ruolo secondario, la sua presenza è tutt’altro che marginale: il suo Sellers osserva, ascolta, interviene sempre con la battuta giusta – o con un silenzio perfettamente dosato. È la quintessenza dell’umorismo inglese al servizio della commedia da salotto, e contribuisce a mantenere l’equilibrio tra i toni romantici, brillanti e malinconici della storia.


Curiosamente, il numero tre ritorna ovunque, come una specie di portafortuna. In inglese si dice “third time’s the charm”, e qui sembra esserlo davvero. È la terza collaborazione tra Grant e Donen, la terza tra Grant e Kerr, la terza anche tra Kerr e Mitchum, tra Kerr e Jean Simmons, e perfino tra Simmons e Mitchum.  Una combinazione quasi magica che dà al film un’energia speciale, quella delle alchimie che si formano solo con il tempo, e che funzionano perché non devono più dimostrare nulla.
Peccato che quella fortuna, almeno in apparenza, non sembrerà accompagnare né il set né l’uscita del film.

Le riprese iniziano il 4 aprile 1960 agli Shepperton Studios, alle porte di Londra, e si concludono nel corso dell’estate. Il clima, per gran parte del tempo, è professionale ma non privo di sfumature. Quattro star sul set significano quattro sensibilità diverse, e l’equilibrio si raggiunge con garbo — non senza qualche frizione.
Cary Grant, come sempre, è il centro silenzioso attorno a cui tutto ruota. Arriva presto, controlla ogni dettaglio, studia le scene con precisione maniacale. “Sembrava avere venticinque anni invece di cinquantacinque,” ricorda lo scrittore Richard Gehman. Deborah Kerr lo descrive come un compagno di scena generoso e rigoroso: “Non ho mai conosciuto un uomo che prendesse il lavoro con tanta serietà. Era un genio assoluto nel tempismo comico.” Per lei, rubargli una scena è impossibile — ma Grant non bara mai, e questo fa la differenza.
Jean Simmons, che entra nel cast per esplorare nuovi registri, inizialmente si sente spiazzata dalla sua precisione: “Tutto doveva essere esattamente come voleva lui,” racconta. Ma poi riconosce l’efficacia del metodo: ogni scena, alla fine, funziona alla perfezione.
Robert Mitchum, con il suo aplomb da duro gentile, osserva tutto con distacco. Dice che Grant è “molto cortese e gentile, ma con un umorismo da music hall”. Tra i due nasce una rivalità silenziosa, più di stile che di sostanza. Mitchum scherza sul fatto di fare da spalla, Grant teme di risultare troppo elegante accanto alla sua disinvoltura. 

Per girare il loro duello, Stanley Donen pubblica un annuncio sul London Times alla ricerca di “esperti pratici in materia di duelli”. È una provocazione. Ma sorprendentemente, arrivano risposte vere: undici su sedici si dichiarano praticanti, tre allegano anche fotografie. Donen prende nota, divertito. In fondo, anche l’ironia può essere documentata.
Molto più complessa — almeno dal punto di vista tecnico — è la lunga scena telefonica girata con lo split screen. Grant e Simmons da una parte, Kerr e Mitchum dall’altra, ognuno su un set distinto, ognuno ripreso da una troupe diversa. Quattro pagine di dialogo da recitare senza sentire l’altro gruppo, mantenendo ritmo e sincronia perfetti. Donen dirige come un direttore d’orchestra. Quando la sequenza è completata, si dichiara soddisfatto: l’esperimento ha funzionato.

Ma non è l’unica trovata visiva del film. Per una scena ambientata in stazione, Donen fa montare una macchina da presa Technirama su una locomotiva. La inquadra dal retro, mentre si allontana, lasciando Grant solo sul marciapiede. Un’immagine semplice, poetica, che racconta molto senza dire nulla. Poco dopo, la stessa tecnica viene usata su una barca da pesca costruita per una scena tra Grant e Mitchum. Il cinema sa essere anche artigianato.
Tra le battute del copione spunta un riferimento a “Josh Peters”, un personaggio mai visto, ma citato da entrambi i protagonisti. È una piccola nota personale: si tratta dei nomi dei figli di Donen, Joshua e Peter. 

Anche le auto fanno la loro parte. Charles Delacro guida una Lincoln Continental Mark III Cabriolet del 1958, simbolo di modernità americana in un mondo ancora aristocratico. All’inizio, i bambini salgono su una rarissima Austin A70 Hampshire Countryman del 1951. E in una scena londinese — un ingresso in un tipico mews — fa il suo debutto sul grande schermo la nuova versione del celebre taxi nero britannico, finalmente dotato di portiera anteriore. Un dettaglio, ma un dettaglio racconta un’epoca.

In un’altra scena, Victor serve a Hattie un elegante Burnt Pink Gin, una variante flambé del classico pink gin, resa celebre da Cedric Charles Dickens, pronipote del romanziere. Gin, Angostura, fiamma e un tocco di scena: la ricetta perfetta per un dialogo brillante.

Quanto alla morale, questo film gioca con i limiti della censura, senza mai forzarli. Le allusioni ci sono, ma restano eleganti: gli amanti non ballano, non fanno picnic, non vanno a teatro. La vera prova è una porta che si chiude. Tanto basta.
Non tutti, però, apprezzano la trasparenza con cui la produzione svela i propri trucchi. Una foto pubblicitaria mostra Deborah Kerr nella vasca da bagno con Grant che si china verso di lei. Accanto, una seconda immagine ne rivela il costume da bagno. La reazione di un esercente scozzese è furiosa: “Il pubblico vuole essere emozionato, non disilluso.” Anche l’illusione, sembra dirci, ha le sue regole.

Costumi

Gli abiti del film portano la firma di due icone della moda del tempo: Christian Dior (con la direzione creativa del giovanissimo Yves Saint Laurent) per Jean Simmons, e Hardy Amies per Deborah Kerr. A vestire Cary Grant e Robert Mitchum è il reparto sartoria britannico, che accompagna i due uomini con impeccabile rigore in una sobrietà aristocratica che non ha bisogno di ostentazione.
Siamo nel 1960, e Dior propone linee strutturate, colori audaci e tagli di rottura. Perfetti per Hattie, il personaggio eccentrico e disinvolto interpretato da Simmons. I suoi outfit sono tra gli elementi visivi più memorabili del film: silhouette couture, tagli architettonici e accessori teatrali. Simmons, incantata dal guardaroba, fa inserire nel contratto che potrà tenere tutti gli abiti Dior indossati nel film. «Non ho mai indossato abiti così, nemmeno nella vita reale. Ma ora cambierà tutto».

Il primo look è un’esplosione di arancione intenso. Simmons entra in scena avvolta in un cappotto cocoon in bouclé di lana, con maniche a tre quarti, chiusura doppiopetto e grandi bottoni rivestiti tono su tono. La linea a uovo, morbida e scultorea, è tipica del post–New Look. Sotto, un abito coordinato in cotone compatto, con gonna svasata e corpetto essenziale. Il tutto è completato da un cappello conico in paglia rigida bianca, decorato da un fiore arancio, guanti candidi e una parure in corallo che riprende il trucco audace: eyeliner grafico e sopracciglia scolpite, mentre le labbra restano neutre.

Il secondo ensemble è un perfetto esempio di eleganza costruita: un abito in shantung di seta verde smeraldo, con silhouette a trapezio e maniche a tre quarti. Il punto focale è il doppiopetto con maxi bottoni tono su tono, che slancia la figura e aggiunge profondità. Il copricapo drappeggiato nello stesso tessuto richiama l’haute couture più raffinata, mentre gli accessori — guanti chiari e orecchini scuri — creano un gioco cromatico deciso. Il make-up, coerente con il look, punta su un ombretto verde brillante, mentre il rossetto resta discreto.

 

Il terzo look è quello del ritorno a casa di Hilary: un abito in shantung azzurro pastello, con linea ad impero e fiocco ton sur ton impreziosito da un'applicazione gioiello dorata. L’effetto è civettuolo ma calibrato, tra ironia e grazia. L’acconciatura raccolta e gli orecchini pendenti completano il tono mondano del personaggio.

Infine, il più sorprendente: un ensemble da sera ibrido, composto da gonna ampia in taffetà stampato e pantaloni coordinati – un’idea sartoriale ardita per il 1960. Il tessuto, rigido e brillante, è decorato da un motivo floreale macro nei toni del corallo, arancio e rosa cipria, con accenti crema e oro pallido. La gonna è a pieghe profonde, costruita da vita alta; sotto, i pantaloni affusolati si rivelano solo in movimento. Ai piedi, pumps rivestite nello stesso tessuto, e tra i capelli una fascia gioiello argentata. Il trucco punta tutto sugli occhi da gatta e labbra corallo, in armonia con l’abito.

Per Deborah Kerr, Hardy Amies disegna una serie di look che riflettono l’eleganza sobria e il controllo emotivo di Hilary Rhyall, nobile inglese raffinata ma non impermeabile al desiderio.

Il primo outfit è un completo da giorno che incarna alla perfezione l’understatement britannico: pullover in maglia leggera color giallo burro, su una camicia con motivi giallo e azzurro, e pantaloni color sabbia dalla linea morbida e impeccabile. A interrompere la palette neutra, calze gialle e mocassini bordeaux lucidissimi: un contrasto elegante e giocoso, che racconta molto del personaggio. I capelli sono sciolti, le onde naturali. Hilary, anche davanti al camino, è impeccabile senza mai risultare costruita. 

All’uscita dalla messa, Kerr indossa un tailleur tortora in lana pettinata, con giacca strutturata e gonna al ginocchio. La camicetta in seta avorio con fiocco e gli accessori tono su tono — guanti, cappello floreale e borsa rigida — ne completano l’immagine. Ma c’è un dettaglio impercettibile e potentissimo: le scarpe spaiate, una beige e una grigia. Un errore voluto che riflette con finezza la confusione interiore della protagonista, turbata dall’arrivo dell’americano. Un esempio magistrale di come il costume possa farsi racconto. 

Il terzo look è un ensemble blu royal in shantung di seta: giacca con collo rotondo, bottoni rivestiti e gonna dritta. Sotto, una blusa in raso ton sur ton, che Kerr indossa poi anche da sola. Il passaggio da completo a look da giorno-sera è reso ancora più elegante da una spilla gioiello e tre fili di perle. Gli accessori — guanti avorio, borsa in coccodrillo e cappellino con fiori rossi — introducono una nota civettuola e suggeriscono la nascente attrazione per Mitchum..

L’abito da sera scelto per il confronto con Jean Simmons è uno dei più memorabili del film: chiffon di seta in sfumature tra il turchese e il verde acqua, drappeggiato a mano sul décolleté. Lo scollo a V sulla schiena e la gonna lunga in voile sovrapposti creano un effetto “liquido”, etereo. A completarlo, una parure di perle e diamanti e l’acconciatura raccolta con onde morbide. Raffinato ma fragile, proprio come Hilary in quel momento del racconto.

Infine, l’abito da casa che appare in due scene chiave è una vestaglia in crêpe di lana ciclamino, con profili bianchi grafici e cintura ton sur ton. Taglio semplice ma netto, maniche a tre quarti, scollo a revers. Un capo intimo che dice molto: anche nella vulnerabilità, Hilary non perde mai la compostezza. Ed è proprio in quei momenti che la sua eleganza si fa più autentica.

Cary Grant, nei panni del Conte Victor Rhyall, indossa capi che riflettono il suo status — ma senza mai ostentare. Fin dalla prima scena, il tono è chiaro: cardigan in lana verde muschio, con grandi bottoni marrone scuro, camicia bianca e cravatta regimental bordeaux e blu. I pantaloni in flanella grigia e le scarpe in suede marrone opaco completano il look, che riesce a essere tanto rilassato quanto impeccabile. È il perfetto equilibrio tra casa e rappresentanza, tra comfort e rigore: l’eleganza di chi non ha bisogno di dimostrare nulla.

All’uscita dalla chiesa, Grant torna a un completo sartoriale grigio medio, con giacca monopetto e cravatta bordeaux scuro, camicia bianca e fazzoletto da taschino piegato con geometrica precisione. Ai piedi, stringate marrone scuro lucidate: l’immagine del perfetto aristocratico inglese, contenuto ma irreprensibile.


Più rilassato, ma sempre impeccabile, il look della terza scena: giacca in flanella marrone medio, taglio morbido e spalle naturali, con camicia bianca e cravatta scura. I pantaloni grigio-blu mantengono la linea sobria, mentre le scarpe in cuoio marrone — lucidate ma non rigide — sottolineano il tono informale dell’insieme.  

Quando riceve Hattie a casa, Victor abbassa ulteriormente la formalità, ma senza rinunciare allo stile: cardigan beige chiaro in lana leggera, camicia bianca e cravatta nera sottile, con pantaloni grigi morbidi. È la versione più “domestica” del suo personaggio, ma sempre sotto controllo.  

Per l’uscita con Hattie e la scena successiva, Grant sfoggia un blazer blu navy con bottoni dorati, camicia bianca e cravatta marrone scuro, su pantaloni in flanella grigia. Le scarpe marrone lucidato, di linea sobria, chiudono un ensemble che riecheggia l’eleganza preppy d’oltremanica, filtrata però da una lente nobile e rassicurante.

Il momento più scenografico arriva con la cena e il duello: smoking doppiopetto con giacca in velluto verde bosco, rever a scialle in seta nera, camicia bianca con petto plissettato e gemelli gioiello, papillon in seta e pantaloni blu notte con bande laterali in raso. Ai piedi, opera pumps in vernice nera: un look teatrale e aristocratico, degno di un personaggio che affronta una sfida sentimentale con eleganza inappuntabile.


Nel finale, Victor abbandona lo smoking per una vestaglia in seta verde oliva punteggiata da piccoli pois rosso scarlatto — il suo capo da relax preferito, elegante anche nella convalescenza. Con Hilary improvvisa una fascia da spalla utilizzando un foulard in seta blu navy a motivo paisley bordeaux e bronzo, che aggiunge un tocco di ironia aristocratica al suo look da "eroe ferito ma impeccabile".

Al contrario, Robert Mitchum porta sullo schermo uno stile sobrio e pratico, perfetto per l’uomo d’affari americano. Charles Delacro predilige completi grigi o blu antracite, camicie bianche o celesti e cravatte regimental, ma con disegni meno audaci di quelli di Grant. Le giacche hanno una costruzione più rigida, con spalle marcate e tagli dritti che riflettono la solidità del suo personaggio. È un guardaroba elegante, ma convenzionale, senza fronzoli.
Per la sera, Charles sceglie un tuxedo nero classico, papillon nero, camicia plissettata bianca. Nulla di eccessivo, nessun tocco da dandy: la sua eleganza è fatta di rigore e misura, a contrasto con l’eccentricità composta del Conte.
Insieme, i due uomini incarnano due mondi stilistici diversi ma complementari: il primo è l’eleganza aristocratica che sa sedurre con ironia; il secondo, la sobrietà americana che punta sull’affidabilità. E forse è proprio da questa differenza — più che dalla rivalità amorosa — che nasce il vero duello del film.

Location

L’erba del vicino è sempre più verde ci porta in una dimora di campagna che sembra uscita da un romanzo inglese: tenuta imponente, giardini curatissimi, e quell’aria di nobiltà un po’ decadente che non chiede attenzione ma la ottiene comunque. 

Per raccontare la casa dei conti di Rhyall, Stanley Donen sceglie Osterley Park House, alle porte di Londra, un vero gioiello del Settecento con stanze perfettamente simmetriche e un equilibrio architettonico che conquista anche senza sfarzi. Gli esterni vengono girati proprio lì, mentre per gli interni si torna negli studi di Shepperton, dove la produzione ricostruisce ogni dettaglio con estrema fedeltà. Al punto che, quando Cary Grant li vede per la prima volta, li trova troppo fedeli: le stanze sembrano fin troppo grandi, e chiede che vengano rimpicciolite. “Rischiamo che la scenografia reciti più degli attori,” avrebbe detto con un sorriso.
Una curiosità da dietro le quinte: Osterley era appartenuta al Conte di Jersey, secondo marito di Virginia Cherrill, che era stata la prima moglie di Grant. Un cerchio che si chiude.
Altre location reali punteggiano la storia con sobrietà. La chiesetta di Little Marlow, nel Buckinghamshire. Il momento malinconico della partenza in treno viene girato alla Baynards Station nel Surrey, mentre le scene sulla barca trovano il loro set tra le acque tranquille della Bray Marina, nel Berkshire.
A Londra, Donen ricostruisce con minuzia gli ambienti del Savoy Hotel, ottenendo dal celebre albergo il permesso di duplicarne fedelmente atrio e suite. Il set è così accurato che perfino le comparse indossano uniformi originali, e un assistente della direzione viene inviato a sorvegliare il comportamento sul set.

Colonna sonora

Per le musiche di L’erba del vicino è sempre più verde, Stanley Donen prende una decisione fuori dagli schemi — ma perfettamente in linea con lo spirito del film. Niente partitura orchestrale tradizionale, nessun tema sinfonico pensato da zero. Stavolta, le note arrivano direttamente dal repertorio brillante, ironico e irresistibilmente british di Noël Coward.
“All’inizio avevamo pensato a un compositore classico,” dirà poi Donen, “ma più leggevo la sceneggiatura, più mi sembrava che tutto gridasse Coward.” E così è stato. Non solo una sua canzone diventa il filo conduttore del film, ma è l’intero universo musicale di Coward a prendere il posto di una colonna sonora convenzionale.
Il brano che apre e chiude il cerchio è “The Stately Homes of England” — una sorta di inno (ironico) alle dimore nobiliari britanniche, che accompagna perfettamente l’idea dei conti Rhyall trasformati in custodi museali di se stessi. Donen racconta che, quando Coward gli propose la lista delle canzoni da usare, sembrava quasi che fossero state scritte apposta per il film. In tutto, ce ne sono otto, tra cui “Mad About the Boy”, “The Party’s Over Now”, “Sigh No More”, “Poor Little Rich Girl”, “Room With a View” — piccoli gioielli che, inseriti con misura e intelligenza, diventano parte integrante del tono del racconto.

Titoli di testa

Quelli di L’erba del vicino è sempre più verde mi hanno conquistato fin dalla prima visione, e ancora oggi li considero tra i più deliziosi e sorprendenti che il cinema ci abbia regalato. Bastano pochi secondi per capire che non siamo davanti alla solita commedia elegante — ma a qualcosa di più scanzonato, intelligente e pieno di spirito.
Al posto delle consuete scritte in sovrimpressione su paesaggi o fondali grafici, il film si apre su un prato assolato, dove un gruppo di bambini — serissimi e impegnatissimi — si “calano nei ruoli” della troupe tecnica. Quando compaiono i nomi degli sceneggiatori, uno digita a macchina con aria concentrata; alla voce “colonna sonora”, un altro si piazza al pianoforte giocattolo; e a ogni nuova figura professionale corrisponde una piccola gag che mescola ironia e tenerezza con una precisione tutta coreografica.
E poi, proprio alla fine, arriva il tocco geniale: il nome di Stanley Donen compare in scena mentre uno dei bambini spalanca la bocca in un gigantesco sbadiglio. Un momento di autoironia irresistibile — è come se il regista ci salutasse con un sorriso sornione, prima ancora che il film cominci davvero.
L’idea di questo siparietto è firmata da Maurice Binder, che di lì a poco entrerà nella storia del cinema per i celeberrimi titoli di testa di James Bond.


L’erba del vicino è sempre più verde esce nelle sale britanniche nell’autunno del 1960, mentre negli Stati Uniti debutta a fine anno, in piena stagione natalizia. O almeno, questa era l’intenzione iniziale. Ironia della sorte, proprio il tema dell’infedeltà — trattato con leggerezza e umorismo — finisce per penalizzare la distribuzione americana: il prestigioso Radio City Music Hall di New York, da sempre considerato la vetrina ideale per le grandi uscite natalizie, decide di rifiutare il film ritenendolo "poco adatto allo spirito delle feste".
Al suo posto, viene scelto I nomadi, più in linea con la tradizione familiare e rassicurante. Una decisione che ha un impatto notevole. Al Radio City, I nomadi incassa 200.000 dollari nella prima settimana, triplicando gli introiti del film di Donen, relegato alla più piccola e meno influente sala dell’Astor Theatre
Nonostante questi ostacoli, il film ottiene una buona accoglienza in patria, dove il pubblico apprezza la sua eleganza leggera e lo humour squisitamente british. Negli Stati Uniti invece, dove la commedia sofisticata stava iniziando a lasciare il posto a toni più irriverenti e realistici, L'erba del vicino è sempre più verde appare forse un po’ fuori tempo. Le recensioni sono rispettose ma non entusiaste, e il film fatica a imporsi al botteghino come previsto, soprattutto rispetto agli standard altissimi delle commedie con Cary Grant.
Con il tempo, però, quella che sembrava una piccola commedia in tono minore ha guadagnato estimatori silenziosi. Merito di una sceneggiatura spiritosa, di un cast in stato di grazia, e di quella regia leggera e precisa che solo Stanley Donen sapeva orchestrare con tale naturalezza.
L’erba del vicino è sempre più verde ti conquista con calma, con intelligenza, con quello humour sottile che non ha bisogno di alzare la voce.
È un film elegante, spiritoso, sorprendentemente moderno. Da riscoprire con piacere, magari in un pomeriggio piovoso, con una tazza di tè e zero fretta.
Perché certi film, come certe case inglesi, hanno fascino da vendere. Basta solo varcare la soglia.

IL FILM POTETE VEDERLO COMODAMENTE QUI:

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