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Era novembre, e New York aveva quella luce particolare che precede l’inverno. Camminavo tra le vetrine illuminate, con la solita musica natalizia di sottofondo che esce da ogni negozio, sempre la stessa stazione, sempre 106.7 Lite FM, quando qualcosa mi ha fatto rallentare.
Tra due palazzi si apriva uno spazio minuscolo, quasi invisibile. Un giardino silenzioso, una cascata che scivolava lenta su un muro di pietra. In mezzo al caos, sembrava un’altra città.
Mi sono fermata, senza sapere bene perché. Ho osservato per un po’, poi sono andata via e non ci ho più pensato.
Mi imbatto nello Stork Club, uno dei locali più leggendari della New York del secolo scorso.
Un lampo.
E se fosse proprio quello che avevo visto io?
Apro Google Maps. Cerco l’indirizzo, ingrandisco l’immagine. Ed ecco la cascata, quella in cui mi ero fermata nel 2012, senza sapere nulla della sua storia.
Ogni dettaglio, dagli arredi ai cocktail, dalle fotografie ai rigidi ingressi, seguiva un rituale preciso. Regali per i clienti, donazioni in tempo di guerra, menù su misura per le star e un servizio che sfiorava l’ossessione. Ma dietro quella facciata scintillante si celavano anche lati più oscuri: favoritismi, esclusioni, dossier FBI, scandali razziali, legami con politica e stampa.
Ha costruito carriere e distrutto reputazioni. Ha celebrato matrimoni, nascosto amanti, accolto presidenti, mafiosi, dive e first ladies. Ha inventato un nuovo potere, che non passava dai palazzi, ma dai tavoli riservati.
E adesso che so cosa si nascondeva dietro quella cascata… voglio portarvi dentro quella storia.
Il ragazzo dell’Oklahoma
Per capire davvero cos’è stato lo Stork Club, bisogna partire dall’inizio: dall’uomo che lo ha immaginato, e dal mondo che lo ha reso possibile.
Sherman Billingsley nasce nel 1896 a Enid, in Oklahoma, ultimo di sei figli.
Sherman frequenta una scuola con aula unica, raggiunta a cavallo. La prima frattura familiare arriva presto: il fratello maggiore uccide un uomo e finisce in prigione. La famiglia si trasferisce per stargli vicino. Quando esce, coinvolge Sherman in un piccolo giro di contrabbando. La rete si allarga in fretta.
Anche prima del Proibizionismo federale, l’Oklahoma vieta già la vendita di alcol. Sherman si muove nel mercato nero, viaggiando tra Omaha, Toledo, Detroit. A diciott’anni viene arrestato per traffico illegale e condannato, ma la sentenza sarà poi annullata. Gli resta però una certezza: rischio e profitto vanno sempre insieme.
Quando un altro fratello fugge a New York per sottrarsi a soci pericolosi, Sherman lo raggiunge.
Compra farmacie, legali coperture per vendere alcol “medicinale”, e apre un piccolo ufficio immobiliare, utile per trovare spazi e aggirare regole. Ha intuito, rapidità mentale, e un istinto naturale per il business.
Nella New York del Proibizionismo, gli speakeasy, locali clandestini dove si serve alcol, sono ovunque. Alcuni nascosti dietro pareti finte, altri sontuosi salotti con musica dal vivo e clientela selezionata. Sherman osserva, ascolta, prende contatti. Non è ancora un proprietario, ma ha già compreso il sistema.
Nel 1929, due vecchi conoscenti dell’Oklahoma gli propongono di aprire un locale insieme. Sherman accetta. Nasce così il primo Stork Club, al 132 di West 58th Street. Non chiarirà mai l’origine del nome, ma la cicogna col cilindro e monocolo diventa subito un marchio: elegante, ironico, inconfondibile.
All’inizio lo gestisce con alcuni soci, ma presto emergono legami con ambienti criminali. Le tensioni crescono. Qualcosa si incrina.
Sherman viene rapito. Lo tiene prigioniero Vincent “Cane Pazzo” Coll, un gangster temuto. Non è chiaro il motivo, ma sembra che Sherman abbia rifiutato certe imposizioni. Lo tengono rinchiuso in un garage del Bronx per tre giorni. Quando viene rilasciato, è evidente che qualcuno ha pagato. Poco dopo, Coll viene attirato in una cabina telefonica e ucciso. I giornali riportano la notizia, ma nel suo mondo nessuno si sorprende.
Poco dopo, un altro segnale inquietante: Sherman trova un teschio con due ossa incrociate sulla scrivania del suo ufficio privato, chiuso a chiave e accessibile solo a lui. Nessun messaggio, solo un avvertimento chiarissimo.
È a quel punto che decide di agire. Con 30.000 dollari in contanti rileva tutte le quote, si libera dei vecchi soci e prende il pieno controllo dello Stork Club. Da quel momento comanda da solo.
Nel dicembre 1931, con il Proibizionismo ancora in vigore, la polizia chiude il locale. Ma Sherman non si ferma: lo trasferisce al 51½ di East 51st Street. È la seconda sede. La clientela lo segue, ma le tensioni non mancano.
Poi, nel 1934, arriva la svolta. Con la fine del Proibizionismo, lo Stork Club si sposta definitivamente al 3 East 53rd Street, vicino alla Fifth Avenue. Lì nascerà il mito.
Ma anche dopo aver preso il controllo, Sherman non riesce a scrollarsi di dosso il passato. Ogni tentativo di imporsi come uomo d’affari rispettabile si scontra con storie che riaffiorano: l’arresto da ragazzo, i legami ambigui, e il ruolo del fratello Logan, ancora coinvolto in affari opachi.
Sherman sa che per tenere in piedi il club deve curare anche la propria immagine. Così inizia una lenta ricostruzione personale, fatta di gesti pubblici e scelte private. Taglia i contatti con il contrabbando, si presenta come padrone di casa impeccabile: elegante, disponibile, attentissimo a ogni dettaglio. Regala fiori, controlla luci e servizio, frequenta gli ambienti giusti.
In quegli stessi anni tenta anche nuove strade. Apre un locale a Coney Island, lo Streets of Paris, ispirato ai caffè-teatro francesi, con ballerine in costume e scenografie audaci. Dura poco, ma gli serve per testare una nuova versione di sé: quella dell’imprenditore creativo, capace di reinventarsi anche fuori Manhattan.
Il passato resta, ma sullo sfondo. In primo piano ora c’è un’altra storia: quella di un uomo partito da niente, che cerca di diventare qualcosa di diverso. Un volto nuovo, per una città che ama dimenticare in fretta.
L’evento fortunato
C’è un incontro che segna una svolta. A renderlo possibile è Mary Louise Cecilia Guinan, anche se tutti la conoscono come Texas.
Attrice, ex ballerina, regina del vaudeville e padrona di casa nei club più trasgressivi del Proibizionismo, Texas è una leggenda della notte newyorkese. Ha presenza scenica, battute affilate, senso dello spettacolo e dita profumate con essenze forti: un dettaglio pensato, per lasciare a chi le stringe la mano una traccia indelebile.
Billingsley la conosce già da tempo. Si muovono nello stesso mondo: locali clandestini, musica jazz, clienti influenti e bottiglie che scorrono anche quando non dovrebbero.
Ricordate quando Sherman è stato rapito? Prima di essere bendato e caricato su un’auto in Madison Avenue, quella sera è a cena con lei.
È Texas a presentargli Walter Winchell, giornalista temuto e ascoltatissimo, firma del Daily Mirror e voce delle serate radiofoniche più seguite d’America. Winchell sa usare le parole come pochi: pungente, teatrale, influente. Se decide che un posto merita attenzione, l’intera città lo segue.
Nel settembre del 1930, dopo una visita allo Stork Club, scrive:
“Il posto più newyorkese di New York è lo Stork Club sulla 58ª, che attira ogni sera i più noti da ogni ambiente.”
Poi lo ripete in radio. Da quel momento, che Billingsley definirà sempre il suo “blessed event”, lo Stork smette di essere solo un locale. Diventa un luogo dove accadono le cose.
Un palazzo abitato da medici
È arrivato il momento di entrare davvero nello Stork Club. Di lasciarci alle spalle rapimenti, alleanze strategiche e nomi sui giornali. Perché il cuore pulsante di questa storia è quel luogo. L’ambiente stesso. Il modo in cui è stato pensato, costruito, vissuto.
La sede destinata a entrare nella leggenda si trova a 3 East 53rd Street, a pochi passi dalla Fifth Avenue. Un indirizzo elegante, quasi discreto, all’interno del Physicians & Surgeons Building: un edificio commerciale di sette piani, in muratura chiara, con facciata regolare e finestre verticali. Il tipico palazzo per uffici costruito tra gli anni ’10 e ’20.
Quando il club si trasferisce qui nel 1934, i medici che occupano gli altri piani protestano: un nightclub, proprio sopra gli studi medici? Ma poi lo Stork esplode di fama, e gli stessi dottori iniziano a vantarsene con i pazienti: “Visito nello stabile dello Stork Club”.
Billingsley, però, non dimentica lo sgarbo iniziale. Così, nell’ottobre 1945, compra l’intero edificio in silenzio, pagando 300.000 dollari in contanti.
All’esterno, l’unico tocco teatrale è l’insegna: una tenda di tela scura con la scritta bianca “STORK CLUB”, sormontata da lettere moderne incise nella pietra. Ma appena varcata la soglia, si apre un mondo completamente diverso.
Il primo segnale che non si tratta di un posto qualunque è la catena in oro massiccio 14 carati che sostituisce il tradizionale cordone d’ingresso. Il buttafuori la solleva con gesto cerimoniale solo per i clienti attesi.
Dietro, un piccolo vestibolo accoglie le cabine telefoniche e il guardaroba, dove signore in abito da sera e uomini in smoking lasciano cappotti di visone, mantelli d’ermellino, cilindri e sciarpe.
Sulla sinistra si apre il bar: un ampio bancone “a isola”, lungo ventuno metri, posizionato al centro della sala.
Da lì si accede a un salottino per cocktail che conduce a due ambienti principali: da un lato la Main Dining Room, chiusa da pareti vetrate e con una piccola pista da ballo tra i tavoli; dall’altro, l’intimo e leggendario Cub Room.

La forma è ovale, le pareti sono rivestite in boiserie di legno scuro, la luce è soffusa, con tonalità calde tendenti al rosa. Alle pareti sono appesi ritratti di donne affascinanti, dipinti da un artista amico di Sherman. Lo stesso che ha realizzato anche i quadri nel powder room, la saletta dove le signore si ritoccano il trucco.
L’ingresso è sorvegliato da un maître soprannominato “Saint Peter”, in riferimento a San Pietro: solo chi ha il suo tacito assenso può entrare. Non ci sono liste né prenotazioni. Se non sei invitato, resti fuori.
Durante il giorno, il Cub Room è riservato agli uomini, soprattutto uomini d’affari che vogliono pranzare lontano da occhi indiscreti. Di sera, accoglie habitué selezionati, star del cinema, produttori, politici, giornalisti.
Le regole sono ferree, ma per alcuni vengono fatte eccezioni. Bing Crosby, per esempio, è l’unico autorizzato a fumare la pipa all’interno, nonostante il divieto valido in tutto il club.
Dal Cub Room si accede, attraverso un corridoio, alla Loners Room, dove cenano signori soli. L’ambiente è più semplice: tovaglie a quadretti rossi e bianchi, atmosfera da bistrot raccolto. Ma sempre con servizio impeccabile.
Al piano seminterrato, lontano dagli occhi degli ospiti, la cucina dello Stork Club lavora come un meccanismo perfetto. È il regno ordinato dello chef francese Gustave Reynaud, che guida la sua brigata tra vapori e piastrelle bianche. I montacarichi salgono senza sosta: granchi dalla Florida, pompano al burro, piccioni Casanova, ostriche con asparagi baby, Crêpes Suzette e il celebre chicken hamburger à la Winchell. Nel 1943, mentre il resto del Paese fa i conti con razionamenti e restrizioni, qui il servizio non si è mai fermato. Billingsley, forte delle sue relazioni, è riuscito a mantenere operativa quella macchina nascosta da cui partiva ogni dettaglio del rituale notturno in scena un piano più su.
Accanto, quasi nascosto, c’è il barbiere personale di Billingsley. Una stanzetta esclusiva dove lui, Winchell e pochi altri del circolo ristretto possono farsi radere o tagliare i capelli a qualsiasi ora. Non serve prenotazione. Basta suonare.
I bagni sono distribuiti su più piani, secondo una logica che oggi sembrerebbe scomoda, ma allora faceva parte del gioco.
Gli uomini trovano orinatoi al piano terra, vicino al bar. Ma se vogliono usare i gabinetti, devono prendere l’ascensore e salire al terzo piano.
Le signore invece hanno il loro spazio al secondo piano. Più che un bagno, è un salottino. Carta da parati grigio-argento, rose rosse, ventagli neri, e comode poltroncine a righe. Sui ripiani, ciprie e profumi Lucien Lelong, come in un boudoir privato. Anche i dettagli più piccoli sono curati: i sedili dei WC vengono sterilizzati con raggi ultravioletti.
Dress code
Allo Stork Club si entra solo se si è vestiti nel modo giusto. Il regolamento è chiaro: per gli uomini servono giacca e cravatta, meglio ancora uno smoking. Per le donne, abiti da sera e guanti di seta al gomito. Nessuna eccezione. Chi arriva senza cravatta può solo andarsene o noleggiarne una all’ingresso.
Molte signore dell’alta società copiano le dive fotografate qui fuori. Indossano stole di visone, borsette minuscole, orchidee appuntate al petto. E proprio l’orchidea o la gardenia fresca, che viene donata all’ingresso a ogni donna in abito da sera, diventa una delle firme del locale.
Questo stile, che i rotocalchi chiamano “lo stile Stork”, influenza il modo di vestire di un’intera generazione: per andare a teatro, a un gala o a un evento benefico, si replica ciò che si è visto qui. È una moda che nasce tra questi tavoli.
Anche il comportamento è regolato. Niente risse, niente volgarità, niente ubriachezza molesta. Il personale è addestrato a intervenire con fermezza e discrezione. Chi sbaglia, non torna più. Sherman Billingsley tiene così tanto al tono del locale che spesso porta qui le figlie adolescenti. Vuole dimostrare che lo Stork è un posto mondano, ma pulito.
Anche lo staff è parte dello spettacolo. I camerieri indossano smoking, i baristi giacche militari con lo stemma del club, i portieri cappello a cilindro e livrea. Ogni dettaglio è studiato per impressionare già all’ingresso.
Non alza mai la voce Sherman Billingsley. Dalla sua postazione centrale controlla tutto con un linguaggio fatto solo di gesti: una serie di segnali discreti che il personale ha imparato a decifrare con precisione assoluta. Con un semplice movimento della mano ha fatto arrivare champagne, eliminato ospiti indesiderati, evitato conversazioni scomode e pagato conti senza dire una parola.
Life Magazine nel 1949 gli ha dedicato un celebre servizio fotografico che ha mostrato per la prima volta quel codice silenzioso.
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Portate una bottiglia di champagne; portate una confezione di profumo; pago io il conto del tavolo |
E quelli negativi...
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Clienti non importanti; chiamatemi via da questo tavolo; cacciateli e non fateli entrare più |
Dite cheese!
Per diventare leggenda non basta avere le star. Bisogna farle vedere. E raccontarle bene.
Lo Stork Club lo ha capito presto. E ha costruito tutto – atmosfera, riti, arredamento – pensando già a come sarebbe apparso sui giornali. Nulla è spontaneo, nulla è lasciato al caso. Nemmeno le foto.
Non scatti rubati, ma di vere e proprie foto posate, studiate per finire sui rotocalchi con inquadrature perfette. Billingsley assume fotografi interni, che immortalano le celebrità ai tavoli, sempre con un dettaglio in primo piano: un posacenere, un fiammifero gigante, un portacipria con sopra il logo del club. È un product placement ante litteram, e funziona. Tant’è che negli anni ’40 spariscono centinaia di questi oggetti ogni stagione: i clienti li rubano di proposito, come souvenir da collezione. E Sherman ne fa stampare ancora di più.
L’orchestra riceve segnali in tempo reale per accompagnare ogni ingresso importante con una musica personalizzata. All’arrivo della star, si attacca il motivetto. Le luci si abbassano un secondo. La sala si gira. Scatta il flash.
La penna più affilata di New York
Tutto calibrato, tutto coreografato. Ma serve anche qualcuno che racconti ogni scena. Quel qualcuno è Walter Winchell. Ogni sera si siede al suo tavolo riservato, il Table 50 nel Cub Room, e la mattina dopo annuncia su giornali e radio chi ha cenato, con chi, e per quanto. È la voce ufficiale dello Stork. Ma anche parte integrante della sceneggiatura: spesso trasmette in diretta dal club, con il fruscio delle posate e la musica di sottofondo a creare atmosfera.
Winchell non è solo un alleato. È una colonna del club. Ma Sherman non si affida a lui soltanto. Negli anni ’40 diventa lui stesso una figura pubblica: conduce un programma radio, poi uno show televisivo. Si chiama proprio Stork Club. Va in onda settimanalmente tra il 1950 e il 1955. Le interviste sono registrate in uno studio al piano superiore del locale, arredato per somigliare al Cub Room. Per chi guarda da casa, è come entrare nel cuore del locale più esclusivo d’America.
Una delle trovate più celebri era la Balloon Night, ogni domenica a mezzanotte. Nella Main Room, una rete si apriva sul soffitto e centinaia di palloncini colorati piovevano sulla sala, tra risate e brindisi. Alcuni nascondevano biglietti numerati: a fine serata si teneva un’estrazione, con premi che andavano da gioielli ad accessori di lusso, fino ad almeno tre vincite in contanti da 100 dollari. L’iniziativa, documentata già nel 1941, riscosse talmente tanto successo da essere copiata da altri locali negli anni ’50. Un’idea semplice, ma geniale: trasformare una serata mondana in un gioco elegante, leggero e sorprendente. E ribadire, ancora una volta, che allo Stork Club poteva succedere di tutto.
Questo sistema funziona così bene che viene copiato da altri locali. Ma lo Stork resta avanti. Lo ha capito prima di tutti: le star vogliono visibilità, e i giornali vogliono contenuti. Basta offrirglieli, già pronti, confezionati bene. Come osserva uno storico, “il Stork è stato il primo a comportarsi come un moderno VIP club: accoglienza selettiva, esposizione controllata, stampa garantita”.
Sherman lo dice spesso: chiunque, persino un turista dell’Ohio, può entrare nel suo club. Ma deve saperci stare. Vestito bene, in compagnia di una bella donna, e con l’attitudine giusta. I suoi tavoli devono essere “i più belli di New York”.
I clienti dello Stork Club
Nel cuore del Novecento, lo Stork Club è più di un locale. È un teatro perfetto, costruito per accogliere chi, in un modo o nell’altro, è già dentro una narrazione. Attori, scrittori, duchi, attrici, gangster, principi, giornalisti. Tutti si muovono tra quelle stanze come dentro una coreografia, ognuno con il proprio ruolo. Chi viene per farsi vedere, chi per vedere. Chi cerca attenzione, chi solo protezione. E poi ci sono quelli che stanno lì in silenzio, ad osservare.
Salinger si siede spesso in fondo alla sala. Lo riconoscono in pochi, è ancora agli inizi. Rimane a lungo con un bicchiere davanti, lo sguardo che vaga senza fretta. Guarda i camerieri, ascolta frasi a metà, si appunta forse certi toni. Qualcuno giura di averlo visto prendere nota su un tovagliolo. Non parla molto, ma c’è. E ogni tanto, qualche traccia di quelle serate riappare tra le righe di un racconto.
Capote invece non si nasconde. Arriva, saluta, si fa strada tra i tavoli come se tutto fosse scritto per lui. Sa di essere osservato, e lo sfrutta. Frequenta lo Stork con naturalezza: lì trova materia prima, si muove tra battute e sguardi come dentro una festa a cui è invitato da sempre.
Altri entrano e basta, portandosi dietro la loro ombra leggendaria. Una sera del 1940, Ernest Hemingway ritorna a New York dopo aver firmato la vendita dei diritti cinematografici di Per chi suona la campana. Ha in tasca un anticipo da centomila dollari. Ordina, brinda, chiacchiera con il personale. Quando arriva il conto, tira fuori quell’assegno enorme e lo porge a Billingsley: “Tieniti pure quel che ti devo”. Sherman lo guarda, poi sorride: “Non adesso. Ma se resti fino a chiusura…”. E alla fine lo fa davvero. Trova un modo, cambia l’assegno e glieli consegna, uno dopo l’altro. Nessuno sa come. Forse ha una cassaforte nascosta, forse una banca compiacente. Quel che conta è che, prima che Hemingway esca, Sherman gli chiede un favore: “Conosci un buon avvocato in Florida? C’è un certo ‘Stork Club’ laggiù che mi dà fastidio…”
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Orson Welles e Edward G. Robinson |
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Marilyn Monroe e Joe Di Maggio; Judy Garland e Vincente Minnelli; Grace Kelly col fratello Jack |
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Eddie Fisher e Yul Brynner; Frank Sinatra e famiglia; Errol Flynn |
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Robert Montgomery con la figlia Elizabeth; Wilding con la moglie Elizabeth Taylor; Igor Cassini e Gene Tierney |
Lo Stork è anche questo: un posto dove tutto può succedere, ma dove ogni cosa è attentamente sorvegliata. Gli ospiti illustri non mancano mai. In certe sere ci sono i Windsor, silenziosi e impeccabili, o Ali Khan e Rita Hayworth, stretti l’uno all’altra, come se cercassero di fermare qualcosa che scivola via. Josephine Baker, quando passa, lascia dietro di sé una scia di attenzione discreta. Sinatra viene e va, sempre protetto da una certa distanza, come chi conosce bene i pericoli della popolarità.
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Ben due futuri presidenti americani, Kennedy e Reagan |
E poi c’è Grace Kelly. È il 3 gennaio del 1956. Cena in un tavolo riservato con il Principe Ranieri di Monaco. Accanto a loro, un vecchio amico di lei, il giornalista Jack O’Brian. Le voci su un possibile fidanzamento circolano da giorni, ma ancora nessuna conferma. A un certo punto O’Brian le fa passare un foglietto. Una domanda, secca: “Fonti sicure dicono che stai per fidanzarti”. Grace legge, sorride, prende la penna e risponde: “Non posso dire nulla prima di venerdì”. È martedì. Il venerdì seguente, la notizia sarà ufficiale. Ma lo scambio avviene lì, sotto i lampadari dello Stork, tra un brindisi e un dessert.
La lista dei frequentatori fissi è lunga, e a tratti sorprendente. J. Edgar Hoover passa spesso, in borghese, seduto in un angolo. Lo stesso locale è frequentato anche dal malavitoso Frank Costello, e non è raro che i due si trovino a pochi metri di distanza, in sale diverse ma sotto lo stesso tetto. Una vicinanza silenziosa, che racconta più di molte parole.
Naturalmente, anche tra quelle pareti dorate si alza ogni tanto la voce. Sherman non ammette sregolatezze. Se un cliente, famoso o meno, infrange le regole, viene allontanato.
Humphrey Bogart viene bandito a vita dopo una discussione troppo accesa con Billingsley sul servizio. Sembra sia stato accompagnato fuori in modo educato ma fermo. Milton Berle, comico vulcanico, viene espulso perché – parole di Sherman – “saltava da un tavolo all’altro, faceva battute a voce troppo alta, e una volta anche una capriola tra i tavoli”. Berle dirà che è colpa di una parodia che ha fatto del club nel suo show, ma resta fuori.
E a volte, succede anche di peggio. Il press agent Steve Hannagan lo sintetizza così: “Una buona scazzottata all’anno è accettabile anche in un night rispettabile”. Una delle più famose vede protagonista Johnny Weissmuller, l’ex Tarzan e campione olimpico. Una notte, un giovane tenente di marina ubriaco inizia a infastidire le ballerine, bruciando con la sigaretta i loro vestiti mentre passano. Weissmuller si alza, gli intima di fermarsi. Il marinaio risponde: “Vai a tagliarti quei capelli, scimmione”. È presente anche la moglie di Johnny, Lupe Velez. Volano parole, poi parte un pugno. L’ufficiale finisce a terra. Dirà che gli amici di Johnny l’hanno trattenuto. Ma la stampa simpatizza con Tarzan.
La terra trema
Ci sono due momenti, nella lunga vita dello Stork Club, in cui la cronaca entra a gamba tesa nel glamour. Due scandali. Dal primo il locale uscirà persino più forte, con l’aura del sopravvissuto. Dal secondo, invece, qualcosa si incrinerà per sempre.Negli anni Trenta, Sherman Billingsley non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di contrabbandiere. È il re del night più ambito di New York, ma il potere non lo mette al riparo dai riflettori scomodi. Soprattutto quando, dall’altra parte, c’è Fiorello La Guardia. Il sindaco, instancabile nella sua crociata contro vizio, corruzione ed evasione fiscale, ha dichiarato guerra a tutto ciò che sa di privilegio. E lo Stork Club, con i suoi cocktail serviti in coppe gelate, il denaro che scorre veloce e i clienti illustri gli dà parecchio fastidio.
Nel 1944 scatta l’affondo: la municipalità accusa lo Stork di aver sovraccaricato i clienti e trattenuto indebitamente parte delle tasse su cibo e alcol. Il debito ammonta a oltre 180.000 dollari. Gli agenti della Liquor Authority si presentano al club per sequestrare beni pari alla cifra contestata.
Billingsley sbotta, sostiene di essere in regola, ma non può far altro che accettare il compromesso: il locale resta aperto, ma con un sorvegliante statale fisso in sala, incaricato di controllare i conti sera dopo sera.
La stampa si divide. I giornali liberal applaudono l’operazione. Walter Winchell, ancora una volta al suo fianco, rilancia in radio: “La Guardia non vuole chiudere un club, vuole punire la mondanità”.
Intanto, lo Stork Club si adegua, paga le sanzioni, e continua a versare champagne. Anzi, dopo lo scandalo, le prenotazioni aumentano. Il locale diventa quello “che nemmeno il sindaco è riuscito a far chiudere”.
Dodici anni dopo, è la sera del 16 ottobre 1951. Josephine Baker, leggenda afroamericana del palcoscenico e simbolo della Parigi degli anni ruggenti, è a New York per l’ultima data del suo tour al teatro Roxy. Dopo lo spettacolo, decide di festeggiare con alcuni amici, tra cui il pittore Roger Rico e sua moglie. Scelgono il ristorante più noto e fotografato della città: lo Stork Club.
Appena arrivata, Josephine viene accolta e fatta accomodare. Ordina una bistecca. Intorno, l’usuale andirivieni di camerieri, tavoli pieni, voci basse, cubalibre e gin fizz. Ma qualcosa stona. Gli altri commensali vengono serviti. A lei, nulla. Passano trenta minuti, poi quaranta, infine un’ora. Niente. Nei giorni successivi, Josephine dichiara alla stampa: “Non mi hanno servita perché nera”. La notizia esplode.
A renderla ancora più eclatante è un dettaglio: Walter Winchell, il giornalista più potente d’America, è presente quella sera, seduto al tavolo 50. La Baker lo conosce da anni, lo ha salutato entrando. Ma quando accusa lo Stork Club, accusa anche lui. Lo definisce complice, per non aver fatto nulla. Winchell risponde di non essersi accorto di nulla, dice di essere uscito poco dopo per una proiezione privata. Ma la sua versione non convince e la bomba ormai è esplosa. Il 19 ottobre i giornali titolano: “Josephine Baker accusa lo Stork Club di razzismo”. La polemica si allarga. Ed Sullivan, storico rivale di Winchell, attacca dal microfono dell’El Morocco: “Quello che ha fatto Winchell è un insulto agli Stati Uniti.” Winchell replica pubblicando una lettera di Walter White (NAACP) a suo favore, ma Billingsley la definisce una falsificazione.
Le versioni si moltiplicano. La moglie di Rico inizialmente conferma la storia della Baker, poi cambia versione: dice che la bistecca sarebbe arrivata durante una telefonata, e che Josephine avrebbe comunque deciso di andarsene. Ma ormai non importa più. Il caso è scoppiato.
Seduta a pochi metri, c’è una giovane attrice bionda di 22 anni: Grace Kelly. Non è ancora famosa, ma la sua presenza non passa inosservata. Secondo varie testimonianze, Billingsley, vedendo Josephine, avrebbe sussurrato: “Chi l’ha fatta entrare?”. Grace, indignata, si alza e invita Josephine a lasciare il locale insieme. Seguono anche i suoi accompagnatori. È un gesto silenzioso, ma potente. L’inizio di un’amicizia tra due donne diversissime, unite da quella sera. Non finirà subito sui giornali, ma verrà ricordato.
La settimana dopo è infuocata. Il 27 ottobre, decine di manifestanti della NAACP si radunano davanti allo Stork Club. Tra loro anche Bessie Buchanan, ex ballerina e ora politica. Cartelli, slogan, richieste di giustizia. Josephine presenta un esposto per discriminazione. Parte un’indagine. Vengono interrogati camerieri, clienti, membri dello staff. Conclusione: nessuna prova sufficiente. Il caso è chiuso. Ma le conseguenze appena iniziate.
Billingsley, che nega ogni intento discriminatorio, insiste: nel suo club contano solo due cose, soldi ed eleganza. Ma la reputazione dello Stork si incrina. Per la prima volta, viene coinvolto in un vero dibattito sociale. E la figura di Billingsley ne esce indebolita.
Ma chi paga il prezzo più alto è Walter Winchell. Travolto dalle critiche, reagisce con ferocia: nella sua rubrica insinua simpatie naziste nella Baker, ricorda spettacoli in Germania pre-bellica, poi va oltre. Fa arrivare all’FBI voci su presunti legami comunisti.
Hoover lo ascolta. Josephine finisce in un dossier che la seguirà per anni. Le viene impedito di lavorare negli Stati Uniti. Si trasferisce in Europa.
Winchell, intanto, perde terreno. L’opinione pubblica si allontana. Gli editori iniziano a scaricarlo. La sua parabola discendente inizia lì, in quella notte d’ottobre. Molti biografi indicano il caso Baker come il punto di rottura: il momento in cui l’uomo più ascoltato d’America comincia a cadere.
Paradossalmente, le due figure più potenti dello Stork, Billingsley e Winchell, escono danneggiate. Josephine Baker, invece, acquista un’aura da icona civile, simbolo di coraggio e dignità.
Il caso Baker resta ancora oggi uno spartiacque. Quella sera allo Stork Club si è rotto qualcosa. E nemmeno la perfezione dorata della catena d’ingresso è riuscita a tenerlo nascosto.
Nella cultura pop
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta il locale è talmente radicato nell’immaginario collettivo da entrare nella cultura popolare: film, canzoni, libri. Dire “lo Stork” è dire “locale alla moda”.
Nel 1945 la Paramount produce persino un film con quel titolo: The Stork Club. Una commedia musicale ambientata al numero 3 di East 53rd Street, con Betty Hutton nei panni di una guardarobiera che salva un milionario e si ritrova in mezzo a equivoci romantici. Non è un capolavoro, un critico scrive che “è noioso quanto il titolo promette”, ma il nome basta a richiamare pubblico. Billingsley, come sempre, gioca bene le sue carte: all’anteprima piazza un’enorme locandina davanti al club e organizza un after-party con la Hutton. Il giorno dopo, ne parlano tutti.
Nel film compare anche una versione romanzata di Billingsley: l’attore Bill Goodwin interpreta un proprietario chiaramente ispirato a lui. Accanto a lui, Dean Jagger, Robert Benchley e vari riferimenti alle vere abitudini del locale.
Lo Stork però compare anche altrove, spesso in modo sottile. In Eva contro Eva (1950), Margo Channing (Bette Davis) cena allo Stork con Karen (Celeste Holm). Sul tavolo compaiono due confezioni di Sortilège de Le Galion, il profumo ufficiale del club. Nessuno lo nomina, ma chi conosce il locale sa cosa contengono: il celebre flacone scanalato in vetro, e un ricordo profumato di una serata speciale. A fianco, un portaprofumo a forma di cicogna col cilindro: mascotte ironica e profumata dello Stork Club.
Infine, Il ladro di Alfred Hitchcock (1956) mette lo Stork al centro della trama. Christopher Emmanuel Balestrero, interpretato da Henry Fonda, lavora lì come contrabbassista. Il film si basa su una storia vera, raccontata su Life Magazine: una sera, Balestrero viene arrestato per errore, accusato di rapine che non ha commesso. Solo l’arresto del vero colpevole lo scagiona. Il fatto che lavori allo Stork, quel regno dorato di camerieri in smoking e posacenere col logo inciso, rende la sua caduta ancora più paradossale.
Cala il sipario
Per trent’anni lo Stork Club è stato il centro del mondo. Ma a un certo punto qualcosa si incrina. I tempi cambiano, i gusti anche. La nuova generazione preferisce locali più informali, jazz club nel Village, piste da ballo dove si può entrare senza giacca e cravatta. Il mondo dorato di Sherman Billingsley comincia a sembrare un po’ fuori dal tempo.
Lui, però, non ha mai smesso di crederci. Ha continuato a spendere, a regalare, a organizzare serate come se nulla fosse. Ma nel 1956, per la prima volta, il bilancio ha chiuso in perdita.
Il vero colpo arriva un anno dopo, con lo sciopero. I dipendenti chiedono tutele e orari regolari. Billingsley non vuole sentire ragioni. Si oppone in tutti i modi. Ma davanti all’ingresso del club iniziano ad apparire i picchetti. Cartelli, cori, inviti al boicottaggio. Molti habitué, per evitare polemiche, smettono di frequentare. Altri – attori, musicisti, giornalisti – sono costretti a restare lontani per non perdere l’iscrizione alle rispettive unioni.
Lo staff si spacca. Qualcuno resta per lealtà, altri se ne vanno. Billingsley diventa sospettoso, licenzia, si chiude a riccio. Inizia a portare con sé una pistola. Una sera lo arrestano: ha puntato l’arma contro alcuni operai convinto fossero scioperanti. Stavano semplicemente mangiando un panino sul marciapiede.
Nel frattempo, il locale si svuota. L’orchestra si è sciolta, la musica non c’è più. Winchell ha lasciato il tavolo 50. L’atmosfera si è fatta amara. Per la prima volta lo Stork Club fa stampare pubblicità sui giornali. Nel 1963 sulle pagine del New York Times offre hamburger e patatine a $1.99, quasi a voler attirare clienti comuni con prezzi stracciati. Chi conosce lo Stork capisce che quello è un segnale di disperazione: il più esclusivo locale d’America ridotto a reclamizzare hamburger economici.
Nel 1965 Billingsley è stanco, malato e ormai quasi senza risorse. Ha già intaccato i fondi fiduciari delle figlie per tamponare le perdite. Nell’autunno annuncia che il club chiude “temporaneamente” per lavori. Nessuno ci crede. Il 4 ottobre, lo Stork abbassa per sempre la saracinesca.
L’edificio viene venduto alla CBS. L’anno dopo è demolito. Al suo posto, nel ’67, nasce un piccolo parco pubblico: Paley Park. Lo stesso giorno – un anno esatto dopo – Sherman Billingsley muore d’infarto. Aveva 66 anni.
Se mai vi capiterà di passare da quelle parti, tra la 53rd e Madison, fermatevi a Paley Park. È solo un giardino, con qualche tavolino e una cascata che copre il rumore del traffico.
Ma lì, per trent’anni, ha pulsato il cuore mondano di una città intera. E anche se oggi sembra tutto sparito, qualcosa è rimasto. Sta nella luce, nei nomi che l’hanno attraversato, e in certe storie che non fanno rumore, ma resistono. Come quella cascata, che continua a scorrere.
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- lunedì, ottobre 13, 2025
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