«Sei troppo vecchia, troppo grassa e troppo dignitosa per essere Prissy.»
Con questa frase brutale, pronunciata da un assistente del produttore David O. Selznick, una giovane attrice afroamericana si sente respinta per un ruolo che, di lì a poco, la rende celebre in tutto il mondo. Eppure, è proprio quella ragazza dalla voce acuta e dall’energia nervosa a dare al cinema una delle interpretazioni più memorabili e complesse della sua epoca. Il suo nome? Butterfly McQueen.
Il personaggio di Prissy, nella sceneggiatura di Via col vento, nasce da un immaginario difficile, che oggi fa discutere e divide. Ma Butterfly riesce a infondere in quel ruolo una vitalità imprevedibile, trasformando una figura marginale in qualcosa di vivo, ironico, persino disarmante. Quella battuta — «Ah don’ know nuthin’ ’bout birthin’ babies!» — attraversa la storia del cinema non solo per la sua forza, ma per tutto ciò che la giovane attrice riesce a costruirci intorno.
La sua storia parla di resistenza e reinvenzione. Di battaglie combattute fuori scena, dove il copione non prevede né applausi né riconoscimenti. È la storia di una donna che attraversa il Novecento americano con la leggerezza ingannevole di una farfalla, lasciando una scia luminosa anche nei momenti più bui. E che, in un destino quasi poetico, più di cinquant’anni dopo quella fuga da un’Atlanta in fiamme sullo schermo, si ritrova ancora una volta a fare i conti con le fiamme. Ma nella vita reale.
Seguitemi. Perché Butterfly McQueen non è stata solo Prissy. È stata molto di più.
Prima di Butterfly c'è stata Thelma
Thelma McQueen nasce l’8 gennaio 1911 a Tampa, in Florida, una città portuale affacciata sul Golfo del Messico, attraversata da influenze caraibiche, britanniche e afroamericane. Il nome “Tampa” deriva da un termine nativo che significa “fuochi accesi” — un’immagine che sembra già presagire, in qualche modo, il destino incandescente della piccola Thelma.
Suo padre, Wallace McQueen, lavora nei moli: ogni giorno carica e scarica merci sotto il sole, in un mondo dove la fatica fisica è legge e le mani parlano prima delle parole. Sua madre, Mary Richardson, è una domestica: lavora nelle case degli altri, si occupa dei figli altrui, cucina, lava, rassetta. Eppure, nonostante le ore pesanti e i doveri infiniti, trova il modo di trasmettere alla figlia qualcosa di più prezioso: il senso della dignità, l’importanza dell’autonomia e una certa grazia nel portare avanti le giornate.
La famiglia non è ricca, né stabile. Sono anni duri, segnati dalla separazione precoce dei genitori, ma Thelma — figlia unica — si aggrappa a ciò che ha: la voce, il corpo, l’immaginazione. Da piccolissima ama cantare e ballare, imita le persone che le ruotano attorno, assorbe accenti come fossero melodie. Quando i genitori la affidano a vicini e conoscenti bahamiani, impara persino un tocco d’accento britannico che resterà con lei per tutta la vita.
Quando il matrimonio dei genitori finisce, Thelma ha solo cinque anni. Ricorda suo padre alla stazione, mentre cerca di portarla via dalla madre. Ma un giudice decide diversamente: Thelma resta con Mary. È l’inizio di una lunga separazione, fatta di viaggi in treno e nuove case. La madre, nel tentativo di trovare un lavoro stabile, si sposta lungo la costa Est, lasciando la bambina alle cure di uno zio e una zia ad Augusta, in Georgia. Lì, secondo il censimento del 1920, la piccola Thelma — otto anni appena — vive con James e Ida Richardson: lui lavora come cameriere in hotel, lei come cuoca per una famiglia privata.
Nonostante il disorientamento e l’assenza della madre, Augusta offre a Thelma un primo senso di comunità. Frequenta il Walker Baptist Institute, fondato da un ex schiavo diventato pastore, il dottor Charles T. Walker, figura carismatica che predica emancipazione e orgoglio. In seguito, studia anche al convento di St. Benedict, dove l’atmosfera è più rigida ma altrettanto formativa. Quando finalmente Mary riesce a stabilirsi ad Harlem come cuoca, chiama la figlia a raggiungerla. Thelma si trasferisce così a New York, frequenta la Public School 9 e poi la scuola superiore a Babylon, Long Island.
Nel 1930, secondo il censimento, lavora già come domestica presso una famiglia bianca. È un periodo in cui si alternano studio, lavoro e sogni tenuti a bada. In quel mondo ordinato e sorvegliato, l’unico spazio libero resta la chiesa. È lì che Thelma comincia a recitare, ogni venerdì sera, durante le letture pubbliche della Bibbia. Dice che è lì che scopre davvero il teatro. “Da bambina conoscevo solo la chiesa, la chiesa, la chiesa.” Ma bastano quei pochi metri di moquette, una lettura ad alta voce e un gruppo di fedeli ad ascoltarla, per capire che una voce — anche la sua — può avere potere.
La farfalla prende il volo
Il teatro, per lei, comincia come un passatempo. Un gioco che diventa abitudine. Ma una di quelle abitudini che si incollano all’anima. Non pensa di voler fare l’attrice — non davvero — finché un giorno, nel cortile dietro casa a Tampa, trova una vecchia rivista abbandonata. È una copia sgualcita di Photoplay, piena di volti sorridenti e pettinature lucide, le immagini patinate del sogno americano. Sfoglia distrattamente, ma all’improvviso si ferma. Qualcosa la colpisce: “Fui colta da una strana premonizione che mi fece capire che un giorno anch’io sarei stata tra quelle foto.”
Non lo dice per vanità, né per un impulso infantile. È come se, in quel momento, avesse visto una versione possibile di sé, più luminosa, più vera. Una farfalla ancora nel bozzolo, che sa che prima o poi volerà.
Thelma ama danzare. Non è solo una passione: è una fuga. Quando partecipa a una piccola recita scolastica intitolata Zia Sophronia, scopre per la prima volta l’emozione del palcoscenico. È lì che danza nel “Butterfly Ballet”, indossando collant dorati e ali di paillettes. Ricorderà per tutta la vita quei momenti: “Oh, è stato il balletto più bello che abbiate mai visto.”
In un’altra occasione, durante una rappresentazione scolastica di Sogno di una notte di mezza estate, interpreta la Regina delle Fate, girando in cerchio attorno a un prato, tra fiori e nastri, mentre recita Shakespeare. Quelle prime esperienze scolastiche non sembrano promettere un futuro, eppure, nella loro semplicità, accendono in lei una scintilla.
Il salto verso il palcoscenico vero avviene ad Harlem, nel 1934, quando entra nel Negro Youth Theatre Group diretto da Miss Venezuela Jones. Durante le prove di Sogno di una notte di mezza estate al City College, si confronta con giovani attori che hanno già lavorato a Broadway o nei nightclub. Lei, invece, ha solo un ricordo da raccontare: “Io ero nel Butterfly Ballet.”
È allora che la sua amica Ruth Moore le fa una proposta che cambierà tutto: “Dovresti chiamarti Butterfly.” È semplice, evocativo e pieno di grazia. Thelma accetta, e da quel momento, per tutti, diventa Butterfly. Non è un vezzo, è una scelta di identità. È la firma con cui inizierà a farsi spazio in un mondo che non le promette nulla.
Butterfly sa che sfondare come attrice, per una giovane donna nera, è quasi un’utopia. Ma è determinata. Inizia a frequentare ambienti teatrali, si unisce a gruppi amatoriali, partecipa a letture, osserva tutto. È un periodo difficile: lavora come bambinaia, poi in fabbrica, finché finalmente riesce a farsi notare.
Un giorno arriva l’occasione: il produttore George Abbott, un nome importantissimo a Broadway, la nota durante un’audizione. Non è solo il suo nome curioso ad attirarlo, ma quella voce acuta, nervosa, inconfondibile. Si dice che proprio per lei abbia scritto il ruolo di Lucille, la cameriera impaurita e gentile nel dramma Brown Sugar di Bernie Angus. La pièce debutta al Biltmore Theatre nel dicembre 1937.
La scena in cui entra tremando e sussurra con voce stridula “Fatevi avanti, per favore” fa scoppiare il pubblico in una risata affettuosa. Un critico scrive che sembra “un cherubino che accompagna con gioia i nuovi arrivati alle Porte del Paradiso.” Lo spettacolo dura solo quattro serate, ma basta per lanciarla: è il suo debutto “ufficiale”, ed è subito notata per quella voce unica e per la sua presenza scenica singolare.
Abbott non si dimentica di lei. Quando mette in scena What a Life, una brillante commedia scolastica scritta da Clifford Goldsmith, la richiama. La pièce è un successo clamoroso e resta in cartellone per oltre 500 repliche. Butterfly non ha un ruolo centrale, ma ogni volta che entra in scena conquista il pubblico. È come se fosse diventata il portafortuna di Abbott. E lo capisce anche lei, quando, durante una matinée a Filadelfia, un agente le si avvicina con un contratto da firmare: “Se vuoi venire a Hollywood, firma.”
E Butterfly firma. Perché a Hollywood ci vuole andare. Vuole vederla coi suoi occhi. E perché, nel frattempo, quei piccoli ruoli iniziano a portarle qualcosa di più: visibilità, un po’ di soldi e la sensazione di avere finalmente una possibilità.
Il ruolo che doveva essere suo
La fama di Butterfly comincia a correre. E corre veloce, fino agli uffici di David O. Selznick. È lui il produttore che ha acquistato i diritti di Via col vento (la storia pazzesca di questo film ve l'ho raccontata qui in uno dei miei primissimi articoli) e sta cercando gli attori per la versione cinematografica del romanzo più venduto del decennio. Butterfly sa che nel libro c’è un personaggio che potrebbe interpretare: Prissy, una giovane schiava dalla voce stridula e dai modi infantili. È un ruolo marginale, ma con un forte impatto narrativo.
L’amica Ruth Moore la sprona: “Vai da Selznick e digli che tu sei Prissy.” E Butterfly ci prova. Si presenta agli uffici newyorkesi e incontra un assistente del produttore, un certo signor Bundamann. Ma l’accoglienza è glaciale: “Sei troppo vecchia — troppo grassa — e troppo dignitosa per la parte. Non potresti mai essere Prissy.”
Un giudizio che oggi suona quasi grottesco: Butterfly ha solo 27 anni, la stessa età di Vivien Leigh, che di lì a poco sarà scelta per interpretare Rossella O’Hara.
È una porta che si chiude in faccia. Ma la fortuna, a volte, torna indietro in punta di piedi. Pochi mesi dopo, Selznick inizia a notare il nome di Butterfly tra le attrici rivelazione del teatro newyorkese. L’ha vista in Brown Sugar, e poi in What a Life. Quella voce, quella presenza… c’è qualcosa di magnetico.
La rintracciano a Filadelfia durante una matinée teatrale e le portano un contratto da firmare. È l’inizio di una nuova avventura. Butterfly non conosce ancora il mondo di Hollywood, ma sa riconoscere un’occasione. “Volevo solo vedere com’era Hollywood,” dirà poi. “Ero attratta dalla possibilità di guadagnare e saldare i miei debiti.”
Non sa che sta per entrare in uno dei film più iconici della storia del cinema. E che quel ruolo, apparentemente secondario, la renderà immortale. Anche se il prezzo sarà alto.
Il viaggio inizia il 15 gennaio 1939, quando Butterfly McQueen lascia New York diretta a Hollywood. Dieci giorni dopo, George Cukor pronuncia il primo “Motore!” sul set di Via col vento. È l’inizio di un’avventura che sembra promettere sogni, ma che per Butterfly si trasforma presto in un percorso fatto di umiliazioni, tensioni e battaglie invisibili.
Il regista è noto come “il regista delle donne”, amato dalle star femminili, da Katharine Hepburn a Greta Garbo. Ma con Butterfly, la dolcezza si trasforma in severità. Durante le riprese della scena del parto, Vivien Leigh deve schiaffeggiare Prissy. Cukor pretende che la scena sia realistica, e Vivien segue le sue indicazioni con zelo. Il dolore è vero. Butterfly, colpita ripetutamente, crolla: “Non ce la faccio! Mi sta facendo male!”, grida sul set. Ma Cukor si infuria: “Sono io il regista, decido io quando si taglia.” Il set si gela. Butterfly esce, in lacrime. Solo dopo le scuse di Vivien Leigh decide di tornare a girare.
Nel documentario del 1988 The Making of a Legend: Gone With the Wind, Butterfly racconta di aver trovato una soluzione: propone a Cukor che Leigh finga lo schiaffo e che lei urli a squarciagola, mentre il rumore verrà aggiunto dopo in post-produzione. Un compromesso tecnico per salvare un frammento della sua dignità.
Nel frattempo, Cukor scherza sul set con riferimenti al Sud schiavista, minacciando — “per gioco” — di vendere Prissy lungo il fiume o di farsi portare la frusta di Simon Legree. La giornalista Susan Myrick annota tutto come folklore cinematografico, trovando “divertente” il suo modo di provocare Butterfly. Ma usa sempre il nome del personaggio — Prissy — mai quello reale. Per lei, Butterfly e la schiava che interpreta sono la stessa cosa.
Le tensioni artistiche tra Cukor e Selznick esplodono a febbraio. Una semplice battuta di Prissy — “Dice che se metti un coltello sotto il letto, il dolore si divide in due” — diventa motivo di scontro. Cukor vuole che venga detta in modo concitato, Selznick la preferisce lenta. È una frase che doveva far sorridere, ma è solo crudele. Nessuno dei due si accorge di quanto sia insensibile. L’11 febbraio il clima è ormai irrespirabile. Il 15, Cukor viene allontanato dalla regia. La produzione si ferma per due settimane.
Quando il film riparte, Victor Fleming prende il comando. Ed è lui a dirigere la celebre scena fuori dal bordello, con Prissy che corre terrorizzata da Rhett Butler gridando: “De Yankees is comin’!” — battuta improvvisata da Butterfly, che infonde un’inaspettata vitalità al personaggio. È anche lei a esagerare ironicamente il proprio ruolo nel parto, dicendo a Rhett: “Rossella e io l’abbiamo fatto nascere, ma ho fatto quasi tutto io.” Piccoli gesti di resistenza creativa.
Un altro regista, Sam Wood, gira le sequenze finali nella piantagione Tara. In una scena, Melanie apprende che Ashley è stato fatto prigioniero. Prissy dovrebbe trovarsi in cucina, con una fetta d’anguria in mano. Butterfly si oppone con decisione. “Non avrei mai fatto quella scena,” dirà anni dopo. “Non volevo essere ripresa mentre mangio l’anguria. Era un’immagine che mi feriva profondamente.” Quando ne parla, col tempo, riesce persino a sorriderne: “Forse avrei potuto anche divertirmi a sputare i semi mentre la gente passava…”. Ma la ferita resta.
Butterfly cerca anche di modificare dettagli minori, come il foulard da domestica imposto dal copione. Propone fiocchi colorati. Le viene detto di no. E protesta quando nel copione Rhett la definisce “nera sempliciotta”. Anche quella battuta rimane.
La tensione sul set si traduce anche in gesti pratici: gli attori neri, incluso Butterfly, devono viaggiare in un unico veicolo, separati dai colleghi bianchi che arrivano in limousine. Lei partecipa a una protesta contro questa segregazione, anche se silenziosa. Il set di Via col vento è uno specchio fedele dell’America che racconta.
A ottobre 1939, Selznick gira nuovamente la sequenza del ritorno a Tara, inserendo una scena in cui Butterfly e Vivien Leigh attraversano un campo disseminato di cadaveri. Sono ancora loro due, ancora insieme, ancora sotto le luci, ma la gioia del cinema è ormai molto lontana per Butterfly.
Nel frattempo, George Cukor, appena allontanato dalla regia, passa alla MGM per dirigere The Women. Chiede a Butterfly di interpretare Lulu, una cameriera con una battuta comica. Lei accetta. Ma anni dopo, rivelerà che quel piccolo ruolo aveva il sapore amaro della vendetta. “Cukor voleva sfogarsi su di me. Quando lavorava per Selznick non poteva farlo. Ora sì. E lo fece. Lo ricorderò finché vivo.”
Il 14 dicembre 1939, la vigilia della prima mondiale di Via col vento ad Atlanta, la città si prepara a celebrare l’evento con un sontuoso ballo di gala. L’atmosfera è euforica, la lista degli invitati riunisce l’élite del Sud: star di Hollywood, politici locali, figure influenti. Ma, in mezzo a tanto splendore, spiccano due assenze dolorose: Hattie McDaniel e Butterfly McQueen non sono state invitate. Nella Georgia segregazionista, non c’è spazio per due attrici nere, per quanto fondamentali nella realizzazione del film.
Eppure, tra i presenti c’è un bambino di dieci anni che diventerà una delle voci più importanti della storia americana: Martin Luther King Jr. Fa parte del coro della chiesa di suo padre, la Ebenezer Baptist Church, e in quella serata assiste a un rituale profondamente simbolico. La città bianca accoglie con entusiasmo Via col vento, vedendo nel film una glorificazione nostalgica del proprio passato confederato, delle piantagioni e di un Sud che non vuole essere dimenticato. Più di 2.000 persone affollano il Loew’s Grand Theater, pronte a immergersi, in Technicolor, nel mondo dei loro antenati.
David O. Selznick aveva considerato l’idea di portare Hattie e Butterfly alla première, nella speranza di ottenere attenzione dalla stampa afroamericana. Ma i suoi consiglieri lo dissuadono: sarebbe troppo rischioso. Le due attrici avrebbero dovuto affrontare sistemazioni umilianti e razzismo aperto, e l’intera operazione avrebbe potuto ritorcersi contro il film. Alla fine, si decide che non parteciperanno. Le loro immagini compaiono nei programmi della première a New York e Los Angeles, ma ad Atlanta — dove il film prende vita — vengono cancellate.
Pochi mesi dopo, però, la storia prende una piega diversa. Il 29 febbraio 1940, Hattie McDaniel partecipa alla cerimonia degli Oscar al Coconut Grove dell’Ambassador Hotel di Los Angeles. Quella sera, diventa la prima attrice afroamericana a vincere un Academy Award, nella categoria di Miglior attrice non protagonista. La concorrenza è fortissima — ci sono Olivia de Havilland, Geraldine Fitzgerald, Edna Mae Oliver e Maria Ouspenskaya — ma quando Fay Bainter sale sul palco, la sala si ammutolisce.
“È con la consapevolezza che l’intera nazione si alzerà per salutare questo momento,” annuncia con voce solenne, “che consegno l’Oscar per la miglior interpretazione femminile non protagonista del 1939 a Hattie McDaniel.”
Hattie, vestita in un abito celeste impreziosito da strass e una giacca di ermellino, attraversa la sala da ballo con il suo accompagnatore, tra i flash dei fotografi. È un momento storico: una figlia di ex-schiavi che raggiunge la vetta del cinema americano. Una vittoria che, tuttavia, non cancella le contraddizioni e le ferite del sistema in cui ha dovuto farsi strada.
Margaret Mitchell, l’autrice del romanzo, nel frattempo si dice delusa dalla performance di Butterfly. Pensava che Prissy dovesse essere semplicemente una fannullona — non una sciocca — e confessò che quel ruolo era l’unico che avrebbe voluto interpretare lei stessa. “Seguirò ogni suo gesto con occhio geloso,” scrisse nel 1937. Ma Butterfly aveva capito bene quel personaggio e, pur debuttando in una delle produzioni più ambiziose della storia, non si piegò alle caricature imposte. Lottò per sottrarsi agli stereotipi, rifiutò di mangiare anguria in una scena e chiese modifiche che non furono accolte. Ma quel suo dissenso, la sua ostinazione, è ciò che ha dato profondità a Prissy.
Contro ogni aspettativa, riuscì a trasformare un ruolo umiliante in qualcosa di più. Nelle mani di Butterfly, Prissy diventa — come ha scritto lo storico Donald Bogle — “delicatamente sfumata, ambigua in modo sconcertante, eccentrica, bizzarra e persa nel suo mondo.”
Una gabbia dorata
Prissy è un successo. Non importa quanto il personaggio sia costruito su stereotipi, quanto poco spazio occupi nella narrazione o quanto le sue battute siano imbarazzanti: il pubblico se la ricorda, la critica la nomina, e perfino chi guarda Via col vento per la ventesima volta non riesce a dimenticarla. Quella voce acuta, tremolante, e quelle espressioni esagerate diventano subito iconiche. Ma per Butterfly, quel successo ha il sapore amaro di una gabbia dorata.
Il ruolo le apre le porte di Hollywood, certo, ma solo per farla entrare in un corridoio buio e stretto, dove ogni uscita conduce sempre alla stessa destinazione: la cucina, il retro della casa, l’uniforme da cameriera. Dopo Prissy, non le vengono offerte nuove possibilità, ma semplicemente variazioni sul tema. È sempre la domestica, la serva svampita, la ragazza del servizio. E il rischio di restare ingabbiata in quel cliché diventa una realtà dolorosa.
Nel 1941 compare in Con mia moglie è un’altra cosa, al fianco di Hattie McDaniel: di nuovo, la parte è quella della cameriera. Nel 1943 recita in due commedie musicali dirette da Vincente Minnelli — Due cuori in cielo con Lena Horne e Louis Armstrong, e Il signore in marsina — ma anche lì, i ruoli sono brevi e stereotipati. Nel 1945 è la cameriera Belulah in Fiamme a San Francisco, e Lottie, la domestica di Il romanzo di Mildred, dove Joan Crawford vince l’Oscar. Un altro film importante, un altro momento invisibile per lei.
Il punto non è solo che i ruoli siano piccoli. È che sono sempre gli stessi. E Butterfly lo sa. Lo dice apertamente, più volte, che non vuole restare “una ragazza col fazzoletto in testa”. Ma Hollywood non è pronta ad ascoltarla. O forse, peggio ancora, non vuole ascoltarla. La sua voce, tanto inconfondibile sullo schermo, diventa silenziosa nei corridoi degli studios.
Anche quando lavora con registi importanti — come King Vidor in Duello al sole (1946) — la sostanza non cambia. Il suo personaggio è ancora una volta una cameriera, e il contesto continua a riprodurre quell’immaginario razziale che Via col vento aveva già contribuito a rafforzare.
Butterfly capisce presto che le promesse fatte all’inizio — quei sogni venduti insieme al biglietto per Hollywood — sono illusioni. Non c’è davvero spazio per una giovane attrice afroamericana che rifiuta di essere solo una caricatura. Eppure, nonostante tutto, non si arrende. Non lascia che la frustrazione prenda il sopravvento. Continua a cercare, a studiare, a lavorare, anche quando la macchina del cinema sembra averla abbandonata.
Il suo è un successo ingannevole: visibile a tutti, ma vuoto dentro. Una fama costruita su una gabbia. Ma lei, ancora una volta, non smette di cercare una via d’uscita.
Oltre lo schermo
Negli anni Cinquanta, Butterfly McQueen volta pagina. Dopo la frustrazione per i ruoli stereotipati e sempre uguali offerti da Hollywood, sceglie consapevolmente di abbandonare il grande schermo. È una decisione coraggiosa, ma non un addio al mondo dello spettacolo: piuttosto, un cambio di direzione. Si avvicina alla radio, un mezzo che aveva già frequentato da giovane, e inizia a collaborare con programmi seguitissimi come il Jack Benny Program, dove interpreta, con grazia e autoironia, una domestica svampita che porta il suo stesso nome, Butterfly. Il personaggio, sebbene leggero, le permette di sfruttare il suo talento comico e la sua voce unica, diventando una presenza riconoscibile e amata dal pubblico radiofonico.
Nel frattempo, partecipa anche alla storica sitcom radiofonica Beulah, la prima a vedere una donna afroamericana nel ruolo da protagonista. Nata come programma comico nel 1945 con un attore bianco, Marlin Hurt, a interpretare in blackface la domestica di colore, Beulah cambia volto nel 1947 con l’arrivo di Hattie McDaniel. Quando la serie approda in televisione, all’inizio degli anni ’50, Butterfly entra nel cast interpretando il personaggio ricorrente di Oriole, una cameriera allegra e impacciata che rappresenta, ancora una volta, quella linea sottile tra comicità e critica sociale. È uno dei rari casi in cui un’attrice nera riesce a ritagliarsi uno spazio nel panorama televisivo americano dell’epoca.
Nel 1951, spinta dal desiderio di raccontarsi in modo personale, Butterfly mette in scena un ambizioso one-woman show al Carnegie Hall, dal titolo Butterfly McQueen and Friends. È il suo tentativo di riscrivere la narrazione, di mostrarsi al pubblico senza filtri né ruoli imposti. Ma lo spettacolo, nonostante l’importanza simbolica, si rivela un insuccesso commerciale e le costa quasi tutti i risparmi accumulati. È un duro colpo.
Costretta a reinventarsi ancora una volta, Butterfly affronta la quotidianità con tenacia. Inizia a lavorare in ruoli che vanno ben oltre il mondo dello spettacolo: è cameriera, guida turistica, commessa nel reparto giocattoli di Macy’s, addetta a un servizio taxi. La vedremo anche in fabbrica, in piccoli ristoranti, o alle prese con gruppi teatrali amatoriali. Non c’è vergogna nei suoi lavori, solo una costante ricerca di indipendenza e dignità. Anche quando il sipario si chiude, Butterfly continua a raccontare la sua storia — con il corpo, la voce, il cuore.
Negli anni Sessanta, Butterfly McQueen compie una scelta ben precisa: non cerca più la ribalta di Hollywood, ma una vita radicata nella comunità. Dopo un periodo trascorso ad Augusta, in Georgia, torna a Harlem, dove si sente pronta per una rinascita meno evidente, ma più autentica.
Al Mount Morris Park Recreation Center, inizia a lavorare come impiegata e insegnante di danza. Tiene lezioni di tip tap e balletto, circondata da bambini che non conoscono la sua fama ma intuiscono, dai suoi modi e dal suo sorriso, che c’è qualcosa di speciale in lei. Quegli allievi, inconsapevoli testimoni di una carriera silenziosa, la adorano. È qui, tra un passo di danza e una risata, che Butterfly ritrova un senso di appartenenza.
Nel frattempo, non rinuncia del tutto alla scena. Partecipa a piccole produzioni off-Broadway, tra cui un musical in cui interpreta una cuoca esuberante, e uno spettacolo a lei dedicato, dove mette in scena i suoi ricordi e la sua voce unica. Non è la gloria di Hollywood, ma un palcoscenico più intimo, forse più vero.
Come sempre, Butterfly si reinventa. Fa ogni tipo di lavoro per sostenersi: è cameriera, centralinista per un servizio taxi, addetta al reparto giocattoli di Macy’s, guida turistica, gestisce un piccolo ristorante, lavora in fabbrica e perfino come insegnante di musica. Ogni mansione diventa parte di un’esistenza dignitosa e tenace, vissuta sempre con leggerezza e spirito.
E poi, nel 1969, sorprende tutti partecipando a una puntata di The Dating Game, il celebre show televisivo di appuntamenti. Appare davanti alle telecamere con il suo solito brio, rispondendo alle domande con ironia e disinvoltura. Anche lontana dai riflettori, Butterfly trova sempre un modo per restare fedele a sé stessa. Perché in fondo, per lei, la vita è sempre stata un palcoscenico. Solo con un po’ meno trucco e molti più battiti sinceri.
Sapere è libertà
Negli anni Settanta, Butterfly McQueen prende una decisione che spiazza e affascina: a sessantaquattro anni si iscrive all’università. Non cerca né titoli né applausi. Cerca senso. Dopo una vita passata a dare voce a personaggi scritti da altri, ora è lei a voler scrivere — e riscriversi. Studia con passione, con lentezza, con ostinazione. Frequenta il City College di New York e si laurea in Scienze Politiche, spinta da una sete di conoscenza che nessuna fama aveva mai placato. Non ci sono riflettori in quelle aule, ma ci sono libri, discussioni, idee. E per Butterfly, è tutto ciò che conta. “Capire il mondo per cambiare me stessa”, dirà. E, in fondo, era sempre stato il suo vero ruolo.
Pochi anni dopo, nel 1979, mentre si trova al terminal degli autobus Greyhound di Washington, la realtà la colpisce in pieno volto. Una guardia di sicurezza la scambia per una ladra. Ne nasce un tafferuglio: viene scaraventata a terra, poi contro una ringhiera. Le costole si rompono, l’orgoglio anche. La polizia impiega ore a riconoscerla. “È stata la cosa più umiliante della mia vita,” dirà. Intenta causa alla compagnia e, dopo anni di battaglie legali, ottiene un risarcimento di 60.000 dollari. Ma i soldi non sanano la ferita più profonda: quella di essere stata invisibile, ancora una volta, nel paese che aveva applaudito Prissy ma ignorato Thelma McQueen.Eppure, anche questa volta, Butterfly si rialza. E lo fa nel modo più gentile possibile: donandosi alla sua comunità. Lavora come volontaria, organizza eventi per i bambini del quartiere, insegna danza e tap a chiunque abbia voglia di muovere i piedi e sorridere. Fa mille lavori, come sempre: guida turistica, centralinista, cuoca, cassiera, insegnante di danza, e anche conduttrice radiofonica. Il suo talento, inarrestabile, continua a brillare nei luoghi più piccoli, dove la grandezza si misura in empatia, non in incassi.
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, compare in due speciali televisivi per bambini prodotti da ABC, Seven Wishes for Joanna Peabody e Seven Wishes for a Rich Kid. Interpreta zia Thelma, una buffa fata madrina con il nome della sua infanzia. È un ruolo tenero, lieve, eppure intenso. Quel tocco magico le vale un Emmy Award come Miglior performer nella programmazione per bambini. Un riconoscimento tardivo, ma sincero.
Nel 1989, mentre il mondo celebra i cinquant’anni di Via col vento, Butterfly torna al centro della scena. Invitata a una commemorazione ufficiale, accetta con grazia ma non senza riserve. Davanti a un pubblico emozionato, prende la parola: non è Prissy, dice. E non lo è mai stata. Poi intona una dolce melodia, sulle note del tema di Tara, in un tributo tanto nostalgico quanto liberatorio. È un addio simbolico, a quel ruolo che l’ha fatta entrare nella leggenda — e che, per troppo tempo, l’ha anche intrappolata.
Lo stesso anno recita il suo ultimo ruolo, nel film per la televisione Polly, rivisitazione afroamericana del classico Pollyanna, con un cast tutto nero e due volti iconici della televisione: Phylicia Rashad e Keshia Knight Pulliam, madre e figlia nei Robinson. È solo una breve apparizione, ma significativa. È l’ultima volta che Butterfly varca una soglia di set. Stavolta non piange, non si ribella. Sorride, come sempre. E saluta.
L'ultima luce
Gli anni Novanta la vedono ritirata ad Augusta, in Georgia, in una piccola casa modesta, dove legge, insegna, scrive, ricorda. Vive con poco, ma vive bene. La sua indipendenza è totale, il suo umorismo intatto. “Sono una farfalla che ha imparato a volare anche sotto la pioggia,” dice una volta. Le sue giornate sono fatte di semplicità: qualche ora in biblioteca, qualche visita ai vicini, qualche passo di danza per i nipoti degli amici.
Ma nel dicembre del 1995, la tragedia bussa alla porta. Una stufa a kerosene esplode nel suo appartamento. L’incendio è devastante. Butterfly riporta ustioni gravissime sul 70% del corpo. Viene ricoverata d’urgenza, ma le complicazioni sono troppo gravi. Muore il 22 dicembre 1995, pochi giorni prima di Natale. Aveva ottantaquattro anni.
In un destino beffardo, la donna che da giovane aveva attraversato sullo schermo un’Atlanta in fiamme per mettersi in salvo, viene portata via, decenni dopo, da un incendio reale. Le fiamme, stavolta, non sono finzione. Ma se il fuoco ha potuto spegnere il corpo, non è riuscito a spegnere la sua voce. Quella voce acuta, indimenticabile, che ha fatto ridere, commuovere, discutere. E che, ancora oggi, riecheggia nei campus universitari e nelle memorie cinefile, accolta da risate affettuose e da un applauso che arriva tardi, ma arriva. E che lei, con tutta probabilità, non avrebbe mai smesso di ironizzare.
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- domenica, luglio 13, 2025
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