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Ci sono film in cui i gioielli non sono semplici decorazioni, ma veri protagonisti silenziosi. Uno di questi è Desiderio, una commedia sofisticata del 1936 con Marlene Dietrich.
Anche se non lo avete mai visto, immaginate una ladra elegante, un negozio di gioielli, un furto orchestrato con la precisione di una coreografia. E al centro della scena, un bracciale di smeraldi cabochon, lucido come una promessa.
Quel film l’ho sempre amato. Per il tono leggero ma tagliente, per la bellezza visiva, per il modo in cui riesce a far convivere romanticismo e disincanto. Ma solo di recente ho scoperto un dettaglio che, a suo modo, ha fatto la storia del cinema: i gioielli indossati da Dietrich non erano semplici pezzi di scena.
Erano creazioni autentiche, firmate da una maison americana che, proprio grazie a quel film, sarebbe diventata la prima a ricevere un credito ufficiale nei titoli di un lungometraggio hollywoodiano: Trabert & Hoeffer-Mauboussin.
E da lì in poi, tutto cambia. I gioielli diventano racconto, branding, identità visiva.
Questa è una storia di pietre, certo. Ma è anche una storia di strategie intelligenti, crisi economiche, fusioni internazionali, e design componibile. Una storia in cui la crisi del ’29 incontra il glamour di Hollywood. In cui un bracciale può diventare due spille, una collana, un anello.
E in cui il nome di un gioielliere comincia a brillare non più solo nelle vetrine della Fifth Avenue, ma sul grande schermo.
Dopo Flato e Verdura (di cui vi ho parlato qui), oggi vi racconto un altro modo di fare gioielleria: meno eccessivo, forse, ma non meno visionario.
L’unico rammarico che mi resta su questo articolo è non essere riuscita a trovare una foto, un ritratto, qualcosa che potesse aiutarci ad associare il nome di Trabert ad un volto. Vedrete però che il resto delle foto non vi deluderà.
Gli uomini dietro il nome
Come sempre, a me piace raccontare ancora più delle storie imprenditoriali: le storie degli uomini che c’erano dietro. Capire chi erano prima di diventare un marchio, cosa li ha formati, cosa li ha portati a quegli incontri che cambiano tutto.
Nel caso di Randolph J. Trabert e William Howard Hoeffer, questa ricerca è stata più complicata del solito.
Di Trabert si trova poco: qualche riga nei registri, un necrologio sobrio, e qua e là tracce sparse nei vecchi archivi del New York Times — un annuncio di matrimonio, una causa legale, piccoli episodi che non parlano di gioielli ma raccontano molto della sua posizione sociale, delle sue relazioni, del suo modo di stare al mondo.
Per Hoeffer, invece, è stato un articolo più recente a offrirmi uno spiraglio: a parlare di lui è stato il figlio, raccontando qualcosa della sua infanzia, della famiglia, della madre venezuelana (sia benedetto il sito Ancestry che mi ha permesso di districarmi da quel ginepraio che era il suo albero genealogico facendomi risalire di 4 generazioni per avere la conferma).
Ho deciso di mettere insieme tutto questo perché sono convinta che le storie si capiscano meglio quando si parte dalle persone, prima ancora che dai prodotti o dalle strategie. E se oggi possiamo parlare di Trabert & Hoeffer-Mauboussin, è perché ci sono stati due uomini, con due visioni, due vite molto diverse, che a un certo punto hanno deciso di fare qualcosa insieme.
L’uomo dietro la vetrina…
Di Randolph J. Trabert non si conoscono aneddoti spettacolari, né interviste, né fotografie in posa accanto alle star. Eppure, è stato lui a dare il primo impulso a una delle firme più celebri della gioielleria americana.
Nato nel 1869, entra nel mondo della gioielleria in un’epoca in cui il lusso si misura in discrezione, eleganza, rapporti personali costruiti con pazienza.
Prima di fondare la maison, lavora per Black, Starr & Frost, storico marchio americano. Un ambiente formativo, dove si impara non solo a selezionare pietre, ma anche a gestire clienti esigenti e abituati a essere ascoltati più che serviti.
Un frammento della sua vita compare nel 1922 in un articolo del New York Times: una causa intentata da lui stesso contro un affarista noto per le sue manovre azzardate, David Lamar. Trabert racconta di avergli affidato 100 azioni ferroviarie e 400 dollari in contanti con l’idea di investirli; Lamar sparisce, e Trabert lo trascina in tribunale.
È solo una nota di cronaca, certo. Ma dice molto: un uomo che non si fa raggirare, che si espone in prima persona, che protegge il proprio capitale.
Quattro anni dopo nel giugno del 1926, sempre grazie al New York Times, riappare in un contesto completamente diverso: il matrimonio della nipote Loretta Macy con Walter Perry Meyers, professore alla Law School della New York University. Trabert la accompagna all’altare nella Brick Presbyterian Church e ospita il ricevimento nella propria casa al 200 di West 54th Street. Non è solo un gesto affettuoso. È anche un’indicazione chiara del suo ruolo sociale: un uomo riconosciuto, rispettato, presente nella vita pubblica e familiare.
Attivo nella vita culturale e sportiva di New York, è iscritto al New York Athletic Club e al Pleiades Club, un circolo che riunisce artisti, scrittori, editori e uomini d'affari.
Un ambiente raffinato, cosmopolita, che ben si accorda con l’idea di gioielleria che porterà avanti con il suo socio.
… e l’uomo che sapeva guardare lontano
William Howard Hoeffer nasce a New York City il 16 aprile 1891, da una famiglia americana ben radicata, ma con un’eredità europea molto forte alle spalle.
I nonni paterni, William Friedrich Hoefer e Regina Barbara Boehmer, erano originari della Germania meridionale — lui di Stoccarda, lei con legami tra il Baden-Württemberg e la Baviera. Emigrarono negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento, stabilendosi nella contea di Schuylkill, in Pennsylvania, dove nel 1860 nacque Charles A. Hoeffer, padre di William, che avrebbe poi messo su famiglia a Manhattan con Emily F. Zoncada.
Cresciuto in una New York dinamica e colta, William si avvicina al mondo della gioielleria già negli anni Dieci. Nel 1915 lavora presso T. Kirkpatrick & Co., una raffinata gioielleria e galleria d’arte fondata da un immigrato scozzese e situata all’interno del prestigioso Waldorf Astoria Hotel.
È proprio lì che avviene l’incontro che gli cambierà la vita: conosce Randolph Trabert, con cui instaurerà un sodalizio fatto di equilibrio e complementarità.
Uno più classico, l’altro più visionario. Due percorsi diversi, che nei dieci anni successivi prenderanno strade autonome ma parallele.
Non si sa molto di quel periodo: Trabert andrà a lavorare per Black, Starr & Frost, mentre Hoeffer probabilmente coltiverà la sua rete di contatti, tra fornitori e clienti, osservando i cambiamenti del gusto e dell’economia americana.
Nel frattempo, nella sua vita privata, William costruisce una famiglia. Sposa Auristela Herrera Uslar, nata a Caracas nel 1906 in una famiglia aristocratica venezuelana. Non si sa quando e come si siano conosciuti, ma il nome di Auristela compare negli elenchi di Ellis Island e nei registri dei passeggeri del porto di New York, segno di un viaggio che l’ha portata dall’America Latina ai salotti newyorkesi.
Nel 1925 nasce il loro unico figlio, Howard Hoeffer Herrera, che crescerà in una casa elegante sulla East 88th Street, in un ambiente cosmopolita e raffinato.
Un anno dopo, nel 1926, William e Randolph si ritrovano. E questa volta, decidono di fare il salto.
Fonderanno la Trabert & Hoeffer Inc., un nome che — di lì a poco — comparirà nei titoli di testa del cinema americano.
Un sogno americano
Nel 1926, Hoeffer e Trabert si stringono la mano. Non è solo un accordo commerciale: è l’inizio di una visione. Da quell’intesa nasce Trabert & Hoeffer Inc., una maison pensata per un’America che ha voglia di affermarsi anche nello stile, non più solo nell’economia.
Aprono il primo negozio al 522 di Fifth Avenue, nello stesso edificio che ospita la sede della Guaranty Trust Company, una delle banche più solide e prestigiose di New York. Un indirizzo che conta, e che comunica fiducia. Quella vetrina è il loro manifesto.
I gioielli sono grandi, teatrali, fotografici. Pietre importanti, montate su disegni audaci ma accessibili, pensati per una nuova generazione di donne che non vogliono più aspettare che sia un marito a regalare un anello. Gioielli da comprare, indossare, esibire.
Hoeffer comprende in fretta che non basta vendere: serve raccontare, costruire un immaginario. E così, mentre i rivali pensano in oro bianco e diamanti, lui inizia a sognare a colori. Fin dall’inizio, Hoeffer non si accontenta di una sola sede.
Capisce che il lusso non vive solo a Manhattan, ma anche nei luoghi dove l’élite americana si rifugia e si mostra: Palm Beach, Atlantic City, Miami Beach, e soprattutto Los Angeles, che proprio in quegli anni comincia a trasformarsi nella capitale mondiale del cinema. Il negozio apre al 335 di Rodeo Drive, Beverly Hills.
Così, mentre il marchio si consolida sulla East Coast, nuove boutique spuntano nelle città del sole e del jet set, intercettando attrici, socialites e milionarie in vacanza. Non è solo una strategia commerciale: è una dichiarazione d’intenti. La gioielleria, secondo Hoeffer, non deve rimanere chiusa nei caveau, ma vivere nei luoghi in cui la gente sogna.
E dove si sogna più intensamente che a Hollywood? È proprio sulla West Coast che nasce l’idea visionaria che renderà il marchio unico nel suo genere: portare i gioielli sul grande schermo, non come accessori, ma come co-protagonisti delle storie.
L’intuizione arriva nel momento giusto. Il cinema sta vivendo la sua età dell’oro. Le attrici diventano miti, gli abiti e i gioielli che indossano dettano le mode. E Hoeffer, da vero pioniere, decide di entrare nel film.
Quando il lusso impara a cambiare pelle
Il 1929 è ricordato per il crollo della Borsa di New York, la fine eclatante di un decennio sfarzoso e la brusca frenata del sogno americano.
Ma alcuni mesi prima che la bolla speculativa scoppiasse, Trabert & Hoeffer pubblica sulla rivista specializzata Jewelers’ Circular un annuncio che sembra già indicare una direzione diversa: un paio di orecchini in diamanti attribuiti a Caterina la Grande, presentati come un gioiello storico e narrativo.
L’annuncio è firmato da R. J. Trabert in persona, che non si limita a descrivere l’oggetto, ma ne racconta l’origine imperiale, trasformando una pubblicità in una pagina di romanzo. Non è solo marketing: è un manifesto. L’oggetto come racconto, la gioielleria come immaginario. Un’intuizione che anticipa quella che diventerà la firma della maison.
E pochi mesi dopo, nell’aprile del 1930, accade l’impensabile: Randolph Trabert muore all’improvviso, colpito da un attacco di apoplessia, all’età di 61 anni.
Per William Howard Hoeffer non è solo una perdita personale: è un bivio. C’è un’identità da difendere e un’eredità da reinventare. E Hoeffer sceglie di andare avanti.
Capisce che non è il momento di ostentare, ma di innovare. Nascono così i primi gioielli trasformabili, pensati per adattarsi alla vita reale: spille che diventano pendenti, bracciali che si smontano in due clip, anelli con pietre intercambiabili. Una nuova idea di lusso, intelligente e mobile.
Ad ispirare questa svolta è anche un vento moderno che soffia da Parigi. Nel 1931, all’Exposition Coloniale, il pubblico internazionale scopre una nuova estetica: superfici lisce, geometrie semplificate, materiali innovativi, forme componibili.
Per realizzare questi gioielli si utilizza sempre più il casting, ovvero la fusione del metallo in stampi, una tecnica che permette di creare pezzi modulari, facilmente replicabili ma personalizzabili — belli come un’opera artigianale, ma più accessibili.
Negli Stati Uniti, questa estetica arriva anche attraverso il cinema: lo stile Art Déco si insinua nei set, negli arredi, nei costumi. Basta osservare i mondi luccicanti firmati da Cedric Gibbons per cogliere come quella modernità fluida e spettacolare stia ridefinendo l’immaginario (di Gibbons ve ne ho parlato qui).
Hoeffer lo capisce al volo. I suoi gioielli iniziano a somigliare a scenografie in miniatura: si muovono, si trasformano, raccontano. E presto, saranno pronti per entrare davvero in scena.
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Ad esempio questo anello si apre e al suo interno nasconde un orologio |
Il nome di Trabert & Hoeffer — e a breve anche quello di Mauboussin — inizia a viaggiare accanto a quelli dei grandi studi, delle attrici, dei registi. La gioielleria diventa parte dello star system. E mentre le luci dei riflettori si accendono, una nuova alleanza sta per nascere.
Una casa parigina, in cerca di salvezza, sta per incontrare l’uomo che sa trasformare ogni cosa in racconto.
From Paris with love
E ora, lasciate che per un attimo vi parli di un’altra storia. Non americana, non nata tra Fifth Avenue e Hollywood Boulevard.
Una storia che comincia quasi un secolo prima, a migliaia di chilometri di distanza, tra le pietre eleganti di Rue Lafayette, a Parigi.
Nel 1827, Monsieur Rocher apre un piccolo laboratorio di gioielleria. È l’inizio della maison che prenderà il nome di Mauboussin, destinata a diventare un punto di riferimento per l’alta gioielleria francese.
Nel corso dell’Ottocento, la casa si afferma tra le élite europee, partecipa alle grandi esposizioni internazionali, e conquista una reputazione fatta di raffinatezza artigianale, proporzioni armoniche e attenzione quasi architettonica alla forma.
Mauboussin non è solo eleganza: è precisione, equilibrio, visione, e già alla fine del secolo è tra le pochissime maison francesi a tenere testa a colossi come Cartier e Boucheron.
Il sogno americano è ambizioso, ma ha il tempismo peggiore possibile: poche settimane dopo, il 29 ottobre crolla Wall Street.
Il mercato del lusso si ferma. Le scorte si accumulano. Le sedi americane si svuotano. E così, nel giro di pochi anni, Mauboussin si trova a fare i conti con una ritirata elegante. Ma non definitiva.
Nel 1936, Hoeffer fa la sua mossa. Acquista il diritto di usare il nome, incorpora l’inventario, e fonde la tradizione francese con l’energia americana.
Da quell’incontro nasce Trabert & Hoeffer – Mauboussin: non più solo un marchio, ma un’identità nuova, ibrida, potente, immediatamente riconoscibile.
Gioielli da copione
A Hollywood, William Howard Hoeffer intuisce prima degli altri che la gioielleria può essere parte della sceneggiatura. Non più solo ornamento, ma racconto visivo. Se il cinema detta i sogni e le attrici dettano la moda, i gioielli devono essere lì: al centro dell’inquadratura, parte dell’azione, protagonisti silenziosi.
È così che, a metà degli anni Trenta, inizia a prestare le sue creazioni originali alle produzioni hollywoodiane. Ma pone una condizione rivoluzionaria per l’epoca: essere accreditato nei titoli di testa. È una strategia audace, che apre la strada a un nuovo modo di comunicare il lusso, e che nel tempo cambierà per sempre il rapporto tra moda, gioielleria e grande schermo.
Proprio dietro le quinte di quella stessa Hollywood, un altro nome sta iniziando a emergere: Eugene Joseff,
ex pubblicitario del Midwest, curioso, ambizioso, geniale. Amico del
costumista Walter Plunkett, Joseff lavora nel garage di casa a Sunset
Boulevard e inventa una formula opaca per metalli, per evitare riflessi
sul set.
Non viene dal mondo dell’alta gioielleria, ma dal mondo
dell’effetto scenico, e sta costruendo una nuova idea di “gioiello da
cinema”: più leggero, più versatile, pensato per la macchina da presa.
Non
sappiamo se lui e Hoeffer si siano mai stretti la mano, o se si siano
solo osservati a distanza, lavorando agli stessi film ma con finalità
diverse. Ma mentre Hoeffer porta sullo schermo i suoi veri rubini,
Joseff si appresta a diventare l’altro re del gioiello hollywoodiano — e
questa, ve lo prometto, è una storia che vi racconterò presto.
Il primo film a sancire ufficialmente l'alleanza tra il cinema e la gioielleria Hoeffer è Il giglio d’oro, commedia sofisticata diretta da Wesley Ruggles, con Claudette Colbert, Fred MacMurray e Ray Milland.
La trama racconta la storia di Marilyn David (Colbert), una dattilografa newyorkese dolce e indipendente, divisa tra due uomini: un collega giornalista che la ama in segreto, e un affascinante aristocratico inglese che nasconde la sua vera identità. Il film alterna leggerezza, ironia e riflessione sulla fama, e culmina in un’elegante festa da ballo dove tutto si gioca tra sguardi, silenzi e un ultimo valzer.
In quella scena, Claudette Colbert indossa un collier spettacolare in rubini e diamanti firmato Trabert & Hoeffer, destinato a segnare una svolta. È un gioiello componibile — un “jigsaw jewel” — pensato per essere smontato e ricomposto in forme diverse: collana, bracciale, tiara, o addirittura anello.
Il pezzo, come mostrato nelle immagini pubblicitarie, è composto da rubini taglio cabochon e diamanti tagliati in molteplici forme: circolari, baguette, ottagonali. La montatura in platino lega l’insieme in una geometria tipicamente Art Déco, con elementi simmetrici e una struttura visiva forte, quasi architettonica.
La sua particolarità, oltre alla trasformabilità, è proprio la modularità: ogni parte può vivere da sola o unirsi al resto, trasformando il gioiello in una piccola scenografia personale. Un concetto visionario per l’epoca, pensato per donne che volevano versatilità senza rinunciare allo sfarzo.
Ed è così che, per la prima volta nella storia del cinema americano, i titoli di testa di un film riportano la dicitura: "Jewels created by William Howard Hoeffer."
Un riconoscimento mai visto prima, che consacra il nome della maison tra le grandi protagoniste del glamour hollywoodiano.
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Howard Hoeffer mostra i gioielli a Claudette Colbert e il costumista Travis Banton |
Dopo Il giglio d’oro, la strategia di Hoeffer si consolida. La gioielleria diventa presenza costante sul grande schermo. Ma è con Modella di lusso, uscito nel 1937, che Trabert & Hoeffer-Mauboussin mette a segno il colpo più spettacolare.
Il film, diretto da Irving Cummings e prodotto da Walter Wanger, è una commedia romantica ambientata nel mondo dell’haute couture newyorkese, con Joan Bennett nel ruolo di Wendy Van Klettering, una debuttante capricciosa e incantevole. In un susseguirsi di defilé, scambi di coppia e colpi di scena, la pellicola è un trionfo di moda, colori e preziosi – resa ancora più sfavillante dal Technicolor.
Fin dall’apertura, si capisce che sarà qualcosa di diverso: il film si apre con una mano guantata che scosta un sipario, mostrando al pubblico la “Star of Burma”, un rubino cabochon da oltre 83 carati, montato su una sontuosa collana di platino e diamanti. È un gesto teatrale, e insieme un'affermazione commerciale: quella pietra, una delle più spettacolari mai viste sullo schermo, è stata prestata dalla maison T&HM appositamente per il film.
In una delle scene più memorabili, Wendy (Bennett) è in un palco a teatro, avvolta in un delicato abito rosa. Dall’altra parte della sala, una coppia la osserva con un binocolo, mentre la Star of Burma brilla al centro del suo décolleté, montata in una collana dal disegno elaborato. Nessuna battuta, nessuna azione: sono il colore del rubino, la luce dei diamanti e la messa in scena a raccontare tutto.
La Star of Burma era un vero rubino birmano, famoso per il suo colore “sangue di piccione” e per il taglio cabochon, che ne esalta la profondità e la lucentezza. Questo tipo di taglio bombato e liscio, senza sfaccettature, viene spesso usato per le pietre preziose opache o semitrasparenti. Ma nel caso delle stelle, come questa, il cabochon serve anche a rivelare un fenomeno ottico chiamato asterismo: una stella luminosa a sei punte che sembra fluttuare sulla superficie della pietra quando viene colpita dalla luce.
La collana fu pubblicizzata dalla maison come un pezzo unico, “The Only One”, e mostrata in una celebre pubblicità su sfondo nero.
Non si trattava solo di prestare un gioiello: si trattava di trasformarlo in un'icona.
A rendere tutto ancora più interessante c’è il legame dietro le quinte. Joan Bennett, protagonista del film, sposerà proprio Walter Wanger — il produttore — due anni dopo. La loro relazione, intensa e turbolenta, culminerà nel 1951 in uno degli scandali più chiacchierati di Hollywood: Wanger sparerà a Jennings Lang, agente della moglie, convinto che i due avessero una relazione.
Un dettaglio che col tempo ha fatto di Modella di lusso non solo un film elegante e divertente, ma anche una tappa centrale nella mitologia hollywoodiana — con la Star of Burma come simbolo scintillante al centro del dramma.
Nel 1937, Greta Garbo interpreta la contessa polacca Maria Walewska, amante di Napoleone Bonaparte, in Conquest, una delle sue performance più intense e malinconiche. Il film racconta il sacrificio di una donna, costretta a rinunciare all’amore per ragioni di stato. E proprio nel momento più drammatico — quando Maria vorrebbe confidare a Napoleone di essere incinta, e lui invece la lascia per sposare Maria Luisa d’Asburgo — entra in scena uno dei gioielli più straordinari mai apparsi sul grande schermo.
Garbo indossa, per la prima volta in tutto il film, una parure autentica d’epoca napoleonica, composta da collana e bracciali coordinati. La scena è carica di tensione emotiva, e i gioielli — fino a quel momento completamente assenti — sottolineano la gravità del momento. Sono composti da rubini, smeraldi, zaffiri, ametiste, topazi e smalti bianchi e neri, montati in oro. Non una riproduzione scenica, ma una suite originale appartenuta alla corte imperiale francese.
Il colpo di scena non è solo narrativo, ma anche produttivo: Trabert & Hoeffer-Mauboussin ottenne i gioielli grazie ai propri contatti europei, acquistandoli direttamente dalla granduchessa Immacolata d’Austria, e riuscì a farli apparire nel film con tanto di accredito ufficiale nei titoli:
“Napoleon Jewels through courtesy of Trabert & Hoeffer Inc., Mauboussin.”
Un riconoscimento rarissimo, che sancisce il prestigio ormai raggiunto dalla maison. Hoeffer era riuscito in un’impresa non da poco: portare gioielli storici autentici sul set di un film hollywoodiano, trasformando la gioielleria in strumento narrativo e testimonianza materiale di un’epoca. Il dettaglio della provenienza fu persino riportato sulla stampa dell’epoca e commentato nei circoli dell’alta società.
Tesori personali in scena
Se i gioielli prestati da Trabert & Hoeffer-Mauboussin ai film hollywoodiani contribuirono a costruire l’immaginario del glamour sullo schermo, quelli appartenuti personalmente alle star ne hanno definito l’identità fuori dal set. Alcune attrici, infatti, non indossavano gioielli di scena, ma portavano i propri: pezzi amati, scelti, vissuti. Oggetti che raccontano una relazione personale con la bellezza, con il potere, con se stesse.
Per Marlene Dietrich, i gioielli non erano semplici ornamenti: erano parte integrante della sua immagine, strumenti di seduzione, ma anche di controllo. Tra tutti, il suo set di smeraldi firmato Trabert & Hoeffer-Mauboussin è quello che più la rappresenta. Lo indossa in ritratti fotografici, ai party hollywoodiani, ma anche sullo schermo, in film come Desiderio (1936), dove interpreta una ladra di gioielli tanto elegante quanto inafferrabile.
Il bracciale, realizzato in platino, è composto da diamanti taglio pavé, baguette e rotondi, con al centro un grande smeraldo cabochon, affiancato da sei perle di smeraldo incastonate. La clip abbinata, che si può separare in due pendenti, presenta lo stesso motivo: un cabochon centrale incorniciato da diamanti tagliati a mezzaluna, baguette e rotondi.
Il taglio cabochon — che lascia la gemma liscia e bombata, senza sfaccettature — veniva spesso scelto per pietre particolarmente pregiate, perché ne esaltava la profondità e il colore. E nei cabochon di Dietrich, lo smeraldo sembrava avere una sua luce interna, verdissima, magnetica, teatrale come lei.
Maria Riva, nella biografia della madre Marlene, ricorda così quegli smeraldi: “il più grande era grande quanto un uovo di categoria A, il più piccolo, comunque più grande di una grossa biglia”.
Se c’è una diva che ha saputo usare i gioielli come dichiarazione di indipendenza, quella è Paulette Goddard. Ironica, tagliente, imprevedibile: non aspettava che qualcuno le regalasse diamanti, se li comprava da sola. E quando li riceveva, sapeva come trasformarli in simboli — come accadde con Via col vento, quando sembrava ormai certo che sarebbe stata lei a interpretare Rossella O’Hara.
Tutto era pronto: i provini superati, l’approvazione di David O. Selznick. Ma all’ultimo momento, il fratello del produttore, Myron Selznick, tira fuori dal cilindro un asso inaspettato: una giovane attrice britannica dagli occhi magnetici, Vivien Leigh. Il resto è storia.
Per consolarla, Charlie Chaplin, con cui aveva una relazione, le regalò un capolavoro: un set di smeraldi e diamanti firmato Trabert & Hoeffer-Mauboussin. Il pezzo principale era un bracciale floreale, formato da due grandi teste di fiore con smeraldi cabochon e diamanti, ma includeva anche una spilla abbinata, poi trasformata in una coppia di orecchini a clip. Gioielli luminosi, teatrali, pensati per farsi notare.
Paulette li indossa in una delle sue interpretazioni più brillanti: Donne (1939), una commedia tutta al femminile diretta da George Cukor, ambientata tra le ricche signore dell’alta società newyorkese. Il suo personaggio, Miriam Aarons, è una ex ballerina dallo spirito tagliente, e nella sua prima scena del film, quando la vediamo su un treno diretto a Reno per ottenere il divorzio, l’outfit con cappa e cappuccio è impeccabile — ma sono i gioielli a rubare la scena.
Nel 1945, Paulette Goddard torna sul grande schermo con Kitty, un dramma storico ambientato nella Londra del Settecento. Il film racconta la trasformazione di una giovane venditrice di strada in nobildonna, grazie a un sapiente mix di intelligenza, seduzione e strategia sociale. Un personaggio che evolve scena dopo scena, proprio come i suoi gioielli.
Nella sequenza finale, Goddard indossa uno dei suoi pezzi più amati: una collana adattabile con frange a voluta di diamanti, firmata Trabert & Hoeffer-Mauboussin. Il design è sontuoso: diamanti taglio tondo, rettangolare, baguette, ottagonale e cuscino compongono una struttura flessibile, leggera e al tempo stesso scenografica. Il retro della collana è un delicato susseguirsi di diamanti tondi, culminanti in un marquise centrale, montati in platino.
Come se non bastasse, la collana era modulare, pensata per essere indossata anche in versione bracciale — ed è proprio così che Paulette la mostra in alcune foto promozionali, accanto all’anello di fidanzamento e alla fede che aveva ricevuto da Chaplin.
Quando una giornalista, notando la quantità di diamanti, le chiese come avesse ottenuto un gioiello tanto ricco, Paulette sorrise: “L’ho avuta fidanzandomi così spesso. Non restituisco mai niente.”
Un motto che è tutto un programma. E un’altra prova di quanto il gioiello, per lei, non fosse semplice decorazione. Era un’estensione del personaggio — e della donna.
Infine c'è un gioiello che non è mai apparso in un film, non ha condiviso la scena con altri attori, non ha brillato sotto i riflettori dei set. Eppure, è riuscito a far parlare di sé. A diventare leggenda.
Si chiama Star of Bombay, ed è legato a una delle figure più iconiche della Hollywood delle origini: Mary Pickford.
Regina silenziosa del cinema muto, Pickford ricevette questa straordinaria pietra dal suo compagno Douglas Fairbanks. Un gesto d’amore che diventa, nei decenni, un gesto di memoria. Il gioiello, firmato Trabert & Hoeffer, è un anello in platino montato con uno zaffiro stellato di 182 carati, dal colore blu profondo e dalla caratteristica stella a sei punte che si rivela sulla superficie quando colpita dalla luce.
Una stella che, secondo la tradizione, rappresenta fede, speranza e destino — o, per chi ama le leggende, tre angeli custodi che vegliano su chi la indossa.
Pickford lo ha portato con sé per quasi sessant’anni, facendone il proprio talismano. E alla sua morte, ha compiuto un ultimo, generoso atto: ha donato la Star of Bombay allo Smithsonian, dove ancora oggi è esposta al pubblico.
Un gioiello che ha vissuto lontano dalle cineprese, ma che è riuscito comunque a raccontare una storia — forse la più intima di tutte.
Il tramonto di un’epoca
Durante gli anni Quaranta, il nome Trabert & Hoeffer-Mauboussin continua a circolare tra i salotti dell’alta società e i set cinematografici. Le boutique si moltiplicano — da Beverly Hills a Palm Beach, da Atlantic City a Parigi — e Hoeffer, sempre più solo al timone, porta avanti la sua visione con ostinata eleganza. I gioielli riflettono lo spirito del tempo: sono meno opulenti ma più intelligenti, giocano con la modularità, con la trasformazione, con l’idea di un lusso flessibile e personale.
Ma qualcosa cambia. La Seconda guerra mondiale spezza gli equilibri del mercato e impone nuove priorità. Le risorse si riducono, i metalli preziosi vengono requisiti per l’industria bellica, e il governo impone una tassa sul lusso che penalizza duramente il settore della gioielleria. Le sedi di Miami Beach, Atlantic City e Palm Beach vengono requisite dall’esercito, trasformate in centri operativi militari.
Eppure, anche in quegli anni incerti, l’azienda continua a produrre: grazie alla linea Reflection, che unisce design e accessibilità, e al riutilizzo creativo delle gemme dei clienti, Hoeffer riesce a mantenere viva l’identità della maison. I gioielli diventano più piccoli, ma non meno significativi: zodiaci, lettere, simboli, piccoli dettagli che raccontano storie private.
Con la fine della guerra, però, anche la magia inizia a svanire. Nel 1951 Hoeffer cede le sue quote, e nel 1953 Mauboussin si ritira dall’accordo, riprendendo il controllo del marchio. La Hollywood che aveva reso celebri i jigsaw jewels sta cambiando volto. Le nuove dive scelgono altre firme, altri stili.
William Howard Hoeffer si ritira ufficialmente nel 1956, e nel 1968 muore in silenzio, lontano dai riflettori. Con lui si chiude una stagione irripetibile, fatta di sogni, intuizioni e metallo fuso in forma di desiderio.
La boutique di Chicago, l’unica ancora aperta per decenni, ha chiuso i battenti solo nel 2019. Ma i gioielli, quelli no. Quelli vivono ancora, nelle aste internazionali, nei musei, nei ritratti delle star e nei fotogrammi dei film. Come piccoli monumenti incastonati nel tempo: portano con loro storie, sogni e l’impronta discreta di chi li ha creati.
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- venerdì, maggio 23, 2025
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