Angoscia (Gaslight): il film che ha dato un nome alla manipolazione

lunedì, luglio 07, 2025

Ci sono film che entrano nella storia del cinema. Angoscia va oltre: entra nel linguaggio comune, al punto che ha dato il nome a un vero e proprio fenomeno psicologico.
Se oggi parliamo di gaslighting per descrivere una manipolazione mentale subdola e devastante, lo dobbiamo proprio a questo film del 1944, che ha saputo raccontare,  come nessuno prima , l’inquietudine di non potersi fidare nemmeno dei propri pensieri. E l’ha fatto mettendo al centro una casa, una donna e un uomo che, con gentilezza e precisione, spegneva poco a poco ogni certezza.


È uno dei film che mi avete chiesto più spesso, e per tanto tempo l’ho rimandato. Non perché non lo meritasse, anzi, è uno dei vertici assoluti del cinema degli anni ’40, ma per via del doppiaggio italiano, che lo rende difficile da apprezzare nella sua pienezza. Oggi però, non solo ve ne parlo: ve lo racconto, ve lo mostro, ve lo restituisco.
E non è solo un viaggio nella storia di un grande classico. In questo articolo vi porto tra aneddoti, tensioni sul set, dettagli nascosti nei costumi e scenografie che parlano da sole. E alla fine, troverete anche il film completo, pronto per essere (ri)visto con occhi nuovi. Con l’attenzione che merita. E con la consapevolezza che, dietro quel titolo elegante e spiazzante, si nasconde qualcosa di più profondo: un’esperienza emotiva che ci riguarda ancora oggi.

Angoscia


 

Il titolo originale è Gaslight ed è un film del 1944 diretto da George Cukor con protagonisti Ingrid Bergman e Charles Boyer.
La trama in breve: Paula Alquist è la nipote di una famosa cantante lirica inglese che dopo l'assassinio della zia si trasferisce in Italia per studiare canto. Qui conosce e si innamora del pianista Gregory Anton con il quale si sposa dopo poco. Il marito la convince a tornare a vivere nella casa di Londra della zia per superare le sue paure. Ben presto però iniziano ad accadere strane situazioni e Paula arriva, dietro spinta del marito, a dubitare di se stessa.

Alcune scene del film

Foto promozionali

Durante gli anni della Seconda guerra mondiale, Hollywood si ritrova a essere non solo una fabbrica di sogni, ma anche un laboratorio di paure. Mentre il mondo è alle prese con il caos e l’incertezza, il cinema americano riflette — e insieme elabora — le inquietudini del suo tempo. Lo fa in modi diversi: da un lato con musical scintillanti e film di propaganda patriottica, pensati per rafforzare lo spirito nazionale; dall’altro, con una produzione più cupa, fatta di noir e drammi psicologici, in cui l’angoscia, il dubbio e l’isolamento diventano protagonisti silenziosi.
È proprio in questa seconda corrente che prende forma un sottogenere preciso, quasi un riflesso distorto della sicurezza domestica che il cinema del decennio precedente aveva celebrato. Al centro, una figura femminile ben riconoscibile: la giovane donna innamorata e vulnerabile, spesso minacciata da chi dovrebbe prendersi cura di lei.
Joan Fontaine ne è forse l’emblema, con due ruoli entrati nella memoria collettiva: prima in Rebecca, la prima moglie (1940), poi in Il sospetto (Suspicion, 1941), entrambi diretti da Alfred Hitchcock. Negli anni successivi, Katharine Hepburn in Tragico segreto (1946), Barbara Stanwyck in Il terrore corre sul filo (1948) e Elizabeth Taylor in Alto tradimento (1949) interpretano variazioni sullo stesso tema.
In questi film, la casa smette di essere un rifugio sicuro. Diventa una trappola, un luogo in cui la realtà si sfalda e l’amore si contamina di sospetto.
In quel periodo, si avverte la necessità di raccontare un’altra forma di guerra, più silenziosa e sottile: quella che si combatte tra le mura di casa, quando la realtà comincia a cedere sotto il peso del dubbio. 

Angoscia affonda le sue radici in un'opera teatrale britannica che, già prima della guerra, aveva conquistato il pubblico con la sua tensione sottile e l’atmosfera opprimente. Scritta da Patrick Hamilton (lo stesso autore che nel 1929 ha scritto Rope da cui Hitchcock ha tratto Nodo alla gola), la pièce debutta a Londra nel 1938 con il titolo Gas Light, mettendo in scena una storia che gioca tutto sulla manipolazione e sull’erosione della realtà. Il successo è immediato.


Nel 1940, il regista Thorold Dickinson ne firma una prima versione cinematografica, prodotta in Gran Bretagna e interpretata da Diana Wynyard e Anton Walbrook. La Columbia Pictures ne acquista i diritti di distribuzione per il mercato statunitense, e pianifica di rilasciarla con un titolo alternativo: A Strange Case of Murder. Ma qualcosa si complica.
Nel frattempo, Shepard Traube, produttore teatrale americano, porta la commedia a Broadway con il titolo Angel Street. Il debutto avviene nel dicembre 1941 al John Golden Theater, e la pièce si rivela un successo clamoroso: resterà in scena per quasi 1.300 repliche, con un cast che include Judith Evelyn, Vincent Price e Leo G. Carroll.
Quando Traube scopre l’intenzione della Columbia di distribuire il film britannico, ottiene un’ingiunzione legale per bloccarne l’uscita negli Stati Uniti. Non detiene i diritti cinematografici, ma ha il controllo della versione teatrale americana e teme che il film possa danneggiarne la popolarità.
A quel punto entra in gioco la Metro Goldwyn Mayer, intenzionata a produrre una nuova versione per il grande schermo. Dopo aver scoperto che i diritti cinematografici non sono nelle mani di Traube, bensì degli originali proprietari inglesi, lo studio avvia una lunga trattativa e riesce infine ad acquisirli, pagando 150.000 dollari – una cifra considerevole per l’epoca.
Intorno a questo nuovo progetto cominciano a circolare delle voci: nell’agosto 1944 il New York Times riporta il sospetto che la MGM abbia distrutto tutte le copie esistenti del film britannico, lasciandone solo una (forse) dimenticata negli archivi del British Film Institute.
In realtà, il film inglese sopravvive. Anni dopo, nel 1953, sarà finalmente distribuito negli Stati Uniti da una piccola casa indipendente, la Commercial Pictures, con il titolo Angel Street.

In un primo momento, la regia di Angoscia viene affidata a Vincente Minnelli. È un nome di prestigio per la MGM, un regista dal gusto estetico inconfondibile, ma forse troppo elegante e stilizzato per una storia di paranoia domestica e manipolazione. La svolta arriva quando due figure chiave del progetto, Walter Reisch e John Van Druten, si espongono in prima persona: per loro, l’unico in grado di trovare la giusta atmosfera è George Cukor.


A Hollywood, Cukor ha già una reputazione solidissima. È considerato un maestro nel dirigere attrici, tanto da essersi guadagnato la definizione — affettuosa ma riduttiva — di “regista per donne”. Fino a quel momento ha firmato commedie raffinate come Donne (1939), Incantesimo (1938) e Scandalo a Filadelfia (1940), ma anche drammi più classici come Piccole donne (1933) o La signora delle camelie (1937). Nessuno però immagina davvero che possa trasformare una pièce teatrale in un film dallo stile cupo, soffocante, quasi minaccioso. E invece è proprio quello che accade.
Cukor spiega il suo approccio con una frase che racchiude tutto il suo metodo: “Lo stile nasce dalla storia”. Dice di non voler imporre un’estetica predefinita, ma di lasciarsi guidare dal testo, dalla materia narrativa, dall’atmosfera stessa della vicenda. “Se la storia è ambientata in una casa vittoriana, piena di ombre e segreti, sarà la casa stessa a dettare lo stile del film.” 

A capire che questo equilibrio fragile ha bisogno proprio di lui è il produttore Arthur Hornblow Jr., che si affida alla coppia Reisch–Van Druten per costruire la sceneggiatura. I due sceneggiatori, racconta Reisch in una lunga intervista contenuta nel libro "Backstory 2 di Patrick McGilligan", lavorano in perfetta sintonia. In meno di dieci settimane consegnano la sceneggiatura pronta, senza scuse, senza rallentamenti, senza scomparire “in preda all’alcol”, come scherza Reisch. “Hornblow sapeva che eravamo affidabili”, dice. E in effetti, lo sono.

Quando Van Druten, più sensibile e riflessivo, si ritira per una pausa nel suo ranch a Indio, tocca a Reisch restare sul set. Non è un compito di rappresentanza: Cukor lo vuole lì, ogni giorno, a discutere ogni scena, ogni battuta, ogni modifica necessaria per adattare il copione al momento, agli attori, all’energia che si respira durante le riprese. È un lavoro a quattro mani tra regista e sceneggiatore, fatto di continui aggiustamenti e confronti.
Quanto a John Balderston, il terzo nome nei crediti della sceneggiatura, Reisch lo ricorda con ironia: “Non l’ho mai visto sul set. Forse ha ritoccato una battuta. Era uno di quei casi in cui c’era un contratto da onorare, e un nome da mettere in locandina.” In pratica, la vera anima del copione nasce da lui e Van Druten, ma senza alcuna rigidità. Non partono dal testo teatrale per replicarlo: lo smontano, lo riscrivono, lo piegano alle esigenze del film. Perfino la svolta narrativa dei gioielli nascosti, elemento chiave nella struttura del film, non esisteva nella versione teatrale: è un’invenzione tutta loro.
La scelta di Cukor, inizialmente poco ortodossa, si rivela in perfetto equilibrio con questo spirito creativo: preciso ma flessibile, elegante ma mai decorativo, capace di dare al film una voce visiva unica, fatta di penombre, silenzi e sguardi che non si spiegano a parole. 

Quando Melvyn Douglas, inizialmente previsto come protagonista, lascia il progetto per arruolarsi nell’esercito, la produzione si ritrova a dover ripensare da capo il cast maschile. È in quel momento che Charles Boyer decide di farsi avanti. È lui, per una volta, a voler fortemente un ruolo, e non il contrario.


Il ruolo in Angoscia lo attrae proprio perché è l’opposto di quello che il pubblico si aspetta da lui. Gregory Anton è un personaggio ambiguo, manipolatore, spietato. Boyer intuisce che potrebbe essere una svolta. E così si propone, convinto anche dalla regia di George Cukor, che sa essere elegante ma capace di spingersi in territori più oscuri. È una delle poche volte in carriera in cui sceglie attivamente un progetto, e non si limita ad accettare copioni selezionati da altri.
Boyer accetta anche di trasformarsi fisicamente. Non teme di mostrare la stempiatura e un inizio di pancetta da uomo maturo, ben lontano dalla perfezione del rubacuori da copertina. Anzi, lo considera un passo necessario per scrollarsi di dosso la patina da “grande amante” del grande schermo e provare a essere finalmente un attore prima che un simbolo.
Il contratto firmato da Boyer include una clausola precisa: il primo nome nei titoli di testa. È una condizione che, all’epoca, rappresenta non solo un onore, ma anche un segno tangibile dello status di una star. E quando verrà scritturata la protagonista femminile, proprio questa clausola darà origine a una lunga trattativa, che minaccerà perfino la realizzazione del film. Ma questa è un’altra storia.
Per Boyer, Angoscia è uno dei pochi ruoli da vero villain, e resterà probabilmente il più riuscito. Il suo Gregory è elegante, affascinante e inquietante, capace di tenere in bilico lo spettatore tra ammirazione e terrore. È il tipo di cattivo che seduce anche quando si sa perfettamente dove sta andando a parare. E proprio per questo, è anche una delle interpretazioni più sorprendenti della sua carriera. 

Nel 1943, Ingrid Bergman è ovunque. È appena uscito Casablanca, con il suo sguardo indecifrabile rivolto a Humphrey Bogart, e sta girando Per chi suona la campana accanto a Gary Cooper. Ha già completato le riprese di Saratoga Trunk, anche se la sua uscita verrà posticipata di due anni. La “ragazza svedese”, come veniva chiamata agli esordi, è ormai diventata una delle star più ambite di Hollywood.

Dietro questa ascesa vertiginosa c’è David O. Selznick, che l’ha introdotta al pubblico americano con Intermezzo e ha saputo gestire la sua carriera con una cura strategica quasi ossessiva. 
Selznick aveva prodotto personalmente Intermezzo (1939), remake in lingua inglese del film svedese omonimo, pensato per lanciare Ingrid Bergman nel mercato americano. Ma la sua “importazione” a Hollywood fu tutt’altro che lineare.

Il 16 agosto 1938, dopo aver visto il film in svedese, Selznick telegrafa alla sua collaboratrice Kay Brown da Los Angeles, chiedendole di verificare se quella ragazza che lo aveva tanto colpito fosse davvero Ingrid Bergman—“i titoli di coda erano in svedese, non ci ho capito nulla,” si lamenta. E se sì, ordina: “prenotale un corso d’inglese e un biglietto per New York.”
Ma poi tentenna. Quando decide finalmente di “acquistarla”, lo fa con grande cautela. Bergman avrebbe dovuto arrivare con un altro nome, e soprattutto senza una campagna pubblicitaria troppo vistosa: “il pubblico americano è stufo delle attrici straniere, a meno che non si infiltrino in sordina come Hedy Lamarr.”
E quando Ingrid arriva davvero a Los Angeles, Selznick—già alle prese con il lancio complicatissimo di un’altra attrice straniera, la britannica Vivien Leigh, sul set di Via col vento—entra nel panico: “È vero che è alta 1 metro e 77? Dovremo usare una scaletta per farla recitare accanto a Leslie Howard?”
Selznick la presta agli altri studi con parsimonia, solo per progetti che possano rafforzare la sua immagine e consolidarne lo status.
Quando la MGM si prepara a realizzare Angoscia, il ruolo della moglie era stato inizialmente pensato per Hedy Lamarr. Ma dopo il suo rifiuto, è la stessa Bergman a proporre se stessa per la parte. Dopo aver visto lo spettacolo a Broadway vuole fortemente quel personaggio: una donna che lentamente scivola nel dubbio e nella paura, vittima di una manipolazione che mina la sua identità.
Il problema nasce immediatamente. Selznick pretende il primo nome nei titoli di testa per la sua attrice, altrimenti non è disposto a cederla. Ma Charles Boyer aveva già firmato il contratto con la clausola che gli garantiva proprio quella posizione. Nessuno vuole cedere. Il conflitto sembra senza uscita, e per un momento si teme che la parte venga affidata a Greer Garson.
È a quel punto che Bergman prende in mano la situazione. Si presenta da Selznick in lacrime, lo implora di cedere, gli confessa quanto tenga a quel ruolo. Non le interessa il primo nome nei titoli. Vuole solo fare il film. Alla fine, Selznick si lascerà convincere grazie ad uno stratagemma e l’inserimento di un altro suo attore di cui vi parlo tra poco.

Lo sceneggiatore Walter Reisch ricorderà anni dopo quanto fosse perplesso all’inizio per la scelta della Bergman: Ingrid, con la sua presenza vigorosa e sicura, sembrava tutto fuorché una donna vulnerabile sul punto di crollare. E gli stessi dubbi li aveva in fondo anche lei. “Sono troppo forte per quel ruolo,” diceva. Era alta, atletica, con un’energia quasi solare. Come poteva rendere credibile la fragilità mentale della protagonista?
Ma George Cukor vede proprio in questo contrasto la chiave giusta. Non vuole un’attrice già debole, ma una donna forte che venga lentamente spezzata. “Non era normalmente una donna timida; era sana,” dirà anni dopo. “Ridurre qualcuno come lei a una creatura spaventata e nervosa è interessante e drammatico.”
La tensione tra l’identità pubblica dell’attrice e la dissoluzione privata del personaggio sarà uno degli elementi più potenti di Angoscia. E proprio perché Ingrid Bergman non era “già perfetta” per quel ruolo, finirà per trasformarlo in qualcosa di indimenticabile. 

Nel frattempo, anche il terzo ruolo principale del film attraversa una fase di incertezza. Inizialmente, la parte dell’ispettore Brian Cameron era stata assegnata a George Reeves, come annunciato nell’agosto del 1943. Ma poco dopo, Reeves viene richiamato al servizio militare, e la produzione è costretta a trovare un sostituto. È qui che entra in gioco Joseph Cotten, altra stella della scuderia di Selznick, reduce dal successo de L’ombra del dubbio e in piena fase di rilancio come nuovo volto romantico del cinema americano. 

 

La sua presenza nel cast non solo rafforza il profilo commerciale del film, ma offre anche una soluzione diplomatica alla disputa sui titoli di testa.
A proporla è George Cukor, che suggerisce un espediente già collaudato: la “sandwich billing”. Il nome di Ingrid Bergman viene inserito tra quelli di Charles Boyer e Joseph Cotten, ricreando quella simmetria promozionale che gli studios adoravano, e che lo stesso Cukor aveva utilizzato qualche anno prima in Scandalo a Filadelfia con Katharine Hepburn. Una mossa che placa tutti gli ego coinvolti e permette finalmente alla produzione di decollare.

Angela Lansbury entra nel film quasi per caso. Eppure, da quell’occasione fortuita nascerà una delle carriere più longeve e amate del cinema e della televisione americana.


Tutto comincia quando George Cukor si trova davanti a un problema: serve un’attrice per il ruolo di Nancy, la cameriera giovane e sfacciata, una figura secondaria solo sulla carta. Cercano fra attrici inglesi già presenti a Hollywood, ma nessuna convince. Non hanno “la freschezza giusta”, dirà più tardi il regista.
È allora che John Van Druten, co-sceneggiatore del film, fa un nome inaspettato: Moyna MacGill, attrice britannica rifugiatasi in California con i suoi figli per sfuggire alla guerra. “So che ha una figlia adolescente,” dice. “Non so se sappia recitare, ma potresti provare a incontrarla.”
 In quel periodo, la ragazza in questione lavora da Bullock’s Wilshire, lo storico grande magazzino di Los Angeles, preparando pacchetti regalo per il Natale (di questo emporio ve ne ho parlato qui). Ed è lì che la produzione la contatta.
Quando si presenta al provino, Angela Lansbury non ha mai recitato professionalmente. Ma qualcosa in lei colpisce subito Cukor: quel volto un po’ imbronciato, sfacciato, un’impertinenza naturale che sembra venire da dentro. “Era un personaggio completo già alla prima lettura,” ricorderà. In un primo momento, però, la sua presenza viene giudicata “non abbastanza sexy” per il ruolo. Cukor, forse per incoraggiarla, la chiama per dirle che non avrebbe ottenuto la parte, ma che la considera “una ragazza di grande talento”.
Poi le cose cambiano. Angela ottiene il ruolo, e il primo giorno sul set si muove come se avesse sempre fatto quel mestiere. Non ha l’esperienza, ma ha già l’istinto, la capacità di trasformarsi senza sforzo apparente, e quella presenza scenica che cattura l’attenzione anche in silenzio.
Il risultato è sorprendente. La sua interpretazione non passa inosservata: quella ragazza sconosciuta, appena diciassettenne, dimostra un’intensità naturale e una presenza scenica che spiazzano anche i più esperti. “Una rifugiata inglese di 17 anni… mostra un grande potenziale,” scriverà Louella Parsons. Hollywood Reporter la definisce “una promessa”, mentre Daily Variety commenterà “Angela Lansbury ha fatto centro”.

Nel ruolo della vicina di casa Miss Thwaites, May Whitty aggiunge al film un tocco di ironia e umanità tutta inglese. Apparentemente un personaggio di contorno, è in realtà la prima a intuire che qualcosa non va nella casa accanto, diventando un’osservatrice silenziosa e fondamentale nell’economia del racconto.


Attrice di lungo corso, Dame May Whitty è stata la prima donna di teatro a ricevere il titolo di “Dame” dell’Impero Britannico, nel 1918, per il suo impegno a favore dei soldati durante la Prima guerra mondiale. Dopo una carriera brillante in Inghilterra, si trasferisce negli Stati Uniti e diventa uno dei volti più riconoscibili del cinema hollywoodiano degli anni ’30 e ’40, sempre con quel mix perfetto di autorevolezza e calore.
È la misteriosa passeggera scomparsa ne La signora scompare (1938) di Hitchcock, la madre ansiosa in Il sospetto (1941), e una nobile dolce e premurosa in Le bianche scogliere di Dover (1944).
Di questa caratterista ve ne ho parlato meglio qui.

Le riprese di Angoscia iniziano nell’agosto del 1943 e proseguono fino a dicembre. La prima scena che Ingrid Bergman è costretta a girare è, per sua sfortuna, una delle più romantiche: il momento in cui salta giù da una carrozza ferroviaria e corre tra le braccia di Charles Boyer. Un abbraccio appassionato, da girare con un collega che conosce a malapena, e che per di più è più basso di lei. Per sistemare l’inquadratura, Boyer deve salire su una cassetta di legno, nascosta fuori campo. “Era più facile morire dal ridere che sembrare innamorati,” scriverà Bergman anni dopo nella sua autobiografia.
L’esperienza le resta impressa al punto da trasformarsi in regola: mai più una scena d’amore come prima scena da girare. E quando, anni dopo, deve recitare in Goodbye Again accanto a Anthony Perkins, che interpreta il suo giovane amante, lo invita nel camerino poco prima di iniziare le riprese e gli chiede, con naturalezza: “Baciami ora, così almeno non arrossisco davanti alla macchina da presa.” Una strategia semplice, ma efficace.
Ma non è l’unica che affronta difficoltà pratiche. Anche Charles Boyer, con la sua statura contenuta, deve indossare scarpe con la zeppa in molte scene per risultare più imponente – specialmente accanto a Bergman e ad Angela Lansbury, entrambe alte 1,73. Cukor sfrutta questa soluzione tecnica per accentuare il senso di controllo e oppressione che il suo personaggio esercita, anche a livello visivo.
E a proposito di Angela Lansbury: c’è un altro episodio che oggi farebbe gridare allo scandalo e chiamare la protezione minori. All’epoca ancora diciassettenne, Angela è seguita sul set da un’insegnante e da un’assistente sociale, come previsto per gli attori minorenni. In una scena chiave, il suo personaggio deve accendersi una sigaretta con tono di sfida verso la padrona di casa. Ma nessuno le permette di fumare finché non compie diciott’anni. Il 16 ottobre, il giorno del suo compleanno, il cast le organizza una festa, e poco dopo – solo allora – la scena viene finalmente girata, sigaretta compresa.
Nel frattempo, la vita personale di Charles Boyer si tinge di emozione vera. Sua moglie Pat, dopo anni di tentativi e delusioni, è incinta. Boyer, che non vuole lasciarla sola un momento, la accompagna alle visite mediche, le legge testi teatrali ad alta voce e prende in mano ogni aspetto della gravidanza con la premura di chi non vuole correre alcun rischio. Contava di finire le riprese prima del parto, previsto per Natale, ma il bambino decide diversamente.
Il 9 dicembre 1943, una telefonata lo raggiunge sul set: Pat ha partorito. Boyer non fa in tempo ad arrivare in ospedale. Quando torna sul set, ha ancora gli occhi lucidi e in mano una bottiglia di champagne. Bergman ricorderà: “Aveva un figlio! Champagne – tutti dovevano bere champagne! Ancora champagne e le lacrime di Charles che cadevano in ogni bicchiere. Sembrava che nessun altro al mondo avesse mai avuto un figlio prima d’allora.” In quel momento, il confine tra recita e realtà si sfuma. E Angoscia, pur immerso nella finzione, si colora per un attimo di vita vera.

Sul set, Ingrid Bergman si riposa su una speciale “sedia da set” inclinata: una struttura ideata per permettere alle attrici in costume di rilassarsi tra una scena e l’altra senza sgualcire l’abito né rovinare trucco e acconciatura.

Circa un mese dopo la fine delle riprese, David O. Selznick — produttore leggendario e penna instancabile, famoso a Hollywood per i suoi lunghissimi e meticolosi memo — invia a Louis B. Mayer una nota confidenziale interamente dedicata a Angoscia. È il gesto di un uomo visionario, lungimirante, che individua quei dettagli in grado di trasformare un buon film in un capolavoro. Ma, soprattutto, è l’intervento di qualcuno che sa fare ciò che molti, anche tra le grandi personalità dell’industria, troppo spesso dimenticano: mettersi nei panni del pubblico.
Selznick non ha prodotto il film, ma è stato vicino al progetto fin dall’inizio, per via dei suoi rapporti con Arthur Hornblow Jr., George Cukor, Ingrid Bergman e Joseph Cotten. Il memo, pur essendo pieno di lodi — “Il film è magnificamente prodotto e diretto,” scrive, “e lo studio può esserne fiero” — non risparmia critiche né suggerimenti concreti.
Il primo nodo è la chiarezza narrativa delle sequenze iniziali. “Sfido qualsiasi spettatore che non conosca già la storia a capire che diavolo stia succedendo,” scrive senza mezzi termini, criticando il prologo poco esplicito e certi passaggi di montaggio troppo ellittici.
Ma la vera questione, secondo Selznick, è narrativa e psicologica: la rivelazione troppo precoce della colpevolezza di Gregory Anton. Se il pubblico potesse credere, almeno per un po’, che Boyer sia un marito amorevole alle prese con una moglie fragile, il momento della scoperta avrebbe un impatto devastante. Così, invece, “la narrazione deve sopravvivere due ore senza un secondo atto sufficientemente forte.”
Ancora più importante è ciò che manca: una vera tensione erotico-affettiva tra i due protagonisti. “Abbiamo una sola scena d’amore sul lago di Como,” osserva, “e poi più nulla. Il pubblico ha bisogno di vedere che lei è perdutamente innamorata, anche mentre lui la distrugge. Senza questo, non si capisce perché resti con lui.” Selznick propone di aggiungere due nuove sequenze: una in cui Boyer sia tenero e seduttivo, e una in cui la vulnerabilità emotiva di Bergman esploda con tutta la sua intensità. “È grande spettacolo. È quello che il pubblico si aspetta da due star come loro.”
Ma è nel commento alla scena finale che il memo tocca il suo punto più alto. Selznick implora letteralmente lo studio di rigirarla: il confronto tra Paula e Gregory — con lui legato alla sedia — è centrale, e può essere la chiave per un riconoscimento importante. “Vi prego, come favore personale, di rifare quella sequenza. So cosa Bergman è capace di fare in quel momento. Potrebbe valerle l’Oscar.” La scena viene effettivamente rigirata. Ed è proprio quella performance che porterà Ingrid Bergman alla sua prima statuetta.
C’è spazio anche per l’ironia, e per un rimpianto: l’assenza della celebre scena del cappello dimenticato, presente nell’opera teatrale Angel Street. A teatro, racconta Selznick, il pubblico si alzava urlando “Il cappello! Il cappello!” È, scrive, “il momento più discusso nella storia del melodramma teatrale della nostra generazione”. Ma la MGM decide di non includerlo.
Non tutti i suggerimenti verranno accolti, ma questo memo resta una testimonianza rara del tipo di attenzione e intelligenza emotiva che possono fare la differenza. Angoscia sarebbe stato comunque un buon film. Ma con quei ritocchi — la scena finale rigirata, la maggiore ambiguità, la centralità emotiva della protagonista — è diventato qualcosa di più. Un classico.

I costumi

È impossibile parlare di Angoscia senza soffermarsi su Irene, la celebre costumista di casa MGM, che qui costruisce per Ingrid Bergman un guardaroba tanto raffinato quanto narrativamente potente. I suoi abiti non sono semplici ricostruzioni d’epoca: sono dispositivi drammaturgici. Segnano la discesa graduale della protagonista verso l’insicurezza e la perdita di sé, raccontando attraverso sete, lane e pizzi la fragilità psicologica che cresce silenziosa sotto il peso dell’illusione domestica.


Nel film, ogni cambio d’abito riflette uno slittamento interiore. La Paula vestita da ragazza felice e innamorata non è più la stessa che, pochi minuti dopo, attraversa i saloni bui della sua nuova casa a Thornton Square. Irene accompagna questa trasformazione con mano invisibile, ma precisissima. E lo fa anche grazie a piccoli dettagli: una silhouette più rigida, un colletto più alto, un tessuto che si fa più spesso — fino all’ultimo, iconico abito a strati, che restituisce la tensione tra passato e presente, tra libertà e prigionia.
Già nella prima scena, Paula è ancora solo una giovane donna innamorata. Indossa un abito a righe grigio e panna, con il corpetto che disegna linee diagonali convergenti verso il centro e una lunga gonna a pieghe. Ha i capelli sciolti sulle spalle, elemento raro per l’epoca e potentissimo sul piano simbolico: è ancora libera, piena di vita. Irene accentua questa freschezza con tocchi femminili ma casti — il colletto in pizzo, la cintura nera lucida, una piccola spilla. È l’unica volta in cui vedremo Paula correre, letteralmente, tra le braccia di qualcuno.


Il secondo costume, quello del viaggio in treno verso Como, suggerisce già un cambiamento. Il taglio è più netto, il cappotto aderente e stratificato, con una gonna color bordeaux e una camicetta chiara dai toni burrosi. Il cappello ha un piccolo velo e l’effetto generale è quello di una donna adulta, “composta”. Ma siamo ancora lontani dall’oppressione che la aspetta. Irene dosa il rigore con una certa eleganza sobria — come se Paula volesse già piacere, essere all’altezza della vita che la aspetta. Il look è strutturato, ma non ancora una gabbia.

 

All’arrivo a Londra, la trasformazione è più sottile. L’abito è sfumato nelle tonalità del beige e del marrone, con un corpetto leggermente più rigido e maniche più definite. Un piccolo fiocco nero decora il collo, il cappello è più scuro e meno frivolo. Paula sembra ancora emozionata, ma l’atmosfera cambia. Siamo davanti alla soglia della casa, e l’abito la rende per la prima volta una “padrona di casa”, non più un’innamorata. Eppure, tra le pieghe dell’abito si insinua già un presagio: quella casa sarà una trappola.

Quando finalmente Gregory la lascia uscire, per una visita al museo, Irene le cuce addosso un abito da giorno bianco, completamente in pizzo. È un vestito bellissimo, quasi eccessivo per l’occasione. La gonna è ampia, il busto sagomato, un nastro nero scende lungo la schiena e accompagna i movimenti. Gli accessori — cappellino in pizzo, guanti e borsetta coordinata — raccontano un’apparenza ritrovata, una felicità effimera. È un’illusione luminosa, quella della vita sociale che torna. Ma dietro quella luce, già si intravede l’ombra del controllo.

La vestaglia da sera in satin azzurro, bordata da delicati ricami argentati, entra in scena proprio quando la casa comincia a trasformarsi in prigione. Paula la indossa sopra una camicia da notte di pizzo bianco mentre il marito è “fuori a lavorare”, e il gas inizia a tremolare.
Il contrasto tra l’eleganza del capo – fluido, morbido, raffinato – e l’angoscia crescente che invade la stanza, amplifica il senso di spaesamento. Questo costume è conservato oggi in collezione, e la sua confezione rivela la cura maniacale dei dettagli: satin di seta azzurro, rifiniture a mano, linea affusolata ma comoda. 

 

Nel momento in cui l’inganno si fa più feroce, Irene veste Paula con un austero abito nero in velluto con inserti in pizzo bianco. È l’inizio della sequenza del quadro scomparso, una delle più celebri del film. È il costume della frattura, quello in cui Paula, umiliata e confusa, viene accusata per la prima volta di star perdendo il senno. Mentre la macchina da presa si stringe sui suoi occhi smarriti, l’abito accompagna visivamente il passaggio dall’incertezza alla totale perdita di controllo. Il nero domina la scena, ma il bianco del colletto e dei polsini – quasi infantili – suggerisce ancora un residuo di innocenza. 


In occasione del ricevimento, Paula tenta un gesto di ribellione. Contro il parere del marito, si veste da gran sera per uscire. Ma anche in questo tentativo, Irene non le concede trionfo: l’abito da sera bianco, con corpetto strutturato e dettagli gioiello, è sontuoso ma non trionfale. È l’abito di chi vuole essere vista, ma finisce di nuovo messa a tacere. 


Il bianco qui non è più purezza, ma un disperato bisogno di tornare a esistere. Quando Gregory le accusa di aver rubato l’orologio, la figura elegantissima di Paula si spezza. Il pianto davanti agli ospiti, l’umiliazione pubblica, l’uscita frettolosa: ogni piega del tessuto sembra congelarsi, come se anche il vestito, a quel punto, si avvolgesse su se stesso vergognandosi di essere indossato. 

Nella parte finale, quando l’illusione si dissolve e la verità comincia a farsi strada, Irene veste Paula con un completo più cupo, ma anche più saldo. È un abito da giorno, composto da una blusa in pizzo, una gonna lunga e un corpetto più rigido, senza vezzi inutili. I capelli sono raccolti. È la donna che ha attraversato l’inferno e che – pur ancora fragile – sta per riemergere. Un costume meno spettacolare, ma più significativo: l’armatura con cui affronta finalmente l’uomo che l’ha distrutta. 

Anche l'abbigliamento di Boyer non è lasciato al caso. Come la giacca bordeaux in velluto con colletto e polsini in velluto nero indossata da Gregory Anton nelle scene ambientate in casa. Si tratta di una smoking jacket, capo maschile nato nell’Ottocento per essere indossato in casa, durante il dopocena, quando gli uomini si ritiravano a fumare o conversare. La sua funzione era duplice: pratica (evitava che l’odore del fumo impregnasse l’abito da giorno) e simbolica, perché segnalava un momento di transizione, un passaggio all’intimità domestica, all’interno della sfera privata.
Nel caso di Angoscia, questa giacca diventa qualcosa di più. È il simbolo del potere “domestico” che Gregory esercita: un’autorità apparentemente affabile e rilassata, ma in realtà asfissiante. La scelta del colore, un bordeaux profondo e vellutato, accentua il contrasto tra fascino e minaccia.

Nel ruolo della vicina ficcanaso ma provvidenziale, May Whitty indossa un completo in tre pezzi davvero notevole: abito in crêpe di lana marrone con giacca coordinata, rifinito da ricami neri, perline decorative e un orlo con frangia a pompon.
Il costume riesce a essere sobrio ma distintivo, conferendo al personaggio una dignità quasi aristocratica e, al tempo stesso, un tocco di eccentricità britannica.
La qualità del capo era tale che, alcuni anni dopo, fu riutilizzato nel 1949 per Florence Auer nel film That Forsyte Woman, segno della longevità e versatilità dei costumi MGM.



Anche un costume che, nel film, appare solo come “reliquia” conserva tutta la cura del dettaglio che contraddistingue il lavoro di Irene. Quando Gregory Anton esplora la soffitta alla ricerca dei gioielli nascosti, tra vecchie scatole e oggetti dimenticati, trova anche l’abito della zia Alice — il vestito che la cantante lirica indossava in scena prima di essere assassinata.
Il capo è costruito con la stessa ricercatezza degli altri: tessuti pesanti, decorazioni teatrali, taglio ottocentesco.

Un’ultima chicca arriva direttamente dai magazzini MGM. Il completo vittoriano a righe, indossato da Angela Lansbury nelle sue scene come cameriera Nancy, ha una storia sorprendente: era già apparso sullo schermo tre anni prima, indossato da Ingrid Bergman nel ruolo di Ivy Peterson in Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1941), in una delle sue prime performance hollywoodiane. A disegnare il costume era stato Adrian, il celebre stilista di casa MGM. Di solito, gli abiti venivano riutilizzati per comparse o ruoli secondari, ma in questo caso il vestito è passato da una protagonista all’altra — quasi un passaggio di testimone tra due attrici destinate a lasciare il segno. Un piccolo gesto di economia produttiva che oggi vale oro per i collezionisti: non capita spesso che un solo abito sia stato indossato da due icone del cinema nello stesso decennio.

Scenografie

L’atmosfera di Angoscia vive e respira dentro una casa. Non è solo un luogo d’azione: è un personaggio a sé, che osserva, soffoca, confonde.
La casa vittoriana in cui si svolge gran parte del film diventa il cuore visivo e simbolico della vicenda, con interni cupi e opprimenti che riflettono il tormento della protagonista. Quando Paula (Ingrid Bergman) e Gregory (Charles Boyer) si trasferiscono nella casa in cui la zia di Paula è stata assassinata anni prima, il pubblico viene accolto da stanze soffocanti: mobili coperti da teli, lampadari avvolti in reti e pareti tappezzate di ricordi sbiaditi. “Tutto qui odora di morte,” commenta Paula. E quella sensazione non ci abbandona più.

Con il progredire della trama, anche la casa si trasforma. Ogni oggetto, ogni angolo, sembra partecipare al delirio della protagonista. Emergono dettagli ricercati come divani in satin e un raro pianoforte in palissandro, trovato all’asta in Inghilterra. Ma questi elementi non sono mai puramente decorativi: diventano strumenti narrativi, parte di una messinscena crudele che contribuisce a intensificare il senso di manipolazione e intrappolamento.
Per questo lavoro, Cedric Gibbons, storico art director della MGM di cui vi ho parlato qui,   riceve un Oscar, insieme al decoratore Paul Huldschinsky, la vera rivelazione del progetto. Rifugiato tedesco, Huldschinsky era fuggito in America per scampare alla guerra. Aveva perso ricchezze e privilegi – la sua famiglia possedeva giornali, sua moglie era erede di una fortuna ferroviaria – ma non aveva perso l’occhio. Nei primi anni a Hollywood lavorava in ruoli secondari, firmando arredamenti per stazioni di servizio o interni ordinari, spesso non accreditati.


Fu George Cukor a individuarlo, riconoscendo in lui una sensibilità visiva che lo studio tendeva a ignorare. Quando la MGM propone un nome più noto per firmare Angoscia, il regista si impunta: vuole Huldschinsky. Vuole qualcuno che conosca davvero il peso del passato, il linguaggio silenzioso degli oggetti, la malinconia degli spazi chiusi. La scelta si rivela geniale.
Gli interni vengono costruiti negli studi MGM, ma sembrano respirare nebbia e silenzio, come se davvero appartenessero a una Londra cupa e vittoriana. Cedric Gibbons supervisiona il progetto, come da prassi, ma lascia spazio alla visione di Huldschinsky, che modella l’angoscia in ogni dettaglio d’arredo.

Un dettaglio curioso: il letto in ottone con la struttura a “collo di cigno” che appare nella stanza d’albergo all’inizio del film viene riutilizzato dalla MGM l’anno successivo in Incontriamoci a Saint Louis (1944), nella camera da letto di Judy Garland. In Angoscia, però, diventa simbolo claustrofobico per eccellenza: non è un rifugio, ma una prigione.


Con Angoscia, la MGM mostra quanto lo spazio possa influenzare la psiche. E quanto una casa, costruita tra legno e velluto, possa diventare il luogo più pericoloso del mondo.

La prima proiezione pubblica di Angoscia si tiene il 4 maggio 1944 al Capitol Theatre di New York. 


Il film, prodotto con un budget considerevole di due milioni di dollari, ne incassa più del doppio: 4,6 milioni al botteghino. Il successo commerciale è immediato, ma ancor più significativa è la risposta della critica, che riconosce nell’opera un equilibrio raro tra tensione psicologica, eleganza formale e forza interpretativa.
Il New York Times, elogia i “piacevoli ritratti personali” offerti da Cotten, May Whitty e una giovane Angela Lansbury, mentre Variety sottolinea la qualità della produzione, capace di trasporre il dramma teatrale con ritmo e intensità cinematografica.
Alcuni critici più sofisticati, come Larry Swindell nella sua biografia su Boyer, si soffermano sull’arte della sottrazione: “Boyer dimostra il suo potere nella recitazione sotto le righe”, scrive, lodando in particolare la scena in cui Gregory trova i gioielli — e sceglie di non esultare.  
Nel suo articolo del 26 maggio 1944, la giornalista Louella Parsons scrive con entusiasmo del successo di Angoscia e annuncia che Alfred Hitchcock ha già messo gli occhi su Ingrid Bergman per il suo prossimo film, The House of Edwardes (Io ti salverò), convinto che l’attrice sia perfetta per un altro “shocker”. Ma è nelle righe finali della rubrica che emerge qualcosa di ancora più significativo: una lettera ricevuta da un soldato di stanza in Alaska, il quale racconta l’effetto che Ingrid ha avuto sui ragazzi dell’esercito.
“Avrebbe potuto essere la classica diva inavvicinabile,” scrive il soldato, “e invece è arrivata come una del gruppo — ha ballato con tutti noi. Era come uscita da un altro mondo, e per molti è stato il momento più vicino alla pace e al paradiso che vivremo mai, almeno finché resteremo nell’esercito.”
Una testimonianza semplice e toccante che spiega, meglio di molte analisi critiche, perché Ingrid Bergman in quegli anni sia diventata ben più di una star: una presenza luminosa, umana, profondamente amata.
Il vero trionfo arriva con gli Oscar del 1945. Ingrid Bergman riceve la sua prima statuetta come Miglior Attrice mentre sta girando The Bells of St. Mary’s, e durante il discorso scherza: “Mi fa particolarmente piacere riceverlo, perché sto lavorando proprio ora con il signor Crosby e il signor McCarey. E temo che se mi fossi presentata domani sul set senza un premio, nessuno dei due mi avrebbe rivolto la parola.” Il premio per la scenografia va invece a Cedric Gibbons, William Ferrari e Paul Huldschinsky,  l’oscuro arredatore tedesco voluto da Cukor, che firma una delle case più inquietanti e memorabili della MGM.
L’eredità di Angoscia è talmente forte che, negli anni ’50, viene persino parodiato da Jack Benny in un episodio del suo show. La versione satirica si intitola Autolight: Barbara Stanwyck interpreta una “Paula” esagerata e grottesca, mentre Benny gioca con il personaggio manipolatore di Boyer. La MGM minaccia di fare causa per violazione di copyright, ma gli avvocati dell’attore sostengono, con successo, che si tratta di una parodia. Anche questo è un segno del successo di Angoscia: essere riconoscibile al punto da diventare riferimento comico nella cultura pop.
Ci sono articoli che scrivo tutto d’un fiato. E poi ce ne sono altri, come questo, che diventano un viaggio. Un pezzo alla volta, giorno dopo giorno, mi sono ritrovata dentro la nebbia di Thornton Square, tra quelle stanze ovattate, quel gas che tremola, quella tensione che cresce senza rumore.
Non è stato solo un lavoro di ricerca: è stato come camminare accanto a loro, Bergman, Boyer, Lansbury, Cukor, e ascoltarli, osservarli, capirli. Ritrovare la paura, la bellezza, le contraddizioni, le scelte, i dettagli. E finalmente vederli prendere forma.
Angoscia è uno dei film che mi avete chiesto più spesso. Forse perché col tempo è diventato qualcosa di più di un grande classico: è un film che ha dato un nome a un fenomeno, che ha lasciato un’impronta vera. Ma per raccontarlo davvero, avevo bisogno di attraversarlo. E ora che l’ho fatto, spero di avervi portate e portati con me.
Il film lo trovate qui sotto.
Che sia la prima volta o una nuova visione, ora lo guarderete sapendo tutto quello che c’è dietro. Perché Angoscia non è solo un grande classico. È uno di quei film che entrano nella testa (e nel cuore) e non ne escono più.
 
QUOTES:
Gregory: Voglio sposarti. Hai paura?
Paula: Credo di sì. Un po'.
GregoryDi me?
Paula: No: questo no, mai. Della felicità. Non ne ho mai avuta molta e ho l'impressione di non potermi fidare: devi darmi il tempo di abituarmi.
 
Gregory: Sono stato a Londra una volta, d'inverno, e ho avuto la sensazione che non ci sia un'altra città al mondo più fredda per chi non ha una casa sua e più calda per chi ce l'ha.  
 
Miss Thwaites: Oh è così emozionante!
Paula: Il suo libro?
Miss Thwaites: Si, parla di una ragazza che sposa un uomo e lo crederebbe? Lui ha già sei mogli sepolte in cantina. 
Paula: Oh un bel numero. 
Miss Thwaites: E sono solo a pagina duecento, quindi sono sicura che succederà dell'altro. Oh è un libro bellissimo.
Paula: Mi sembra un po' macabro. 
Miss Thwaites: Si, confesso che mi diverte un bell'omicidio ogni tanto. Mio fratello mi chiama Bessie la sanguinaria. Gradisce un biscotto? Biscotti digestivi. Che brutto nome vero? Io li ho ribattezzati biscotti diggy. 
 
Gregory: Cosa stavi sognando?
Paula: La nostra vita assieme.
Gregory: Cosa della nostra vita?
Paula: I posti dove andremo tu e io, tutti incantevoli, come questo.
Gregory: Anch'io stavo pensando la nostra vita, solo che la pensavo in musica. Sai, la voglio scrivere.
Paula: Sì? Com'è?
Gregory: Una musica tutta pervasa di felicità, e voglio... che si senta l'alba.
Paula: Quest'alba!
Gregory: Sì. Con il sole che sorge, e illumina i tuoi capelli. Però non so come finisce. Forse non finisce finché non finisco io. 


Il film potete vederlo comodamente qui:

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